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A' rebours
di Valentina Ceciliato
Pubblicato su PB20


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A' rebours

Da qualche parte in Prussia, qualche secolo fa.

"Piove ancora, Meister Petzingen" disse la giovane Paula con rassegnazione, scostando le tendine rosse dalle finestre e guardando le sottili linee disegnate dalle gocce di pioggia.

"Vai pure a casa, Paula, prima che la strada diventi un pantano e tu sia costretta a dormire qui."

La giovane si voltò, rassettandosi la cuffia.

"Ne è sicuro, Meister? Non le ho ancora preparato la cena..."

"Non importa, davvero. Posso riuscirci da solo, stanne certa. Vai a trovare i tuoi genitori e i tuoi fratelli."

La ragazza sorrise e si allontanò, con un breve cenno del capo. Petzingen tornò assorto nella sua lettura: "Critica della ragion pura". Un filosofo del tempo, un tale che lui non aveva mai sentito prima, aveva scritto quel tomo invero interessante. Certo, se non fosse stato amico di un amico di un conoscente di un editore, non l'avrebbe mai sentito, probabilmente...ciò non toglieva nulla al fascino di quella lettura. Era un libro ben scritto, proprio ben scritto.

"Io allora vado e la saluto..." disse la voce ferma e gentile di Paula. Petzingen alzò benevolo gli occhi e la salutò di rimando. Avvolta nella sua immensa mantella di lana grigia, un tempo appartenuta a suo nonno, la giovane alta e magra sembrava sparire tra le pieghe.

Aprì la porta e una folata di vento gelido fece crepitare la fiamma del camino e spense le due o tre candele sparse nel salotto affollato di libri di ogni genere di Meister Petzingen, bibliotecario di Schtrumpf, sperdutissimo paesino prussiano abbandonato e dimenticato dal mondo. La folata gelò il sangue di Petzingen che si preparò al peggio- e infatti, quando la ragazza chiuse la porta con forza, le candele si spensero e un paio di soprammobili caddero.

Petzingen sospirò e tornò alla lettura, fregandosi la corta barba con lentezza, meditabondo. Presto, però, si rese conto che gli occhi gli dolevano, e che comunque non sarebbe mai riuscito a leggere con calma a quell'ora della sera. Non aveva neanche fame, ma non aveva osato dirlo a Paula; la ragazza si sarebbe senz'altro preoccupata. Ragazza testarda, pensava. Il padre e la madre non erano che dei poveri contadini, e i suoi due fratellini più piccoli erano troppo giovani per svolgere qualsiasi lavoro; tuttavia lei metteva in ordine e cucinava per lui - lui le dava qualche soldo in cambio del servizio sempre impeccabile, nonostante il disordine necessitato dalla mole di libri- e, come se non bastasse, Paula aveva anche imparato praticamente da sola a leggere e a scrivere, unica nella sua famiglia. Aveva un grande carattere.

Gli occhi gli si fecero pesanti, e Petzingen chiuse il libro. Si accomodò più confortevolmente sulla poltrona e si rilassò. Il vento fischiava con più violenza lì, nella periferia del paesino; la sua casa era esposta più delle altre, perché da un lato non si estendeva praticamente nulla, dall'altro invece iniziava il villaggio. La pioggia era aumentata, era in corso un vero e proprio diluvio.

"Tempo da lupi..." pensò Petzingen già immerso nel dormiveglia.

Uno scalpitare d'un cavallo e un forte nitrito lo svegliarono di soprassalto. Il rumore degli zoccoli sul terreno molle era attutito, ma l'animale sembrava molto agitato. Petzingen guardò fuori dalla finestra, e vide un cavaliere in gravi ambasce: la sua cavalcatura si stava ribellando furiosamente, e presto o tardi sarebbe caduto proprio dinanzi casa sua. Petzingen si alzò, ancora stordito, e cercò disperatamente una giacca per uscire, quando un urlo e un tonfo lo fecero sobbalzare di nuovo.

Imprecò a mezza voce, e mentre usciva, coperto alla meglio, scorse il cavallo allontanarsi dal paese, al galoppo. Per terra, sporco e fradicio, il cavaliere si muoveva ancora. Sollevato, Petzingen si avvicinò e lo tirò su, meravigliandosi che pesasse così poco. Lo fece entrare in casa, lo appoggiò sulla poltrona accanto al fuoco, poi lottando contro il vento fortissimo richiuse la porta e, spogliandosi velocemente, tornò ad occuparsi dello sfortunato cavallerizzo.

Non aveva segni visibili di forti colpi, tuttavia non sembrava cosciente: aveva gli occhi chiusi e mormorava a bassissima voce cose inintelligibili. Un grosso cappotto lordo di fango e acqua lo copriva tutto: Petzingen provvide a toglierglielo. Sotto, era vestito in maniera elegante, ma sobria, nei toni del marrone e del verde scuro. Una coda di fradici capelli mossi e castani incorniciava il viso di un giovane, forse poco più che un ragazzino. Petzingen provvide a racimolare coperte e cuscini, in breve tutto ciò che potesse scaldarlo e farlo rinvenire.

"N-no...ti prego...non uccidermi..." disse d'un tratto, a voce più alta, lo sconosciuto.

Petzingen lo guardò preoccupato. Vaneggiava... gli pose una mano sulla fronte. Bruciava!

"Farò quello che vuoi, non uccidermi! No..."

Continuava ad implorare, con gli occhi chiusi e senza avvertire nulla di ciò che aveva intorno. Petzingen bagnò un fazzoletto nel catino dell'acqua, e lo pose sulla fronte del ragazzo. Subito sembrò chetarsi, e smise di farneticare. Dal calore sulla sua fronte e dal suo comportamento, il bibliotecario concluse che non era stata la caduta a ridurlo così; quasi certamente il cavallo si era imbizzarrito perché il padrone non aveva più saputo governarlo. Chissà da cosa stava scappando... Non sembrava un poveraccio, né un brigante: i suoi vestiti mostravano che doveva essere perlomeno di una ricca famiglia borghese, se non nobile. Dopo un po' di pezze bagnate, il respiro del giovane si fece regolare, e sembrò addormentarsi. Petzingen lo spostò con delicatezza di lato, in modo che potesse dormire meglio, ma ad un tratto il ragazzo alzò il capo e sembrò riscuotersi: aprì gli occhi e li batté più volte, come per sincerarsi di essere del tutto sveglio.

"Siete in salvo, signorino, e siete nella casa di Franz Heinrich Von Petzingen, dopo una brutta caduta da cavallo. Vi sentite bene?"

Il giovane lo guardò smarrito per un attimo, poi si tirò su a sedere sulla poltrona.

"Quindi...sono riuscito ad uscire dalla foresta?" chiese in buon tedesco, ma arrotando le erre. Era francese? "Sapete, i lupi mi hanno circondato, e già non mi sentivo benissimo...il cavallo alla vista degli animali è impazzito, e mi ha condotto dove voleva lui. Temevo di non uscire più vivo da quel posto infernale."

"Non preoccupatevi ora, siete salvo, anche se non posso dire lo stesso della vostra cavalcatura. E' scappata nella tempesta, tornando verso i prodromi della foresta che si estendono poco al di fuori del nostro villaggio."

L'uomo sorrise, volendo apparire affabile verso quello straniero. Il giovane lo guardò, e Petzingen rimase colpito da quegli occhi: avevano ciglia lunghe e folte, ed erano di un caldo castano, molto intenso.

"Questa non ci voleva. Purtroppo ho molta fretta: devo arrivare a Danzica, e da lì imbarcarmi."

Petzingen lo squadrò, dubbioso.

"Vuole fuggire dalla Prussia?" pensò tra sé. " Non gli sarà facilissimo raggiungere Danzica...ci sono molte truppe prussiane, intorno a quella città."

Il giovane sorrise brevemente.

"So che state pensando febbrilmente a cosa potrei essere. Tranquillizzatevi: non sono un brigante. Anche se preferirei non dire il mio nome, non si sa mai. Comunque, potete chiamarmi Julius."

***

La stanza degli ospiti non era stata usata da un'eternità, ma nonostante gli evidenti disagi, Julius non si lamentò della sistemazione. Petzingen andò a dormire incuriosito da quel figuro strano, piombato all'improvviso da chissà dove. Senza dubbio era francese: l'accento era lieve e trascurabile, ma un attento ascoltatore come lui non poteva sbagliare. C'era qualcosa di strano in lui, a parte il mistero sui suoi propositi. Era un bel giovane, ma era molto pallido; aveva una certa grazia nei movimenti, ma gli era sembrato particolarmente languido, come se una profonda spossatezza lo consumasse. Certo, era senza dubbio dato dalla brutta avventura della sera. Si addormentò con un brivido che attribuì al freddo.

E sognò di nuovo quella ragazzina, quella ragazzina di qualche anno prima... Era stata una sera come tante, era estate, il Sole era da poco tramontato e ancora qualche raggio illuminava il cielo, altrove già blu. Su una cavalcatura ben diversa, più malandata e pacifica, era giunta una viandante alla sua casa. Già allora la sua magione sembrava il riparo perfetto per i viandanti, evidentemente: era mediamente grande e confortevole, era fuori dal centro del paese, il suo proprietario era di buon cuore e disposto ad accogliere gli sperduti. E così era arrivata una ragazzina, a suo dire si chiamava Dietlinde ed era in viaggio per andare al fronte vicino a Danzica, allora già aperto e destinato a non chiudersi troppo presto. Gli aveva detto che voleva trovare il suo fidanzato là. Franz era rimasto impressionato dall'abnegazione di quella creatura, con quel viso ancora tondo come quello di una bimba, dai grandi occhi castani e dai lunghi capelli bruni, lisci come seta. E dalle mani tremanti e il colorito cereo. L'aveva tenuta con sé due giorni: ed ogni volta che cercava di avvicinarla, lei tremava, e i suoi occhi diventavano lucidi, anche se poi si scusava subito dell'accaduto. Se solo avesse capito cosa turbava quella povera anima...prima del fatidico terzo giorno, anzi, della seconda notte. Ella cominciò ad avere degli spasmi, e lui si ricordava quella scena maledettamente bene...Spasmi, e sangue, e dolore atroce, lei diceva, dolore atroce alla pancia. Abortì quella notte ciò che forse non avrebbe mai dovuto portare in grembo. Fuggì dopo quella nottata, vergognosa di se stessa. Era davvero al fronte il suo fidanzato? O l'aveva lasciato alle sue spalle, insieme all'infamia che l'avrebbe dovuta circondare di lì a poco, se il frutto di quello sbaglio non fosse morto prima della madre?

Franz non poteva dimenticarsi quello sguardo braccato, spaventato, e dei suoi movimenti lenti e dolorosi. Quegli occhi...quello sguardo. Il giovane che ora dormiva nella stanza accanto alla sua non aveva forse la stessa paura, la stessa angoscia? Non avrebbe dovuto aiutarlo come poteva, sebbene fosse un completo sconosciuto?

***

Il mattino seguente, Petzingen fu svegliato dal rumore della porta del piano terra che si apriva. Paula era puntuale, come al solito. Lo sorprese però il fatto che non venisse subito a svegliarlo. E sì che ormai dovevano essere le dieci, o addirittura le undici; vegliare durante la notte certo non aiutava ad essere mattinieri. Un brusio nella stanza a fianco della sua lo convinse che Paula doveva essere stata trattenuta dalla sorpresa di vedere un ospite in casa.

Petzingen si mise una casacca decente sulla camicia da notte e si diresse nella direzione delle voci. Non si sorprese a trovare Julius e Paula a chiacchierare, andando nella stanza accanto. Il giovane aveva anch'egli una sorta di lungo soprabito addosso: aveva i capelli un po' scarmigliati, ma era pur sempre di bell'aspetto; Paula stava sorridendo e rispondendo a qualche domanda non meglio precisata. All'entrare di Franz, lei si voltò sorpresa e sorridente, mentre come al solito si metteva a posto la cuffia bianca che a malapena accoglieva i suoi lunghi capelli a metà tra il biondo e il castano.

"Buongiorno, Meister Petzingen! Ho già avuto modo di conoscere il vostro ospite."

Franz annuì in direzione di Julius, e chiese a quest'ultimo come si sentisse.

"Bene, abbastanza, a mio parere...Non sono dell'umore particolarmente adatto per una passeggiata, con questo freddo pungente; tuttavia non posso lamentarmi."

" Capisco... in tal caso, senza dubbio Paula vi terrà compagnia. Voglio fidarmi di voi, e so che Paula sarà una dama di compagnia perfetta e solerte, così come lo è per me ogni giorno."

Julius annuì col capo, guardando di sfuggita la cameriera e poi tornando a osservare da sotto le lunghe ciglia il suo benefattore.

"Non abbiamo potuto discorrere molto, gentile Meister Petzingen. Spero che il vostro lavoro non sia così opprimente da non permettervi di stare nella vostra casa, per oggi."

Franz si ritrovò d'un tratto piuttosto imbarazzato.

"Beh...in verità, no, il mio lavoro non è così costringente...sono un bibliotecario, come forse non vi ho detto, e in questo paesino effettivamente, purtroppo, lavoro ben poco. Ma in teoria il parroco a cui appartiene la biblioteca richiede la mia presenza per molte ore. Se non mi presento, potrebbe pensare che mi sono ammalato e venire qui ad importunarvi. Non che io ritenga che non dobbiate uscire, sia chiaro..."

"Non preoccupatevi" disse a bassa voce l'interlocutore.

"...però ritenevo, ecco, che non desideraste esporvi troppo in pubblico. Visto ciò che mi avete detto ieri sera..."

"Ripeto, non preoccupatevi: siete un uomo discreto, nonché molto ospitale. Avete ragione, preferirei non rendere troppo eclatante la mia permanenza qui. Io... anzi, vi ringrazio per la premura. Se potessi ricompensarvi in qualsiasi modo, lo farei. Purtroppo mi ritrovo a non avere null'altro che me stesso..."

***

Paula accarezzò estasiata i capelli dell'uomo seduto, che le dava le spalle ma le sorrideva dallo specchio.

"Dovete aver passato non belle vicissitudini, Meister..." disse soprappensiero, osservando con timore e sorpresa le punte di quei magnifici capelli ribelli e castani: erano tutte bruciate, come se Julius avesse dovuto affrontare un incendio.

Com'era giunta a quel grado di confidenza con quel ragazzo? Cercava di ricostruire le scene di quella mattina, ma con sua meraviglia, non ci riusciva. Da dove era apparso quel giovane? Era disceso dal cielo? E perché guardandolo in volto sembrava risvegliarsi una sorta di istinto materno e protettivo nei suoi riguardi, cos'aveva di così speciale?

Erano quei sottilissimi segni, indice forse di ex bruciature, che un osservatore attento non poteva ignorare? Oppure era quell'aria vissuta, nonostante l'aspetto giovanile? Cosa aveva passato, insomma, quel ragazzo così insolito?

Non era la sua bellezza oggettiva, benché notevole, ad attirarla. Sembrava tanto fragile quella creatura - sfuggita ad un fuoco non meglio precisato. Gli occhi sembravano celare una tristezza infinita dentro di loro. Un soffio di vento sembrava poterlo portare via, tanto era piccolo di corporatura ed esile, eppure aveva quegli occhi, e quella bocca perennemente sorridente, e infine, che importava? Paula non aveva mai visto un giovane così.

" I miei capelli sono rovinati, non è vero?" disse Julius con rassegnazione. La sua voce era bassa, come un sussurro roco; tuttavia non era molto profonda: probabilmente era talmente giovane da non aver ancora acquisito una voce del tutto adulta.

"E' un peccato, Meister...se vuole, prendo un rasoio e glieli spunto un po'. Certo, bisognerà rinunciare alla vostra coda...sembrerete un popolano, in questo modo!"

"Chi vi dice che non lo sia?" rise il ragazzo. "Francamente non m'importa: se lo desiderate, tagliateli pure. Purtroppo dovrò aspettare un bel po' di tempo prima che ricrescano..."

Paula andò a prendere il rasoio, convincendosi che chiedere direttamente quale fosse la causa delle bruciature diffuse non sarebbe stato delicato. Si sarebbe tenuta per sé la curiosità.

***

Petzingen rimetteva a posto distrattamente dei libri, ma non vedeva quello che faceva: ormai era un atto automatico, inutile e di routine. Ben altro perturbava la sua fantasia.

"Chi mai sarai, Julius?" si chiedeva con insistenza. "Nel paese, non si sa come, ma già parlano di te. Dicono che sei uno straniero e che io ti ospito, proprio com'era successo con Dietlinde. Se la ricordano, quei linguacciuti: non sanno far altro che chiacchierare e lavorare, non sanno neanche che libri ci siano in questa biblioteca sempre vuota, eppure parlano."

Ripensava alla sua vita, ai suoi alti e bassi. Al tempo degli studi, era stato un viaggiatore. Aveva studiato nelle migliori università, aveva visitato la Svizzera e la Francia...poi cos'era successo? Perché si era ridotto a vivere da solo in quel paesino, quando ancora avrebbe potuto cercare moglie ed avere dei figli? Non era ancora anziano, anzi; era un uomo non troppo giovane ma ancora nel pieno delle forze, aveva superato la trentina. Volendo, avrebbe potuto andarsene con i suoi mezzi anche in quell'istante. Perché aveva sepolto tutti i suoi sogni in quel posto maledetto, ignorante e sperduto?

I suoi occhi si spensero in un ricordo non certo piacevole, risalente a circa un decennio prima, quando aveva deciso di vivere lì. Non aveva preso la decisione di stabilirsi lì per sempre, ma sentiva che era stato implicito quando aveva comprato la sua attuale casa rivendendo il suo alloggio a Königsberg.

Vedeva se stesso con qualche ruga in meno e meno barba, ancora reso felice dalla vita. Un bussare concitato alla porta lo aveva fatto trasalire. La finestra era aperta sui tetti della cittadina, un corvo, poco prima, aveva sonoramente gracchiato.

"Brutto presagio", si era detto con un mezzo sorriso, dall'alto dei Lumi del suo pensiero di allora, e poi "Avanti!"

Un suo amico, un compagno di università di cui ora nemmeno ricordava il nome, era entrato, pallido e con gli occhi bassi, senza osare guardarlo. Al che, anche lui era impallidito.

"Porto notizie di Laura, Franz."

"Quali notizie? Ha avuto un peggioramento?"

"Franz..." l'amico aveva deglutito, balbettando qualche verso. "Laura..."

"Che è successo a Laura?"

"E' ...Stanotte ha perso inspiegabilmente altro sangue, Franz. Troppo. L'hanno trovata che sembrava addormentata, quella povera creatura..."

"Laura... La mia Laura!"

Si ricordava che lo shock era stato troppo forte. Era scoppiato in un pianto isterico ed aveva voluto vederla. Laura...il suo fiorellino, quella ragazza che sembrava così sana, così felice. Aveva cominciato a deperire senza apparenti spiegazioni... Le vecchie dei dintorni erano come impazzite, ed invocavano la presenza di demoni succhiatori di sangue, di cadaveri resuscitati e altre facezie superstiziose, atte a esorcizzare l'inevitabile e a trasformare in enti esterni le malattie degli uomini.

Eppure...eppure, Laura era morta, senza sangue e senza apparenti emorragie, ma con due sottilissime punture alla base del collo, proprio come volevano le leggende tanto osteggiate dagli Illuministi.

Era stato allora, ne era certo, che aveva perso la voglia di vivere. Solo più una larvale immagine della vera vita aveva potuto condurre, da quel momento. Non aveva indagato, non aveva compiuto gesti eclatanti. Si era anzi chiuso nel dolore del ricordo di quella fanciulla che aveva amato più della sua vita... Sapeva che alcuni personaggi di Königsberg erano andati a scoperchiare una tomba, nonostante i divieti imposti a quelle pratiche, ed avevano "ucciso definitivamente" un presunto Vampiro, a loro dire responsabile della morte di Laura. Ma a Franz ciò non era importato un granché.

E allora, perché ci stava ripensando in quel momento? Cosa voleva fare? Poteva forse tornare alla vita, come un presunto non-morto, e uscire dal Limbo in cui si era auto-confinato?

Ripensò a Julius, al suo sguardo perduto.

***

"Ecco fatto, Meister. Ora avete un aspetto decisamente migliore!"

Paula osservò nello specchio il suo lavoro, e non potè non congratularsi con se stessa per l'ottimo lavoro. Ora Julius aveva i capelli all'ultima moda: un po' arruffati, corti ma non troppo- giungevano al collo, alla borghese. Le onde dei ricci castani incorniciavano il volto come una delicata nuvola, mettendo in risalto il collo dritto e bianco.

"Cielo, siete tutti così gentili con me...Vorrei davvero poter fare qualcosa per voi, e per il mio ospite Petzingen. C'è un modo in cui posso sdebitarmi, cherìe?"

"Oh... siete francese?" disse Paula facendosi forza e togliendo le mani da quei capelli, erano ipnotici!

"Oui ... ma fuggo dalla Francia, e da me stesso. So che vorreste chiedermi qual è la mia storia, e perché sto scappando...se questa è la vostra richiesta, ebbene è l'unica a cui non credo di poter accondiscendere."

Julius fece cenno di alzarsi, e Paula si scostò prontamente. Il ragazzo si avvicinò ad una finestra, e scostando la tenda si appoggiò al vetro, appannandolo col suo fiato.

Paula osservò la sua figura, e vide le mani del ragazzo tremare. Temette per un attimo per lui.

"Sei una sciocca, Paula..." si disse tra sé. "Non puoi pensare a ciò che non sai. Chissà quali orribili avventure ha dovuto sopportare...oh, chissà che ha fatto..."

"Paula...che tipo di uomo è Petzingen? Cioè...non che non mi fidi...ma sai, ho imparato ad essere attento durante i miei viaggi."

"Oh...è un brav' uomo, Meister, potete esserne sicuro. E' davvero gentile come appare, figuratevi che mi ha aiutato quando ancora stavo imparando a leggere e scrivere. Fa un po' da maestro in questo paesino ignorante, sa? E' praticamente l'unico che coltivi interessi per i libri. Lo ammiro molto."

Julius guardò Paula, che si era seduta su una sedia con le mani sulle ginocchia. Aveva con sé un piccolo lavoro a maglia, e cominciò a sferruzzare.

"Avete un'espressione indefinibile quando parlate di lui" sorrise il ragazzo notando il sorriso e il colorito delle guance di Paula, che a quelle parole divenne un rosso acceso.

"Oh? ... Davvero? Ma no, dev'essere una vostra impressione, gli sono infinitamente affezionata, questo è vero, ma la differenza tra noi è troppo accentuata..."

Julius sorrise e decise di accantonare il discorso.

"E' strano... voi siete le uniche persone con cui non mi sono sentito a disagio, da parecchi anni. Sapete, sono circa sette anni che fuggo."

Paula spalancò gli occhi.

"Sette anni?! Ma...per arrivare dalla Francia alla Prussia non ci va un così grande lasso di tempo..."

Julius rabbrividì e si strinse nelle spalle.

"Oh, infatti sono solo sei mesi, o poco più che mi sono diretto verso questo paese per valicarlo e raggiungere quindi Danzica. Il difficile è stato fuggire dalla Francia... e da ciò che essa rappresentava."

La ragazza lo fissò, leggermente inquietata - ma non lo dava a vedere.

"Siete un ricercato?"

"No. Non ufficialmente, almeno. Fuggo, sì, ma da qualcosa di ben diverso che la giustizia regia...fuggo da due cose, essenzialmente: da un mio nemico e da un mio sentimento. E' buffo, non è vero? Vi è mai capitato di voler fuggire da voi stessa?"

"Beh...forse no...insomma, mi trovate un po' in imbarazzo a rispondere a questa domanda...però, se fuggite da un sentimento non mi pare una cosa meravigliosa. Io non so nulla di voi, e certo non posso affermare niente senza basi: posso capire che fuggiate da un vostro nemico, ma da un sentimento...non è sciocco farlo?"

Julius sembrò agitarsi per un attimo, aggrottò le sopracciglia.

"Oh, non è sempre stupido, amare? Ma avete perfettamente ragione...puoi cavalcare per ogni campo, attraversare mille temperie, ma il viso che ti angoscia e ti esalta non ti abbandonerà mai, e popolerà i tuoi sogni lieti ed anche i tuoi incubi, in cui però dovrà affrontare anche la concorrenza dei tuoi nemici... E poi non fuggite anche voi, ogni giorno, da voi stessa? Voi non celate dunque nessun sentimento che sentite di dover abbandonare, eppure non ci riuscite? ... Oh, ma scusatemi, mi rendo conto che vi sto turbando. Perdonatemi."

Paula era piena d'imbarazzo. Si obbligò ad andarsene da quella camera, turbata.

***

Verso l'imbrunire, Petzingen tornò a casa, avvolto in una grande sciarpa che Paula aveva fatto appositamente per lui. Per tutta la giornata aveva cercato di scacciare quei brutti ricordi, ma la solitudine certo non aiutava a distrarsi, e poi quel tempo, tutta la situazione...insomma, senza dubbio vi erano momenti atti a svagarsi, ed altri destinati a rivangare ricordi poco belli, e purtroppo mai del tutto sopiti. Fortunatamente, ora non avrebbe più dovuto sentirsi solo: ci sarebbe stata Paula a casa ( questo gli strappò un sorriso sereno, il primo della giornata), e con lei lo strano ragazzo che senza dubbio, dopo una giornata intera di ospitalità, sarebbe stato più loquace della sera precedente.

Con sua grande sorpresa, tuttavia, mentre giungeva verso casa vide Paula uscire. Essa lo guardò e si avvicinò, spaventata.

"Meister, la stavo per venire a cercare! E' accaduto una brutta cosa...il ragazzo, Julius... delira, ha avuto un attacco di febbre!"

***

Immediatamente entrato in casa, Petzingen si tolse la sciarpa e la lunga giacca invernale.

"Com'è successo?"

"Dunque..." Paula cercava di essere il più chiara possibile, ma parlava in fretta, preoccupata. "Avevo appena finito di cucire. Stavo per riposarmi un attimo, quando il signorino è apparso sulla cima delle scale." Mentre parlava, i due le stavano salendo, in direzione delle camere da letto. "Era pallido come un morto, e aveva gli occhi rossi. Ha detto solo di sentirsi molto male, quando per poco non è caduto, io ho corso per prenderlo e l'ho adagiato sul letto...poi mi sono preparata per uscire più in fretta che ho potuto, e vi ho incontrato, per fortuna..."

Petzingen in quel momento aprì la porta della camera per gli ospiti, e vide il ragazzo, esangue, che si agitava sul letto. Era imperlato di sudore.

Paula sembrava afflitta da una profonda pena per lui. "Poco fa diceva frasi senza senso...Franz..."

Appoggiò una mano sulla spalla dell'uomo, il quale si voltò guardandola negli occhi. Non l'aveva mai chiamato col suo nome di battesimo.

"Mi ha detto strane cose questo pomeriggio...cosa credi che possa..."

Petzingen poggiò la sua mano su quella di lei, e gentilmente rispose: "Non ne ho davvero idea, Paula. Ma cercherò di fare del mio meglio."

Lei annuì, e lo lasciò andare al capezzale del malato. L'uomo tolse le coperte, poi esaminò superficialmente il ragazzo.

"Sei stata tu a tagliargli i capelli?" chiese Petzingen, notandone la notevole diminuzione.

"S-sì-..."

Franz esaminò gli occhi, e se ne turbò, perché erano davvero completamente iniettati di sangue. Poi esaminò i denti, ed allora si arrestò, impallidendo. Per un attimo sembrò cadere per terra, tanto che Paula corse a sostenerlo.

"Che succede?! Franz! Cosa hai visto?"

"Paula...non fare domande ed esci subito da questa casa. Per il tuo bene, dico, esci immediatamente da qui...e non chiamare nessuno, non dire nulla di questo incidente. Ti prego, davvero: vai via il più velocemente possibile. Subito!"

Paula non si mosse, e aggrottando le sopracciglia ribatté:

"Se non mi spieghi perché devo andarmene, non me ne vado. Cos'ha quel ragazzo?"

Franz la prese per le spalle e la fissò: aveva gli occhi quasi febbricitanti pure lui, sembrava in preda alla rabbia.

"Non ne sono sicuro, ma ti prego, ti scongiuro, ti imploro, se vuoi te lo chiedo in ginocchio: abbandona questa stanza e questa casa il più velocemente possibile. Se questo ragazzo...ha quello che temo, tu non sei al sicuro, né qui, né nelle vicinanze. Già una volta questa malattia atroce mi ha portato via ciò che avevo di più caro. E io non voglio che ciò si ripeta."

Paula era senza parole. Non l'aveva mai visto in quello stato, né mai avrebbe immaginato che fosse capace di dire delle parole così piene di astio...verso cosa? Verso quella malattia? Non poteva essere altrimenti.

"Ma...hai detto che non ne sei sicuro..."

"Se non fosse così, tanto meglio. Ma nel rischio, vattene, o sarò costretto a portarti via con la forza. Giuro che lo faccio, se non lasci questa stanza entro un minuto!"

Paula impallidì, e si tolse dalla stretta. Con movimenti secchi e precisi si rimise la mantella grigia, senza dire una parola. Prima di uscire, volse un ultimo sguardo a Franz, il quale però era immobile, in piedi dinanzi al letto del ragazzo. Chiuse la porta piena di angoscia.

"Allora, cosa dobbiamo usare con te, piccolo bastardo?" disse l'uomo, come se Julius potesse sentirlo, una volta assicuratosi di aver sentito sbattere la porta dell'ingresso. Si mosse nella stanza, cercando qualcosa di utile.

"Un paletto o dell'aglio, come ci dice la tradizione? Serviranno davvero quegli strumenti, se sei davvero quello che penso?"

Julius aprì gli occhi a fatica, osservando Petzingen.

"Ora che la ragazza se n'è andata" chiese con voce roca "pensi che io sia meno pericoloso?"

Petzingen lo fissò con raccapriccio.

"Dunque è vero? Sei uno di quei mostri che, una volta, ha ucciso Laura?"

"Non so di chi parli" disse ancora Julius, mettendosi a sedere sul letto e digrignando i denti affilati.

Petzingen si arrestò, guardando gli occhi della creatura, che ora rilucevano nell'iride come se essa fosse gialla. Non potevano essere occhi umani, quelli...

"Ma credo di capire. Qualcuno come me ha ucciso una persona che conoscevi, dico bene? Chi era questa Laura? Tua sorella? Tua madre? La tua amante?" La voce si era fatta più bassa, quasi sensuale.

"Era la mia fidanzata" rispose con astio l'uomo, studiando le mosse dell'avversario.

"Oh, capisco...increscioso, davvero. Probabilmente non era nulla di che, era un banale Ritornato...magari non era neanche cosciente di quello che faceva. Sai, io di solito sono un predatore molto più elegante...detesto mostrare ad altri i miei poteri e le mie caratteristiche. Ma comprendimi, non mi nutro da mesi...mesi, capisci? Questo si paga, con l'essere gentili verso gli esseri umani...essi ti faranno soffrire e ti si rivolteranno contro, come serpi. Mi ci sono voluti anni per riprendere un aspetto umano, o almeno decente...eppure ancora ti faccio paura, non è vero?"

Scese dal letto, e cominciò a muoversi a passi lenti, senza levare gli occhi da quelli di Petzingen. Sembrava un serpente, pronto a scattare. Petzingen sudava freddo, e tutti i nervi erano tesi come corde di violino.

"Oh, che rimpianto del tempo andato, quando trovavo le prede grazie al mio fascino...ora sono costretto ad agire come se fossi un animale, un animale."

"Non osare toccarmi. Se mi attacchi, saprò difendermi. Non come Paula...avevi già in mente di usarla come preda, non è vero?"

Julius rise meccanicamente, buttando la testa all'indietro e scoprendo ancora i canini acuminati.

"Cielo, come ti preoccupi inutilmente! In primo luogo, Paula avrebbe saputo difendersi esattamente come te; in secondo luogo, solo perché sembro un uomo non vuol dire che possa sfruttare solo le donne...soprattutto, se sembro un uomo non vuol dire che lo sia."

"Che ...che intendi dire?" disse Franz, confuso.

Julius sorrise, e scosse la testa. Poi si tolse il fazzoletto dal collo e si slacciò in parte la camicia. La aprì lievemente, senza scoprirsi del tutto il petto, ma lasciandone intravedere parte.

Franz strabuzzò gli occhi.

"Ma tu...tu sei una donna!"

Julius richiuse la camicia senza legarla, e sospirò.

"Io non sono né uomo né donna" disse a voce quasi inintelligibile "Sono quello che hai visto. Ciò basterà a farti avere pietà di me? Nonostante tu consideri quelli come me...dei mostri?"

Franz si prese la testa con le mani, poi guardò di nuovo, esterrefatto, gli occhi gialli e animaleschi, posti su quel viso così infantile.

"Ma tu... cosa sei veramente? Le leggende hanno un fondo di verità? Sei un cadavere o vivi ancora?"

Julius chiuse le braccia intorno a sé, meditabondo.

"Sì...e no . Sono a metà tra due mondi, come sono a metà tra i due sessi. E infondo, anch'essi sono due mondi separati. Ma chi è morto...cosa lo distingue, davvero, da chi è vivo? Solo perché è rigido e freddo, si pensa che non provi più sentimenti? Che non pensi più? E' terribile, quando pensi che potrebbero ancora essere coscienti e non riuscire più a dirlo..."

Franz avvertì un brivido freddo lungo la schiena.

"Molti pensano anche che non abbiamo un'anima...ma cosa vuol dire quella parola? Ce l'hanno, invece, coloro che ci uccidono barbaramente, senza un motivo valido se non la loro paura? Noi non uccidiamo se non è strettamente necessario. E in fondo, la morte non è naturale? Non deve venire per tutti, un giorno o l'altro? Se noi la anticipiamo, e solo verso coloro che non hanno più speranza...dov'è il male? Il male non è forse ciò che li induce ad essere disperati, e a non avere altra speranza che quella?"

Petzingen avvertì un'incrinatura nella voce del mostro. Una strana specie di compassione albergava ora nel suo cuore.

"Ma tu... Julius..." chiese titubante, alzando una mano come per pacificarlo. Gli occhi dell'essere sfavillavano.

"Il mio nome non è Julius."

"...e allora, qual è il tuo nome?"

L'essere ammutolì, poi sembrò incerto. Gli occhi avevano perso un po' della loro lucentezza: sembravano di nuovo castani.

"Il mio nome...il mio nome è Saint Just."

"Oh... Saint Just, allora" disse Petzingen, acquistando fiducia. Tralasciò di chiedere l'origine di quel nome così particolare "...perché...perché ti sei fermato qui da noi? Puoi fuggire quando ti pare, non è vero?"

Annuì.

"E allora perché? Volevi o no...nutrirti?"

"So che non mi crederai, ma in fondo, posso anche dirtelo. No, non volevo nutrirmi...non da voi. Non da Paula. E lo sai perché?"

Franz non rispose, aspettava che Saint Just glielo dicesse.

"Proprio per quello che vi ho detto prima. Voi...tu e Paula... avete ancora una speranza. Potete ancora fuggire, potete fare quello che volete delle vostre vite, insieme...insieme, potete fare tutto. Voi potete vivere l'uno per l'altra, come i miei genitori...ma io, invece?"

Saint Just si avvicinò alla finestra, spalancandola.

"Io non ho speranza. Non ne ho nessuna, e non ce l'avrò più. Non è per il mio sangue, esso rappresenta la vita che rubo agli altri, la vita che non ho...ma la speranza, ah, quella la si può rubare anche ad un cuore immortale. Perché io sono solo...o sono sola, se vuoi...più sola degli altri come me, perché loro vivono solo per il nutrimento. E anch'io, per dimenticare, non bevo il rosso nettare per mesi, poi ecco, mi ritrovo a non avere che quello in mente: meraviglioso, non avere pensieri, non è vero? Ma i miei pensieri mi seguono comunque, e si risvegliano grazie a persone come voi."

Petzingen non disse nulla, ma con cautela si avvicinò all'essere affacciato. Gli posò una mano sulla spalla, e lo guardò pieno di comprensione. Saint Just si voltò, e gli occhi- di nuovo gialli ed innaturali- erano pieni di lacrime rosate; gli strinse la mano con riconoscenza, ma poi con forza inaudita lo staccò e lo spinse lontano da sé. Franz ne fu in parte sorpreso, ma subito l'essere disse:

"Scusami, non volevo essere scortese. Ma io... devo andare! Ora che ho aperto il mio cuore a te, e che ti ho detto che non ti avrei toccato, non posso infrangere la promessa per la mia sete. Sono pericoloso nonostante tutto. Ora ti dovrò dire addio, Franz..."

"Aspetta! Più non ti farai vedere? Scomparirai per sempre?"

Saint Just sorrise.

"Sempre è un tempo lungo, Meister Petzingen... io non me ne vado mai, per chi vuole cercarmi. Se avrai desiderio di rivedermi, basterà che tu chieda alla notte di riportarti Saint Just de Richebourg. Io verrò: tornare è il mio destino...ma ora addio, Franz. E ricordati che è Paula la tua speranza."

Ciò detto, con un balzo fu fuori dalla finestra, e per quanto fosse stato veloce, Petzingen, una volta affacciatosi, non lo vide più.

***

Jena, diversi anni dopo.

La bambina sentì per prima il campanello, e disse a voce squillante che voleva andare lei ad aprire. Il padre però la fermò, e le disse che per quell'ospite sarebbe andato di persona.

"Papà, è un amico di vecchia data, come hai detto alla mamma?"

"Sì, lo è. Ora vai da tuo fratello: ve lo presenterò subito, tranquilli. Paula?"

La moglie si affacciò da una porta.

"Sì? Oh, è arrivato?"

"Sì, è lui. Hai qualcosa da offrirgli, vero?"

"Ma certo, Franz, ho preparato tutto quello che potevo. E c'è tanto latte, come mi hai detto tu. Ora su, vai ad aprirgli o si spazientirà! Ma ricordami da dove è arrivato..."

"Dall'Inghilterra. Lì è stato negli ultimi anni, a quanto pare; ha girato in tutte le isole britanniche" disse Franz andando a grandi passi verso la porta.

Una volta aperta, il suo viso si allargò in un grande sorriso. Vestito all'ultima moda inglese, coi riccioli ben curati e il volto perfetto, non segnato da alcuna cicatrice, e gli occhi grandi e castani, stava il suo ospite.

"Buongiorno, Franz. Ho sentito il tuo appello, l'altra notte. Posso entrare?"

Saint Just de Richebourg a Petzingen, 02/01 /2008

© Valentina Ceciliato





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