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Il nome di Abel
di Andrea Meli
Pubblicato su SITO





Una recensione di Massimo Crispi
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Il nome di Abel

Il nome di Abel (ma sarebbe Abél, essendo un nome spagnolo) è l’invocazione che la figlia Giulia dovrebbe urlare per evocarne lo spirito. Gli oggetti a lui appartenuti dovrebbero liberare le larve dei pensieri, dell’anima di Abél, come dei lumaconi che rivelassero i suoi segreti. Perché la vita di Abél è un segreto che non si può svelare. Alla sua morte, la moglie Adele caccia tutto ciò che gli appartiene in uno scatolone e lo butta nella cantina della madre: mai e poi mai Giulia dovrà vedere gli oggetti del padre. Ma Adele non elimina i ricordi, semplicemente cambia loro posto, probabilmente ci sarà un momento nella vita futura in cui quel passato dovrà essere riscoperto, ma sicuramente non da lei. Lei col passato chiude sempre, e passa sopra le persone, senza pietà.

Ma perché, cos’ha fatto Abél di così grave? Abél, della cui vita si sa pochissimo all’inizio, ma che si va scoprendo a poco a poco mettendo insieme vari frammenti, è il grande assente-presente del romanzo di Andrea Meli, edito da Augh! nel 2021. Lui c’è sempre, anche quando non c’è, ossia per tutto il romanzo. Intanto per via della trattoria di Ballarò che è il luogo dove continuano a lavorare Adele e Giulia e che appartenne ad Abél. Tutti parlano di lui, soprattutto Giulia, che ha un lontano ricordo del padre. Uno dei ricordi più tragici è una cicatrice in seguito a un pugno sull’occhio che Abél le diede in un momento fuori controllo. Ma quell’Abél violento con la sua amata piccina non era lui, era l’Abél che stava sviluppando un terribile e fulminante tumore al cervello, che lo aveva completamente trasformato e che lo avrebbe portato alla morte in brevissimo tempo. Però, da quel momento tremendo, Adele volle proteggere la bambina. Nonostante quest’oblio forzato, il fantasma di Abél, insieme a quello di una “dama bianca”, sembra aleggiare sempre intorno alle persone che gli sono state vicino quand’era in vita e questi spettri popolano i sogni di chi è rimasto.

Giulia diventa grande e inizia a chiedere in famiglia notizie del padre. Adele nega qualsiasi aiuto mentre la nonna, che vive a Palermo, e soprattutto gli zii, che vivono a Firenze, le raccontano qualcosa. Però non sanno assolutamente nulla di ciò che è accaduto a Madrid, perché bisogna partire da lì, è a Madrid che è successo qualche cosa di strano e inafferrabile che viene evocato in tre lettere, in fotografie enigmatiche, anche quelle finite nello scatolone che poi viene svelato a Giulia. Tre lettere misteriose, in spagnolo, in cui emergono due personaggi che devono essere stati fondamentali nella vita di Abél, Pol e Blanca. E da lì tutte le ipotesi sono possibili, il tempo si mescola, i fantasmi del passato affollano i sogni di Giulia, fortemente decisa ad andare fino in fondo per saperne di più, fino a Madrid, a incontrare i protagonisti, qualora ci fossero ancora, e quindi capire chi fosse questo padre che tutti vogliono tenerle nascosto, forse più per proteggere sé stessi che lei. Il tempo, che viene annientato dalla demenza senile del nonno Attilio e poi forse anche della nonna Dea, i nonni materni, dimensione dove non esiste più il tempo e quindi non esiste più nulla.

Il vero protagonista del romanzo di Meli è il tempo, appunto. Il passato, il presente, il futuro, i loro frammenti si combinano in disordine nell’immaginazione di Giulia e di Ale, il cuoco della trattoria, suo amico-fidanzato, che la stimola per la ricerca e le dice di mettere su carta i suoi pensieri per fare chiarezza. Il tempo, nella narrazione, è quasi una categoria nuova, non cronologica, si muove in tutte le direzioni, segue il flusso dei pensieri dei personaggi e a volte non è semplice seguirli. Il tempo è anche il mezzo utilizzato da Meli per rovesciare la realtà, i rapporti tra i personaggi, la loro percezione del mondo e anche quella del lettore. Il tempo unisce e separa le generazioni, che a volte hanno difficoltà a comunicare, chiuse in visioni impenetrabili o apparentemente invulnerabili, ma le cui ferite, che il dolore ha inferto ai corpi e alle menti, diventano le porte per potervi accedere inaspettatamente. Il passato franchista del periodo spagnolo di Abél, che i giovani di oggi ignorano totalmente, ha un ruolo ben preciso nella vicenda e Giulia inizia a istruirsi, per capire come abbia influito nella fuga di Abél dal suo padre Francisco, franchista convinto, per farsi in qualche modo adottare, scegliendo come padre lo zio Javier, il fratello di Francisco, fuggito a Firenze colla madre anni prima.

L’intreccio è semplice e complesso allo stesso momento, sullo sfondo di una Palermo appena accennata, dove non c’è una concretezza che la caratterizzi, così come anche Firenze è solo una scenografia scolorita. Madrid, al contrario, diventa una scenografia decisiva e ben descritta, soprattutto nella parte finale del romanzo.

I deliri psicologici di tutti i personaggi, persi ognuno dietro le proprie paranoie, s’incrociano, si nutrono l’uno dell’altro, e si abbeverano dell’angoscia, dell’ansia, altra protagonista del romanzo insieme al tempo.

C’è una colonna sonora perpetua, nel romanzo, ed è quella della tromba di Chet Baker, artista proibitissimo nella Spagna franchista, che folgorò prima Blanca, poi Pol e Abél, e che si trascina anche in Italia, attraverso i luoghi lucchesi dove Baker fu imprigionato e che diventano quasi un santuario di pellegrinaggio per Abél, una volta giunto in Italia. E il dolore di Baker, le sue strazianti melodie che lo hanno reso così famoso, è il dolore che permea Abél, come scoprirà Giulia, anche dai racconti dello zio Javier. Dolore che si trasferisce in una tromba comprata da Abél e mai davvero studiata, ma che diventa un feticcio che si passerà di mano in mano, così come le fotografie e le lettere. La catabasi di Giulia a Madrid è piena di ostacoli e fraintendimenti ma lei la porterà fino in fondo, capendo così che significano le frasi di una delle lettere misteriose: “Vuoi compararlo a ciò che hanno fatto a Blanca?” e “Non tutti gli uomini vincono. Qualche uomo muore prima del previsto”.

Unico neo dell’edizione: carattere troppo piccolo e interlinea al risparmio, che non facilitano la lettura. Andare fino in fondo significa che il libro è piaciuto ma è bene far sapere all’editore che vegli sui grafici. Qualche pagina in più non spaventa il lettore, che va rispettato. È molto importante per una casa editrice giovane e con buone pubblicazioni.


Una recensione di Massimo Crispi



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