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 Jorge Luis Borges


LA FINE
di
Jorge Luis Borges (1899-1986)
Trad. a cura di Giuseppe Butera

Disteso, Recabarren dischiuse gli occhi e vide l'obliquo cielo liscio di giunco. Dall'altra stanza gli giungeva un raschio di chitarra, una specie di poverissimo labirinto che si intrecciava e si disfaceva all'infinito... Recuperò a poco a poco la realtà, le cose quotidiane che ormai non avrebbe più cambiato per nessun'altra. Guardò senza rimpianto il suo gran corpo inutile, il poncio di lana ordinaria che gli ricopriva le gambe. Fuori, oltre le sbarre della finestra, si spandevano la pianura e il pomeriggio; aveva dormito, ma ancora rimaneva molta luce nel cielo. Con il braccio sinistro cercò a tentoni un campanello di bronzo ai piedi della branda. Lo scosse un paio di volte; dall'altro lato della porta continuavano ad arrivargli in modesti accordi. Il suonatore era un negro spuntato una sera con pretese da cantante e che aveva sfidato un altro forestiere a un lungo duello di contrappunto. Sconfitto, continuava a frequentare la bottega come se stesse aspettando qualcuno. Passava le ore con la chitarra, ma non aveva più cantato; forse la sconfitta lo aveva immusonito. La gente si era ormai assuefatta a quell'uomo inoffensivo. Recabarren, padrone della bottega, non si sarebbe mai più dimenticato di quella sfida; il giorno dopo, infatti, mentre metteva in ordine alcuni fasci d'erba, gli si era bruscamente paralizzato il lato destro e aveva perduto la parola. A forza di impietosirci per le disgrazie degli eroi dei romanzi finiamo per impietosirci esageratamente per le nostre stesse disgrazie; non così il povero Recabarren, che accettó la parali­si come prima aveva accettato il rigore e le solitudini d'America. Abituato a vivere nel presente, come gli animali, adesso guardava il cielo e pensava che l'alone rosso della luna era segno di pioggia. Un ragazzo dai lineamenti indiani (forse un figlio suo) socchiuse la porta. Recabarren gli domandò con gli occhi se c'era qualche avventore. Il ragazzo taciturno gli fece segno di no: il negro non contava. L'uomo prostrato rimase da solo; la sua mano sinistra giocherellò ancora un poco con il campanello, come se esercitasse un potere.
La pianura, sotto l'ultimo sole, era quasi astratta, quasi vista in un sogno. Un punto si agitò all'orizzonte e crebbe fino a farsi un cavaliere che veniva, o sembrava venire, verso casa. Recabarren vide il chamber­go, il lungo poncio scuro, il cavallo moro, ma non la faccia dell'uomo, il quale, infine, sospese il galoppo e venne avvicinandosi al trotto. A duecento metri circa cambiò direzione. Recabarren non lo scorse più, ma lo sentì fischiettare, scendere da cavallo, legare le redini alla staccionata ed entrare a passo sicuro in bottega.
Senza alzare gli occhi dallo strumento, dove sembrava che stesse cercando qualcosa, il negro disse con dolcezza:
- Lo sapevo, signore, che potevo contar con lei.
L'altro, con voce aspra, rispose:
- Ed io con lei, moro. Un bel po' di giorni ti ho fatto aspettare, ma eccomi qua.
Ci fu un silenzio. Alla fine il negro rispose:
- Mi sto abituando ad aspettare. Ho aspettato sette anni.
L'altro spiegò senza fretta:
- Più di sette anni ho passato io senza vedere i miei figli. Li ho visitati in questi giorni e non ho voluto presentarmi come un uomo che va dando pugnalate in giro.
- Me ne sono già occupato - disse il negro -. E spero di averli lasciati in buona salute.
Il forestiero, che si era seduto presso il bancone, rise di cuore. Ordinò una dose di aguardiente e l'assaporò senza finirla tutta.
- Ho dato loro dei buoni consigli - dichiarò - , che non sono mai di troppo e non costano niente. Ho detto loro, fra l'altro, che l'uomo non deve versare il sangue d'un altro uomo.
Un lento accordo antecedette la risposta del negro:
- Ha fatto bene. Così non si somiglieranno a noi altri.
- Almeno a me - disse il forestiere e aggiunse, come se pensasse ad alta voce -: Il mio destino há voluto che uccidessi e adesso mi mette un'altra volta il coltello in mano.
Il negro, come se non stesse ascoltando, osservò:
- Con l'autunno si vanno accorciando le giornate.
- Con la luce che rimane ne ho quanto basta - rispose l'altro, alzandosi in piedi.
Si piantò davanti al negro e disse con aria stanca:
- Lascia in pace la chitarra, che oggi ti aspetta un altro tipo di contrappunto.
Tutti e due si avviarono verso la porta. All'uscita, il negro mormorò:
- Forse oggi mi andrà male come la prima volta.
L'altro obiettò con serietà:
- La prima volta non ti andò male. Il fatto è che eri troppo ansioso di arrivare alla seconda.
Si allontanarono per un isolato, camminando uno a fianco all'altro. Un punto della pianura era uguale a qualsiasi altro e la luna splendeva. A un tratto si guardarono, si fermarono e il forestiere si tolse gli speroni. Avevano ormai il poncio sull'avambraccio quando il negro disse:
- Una cosa voglio chiederti prima di azzuffarci. Che in questo incontro ponga tutto il tuo coraggio e tutta la tua esperienza, come in quell'altro di sette anni fa, quando hai ucciso mio fratello.
Forse per la prima volta Martín Fierro sentì odio. Il suo sangue lo sentì come uno stimolo. Si scontrarono e l'acciaio affilato rigò e sfregiò la faccia del nero.
Esiste un'ora del pomeriggio in cui la pianura sta per dire qualcosa; non la dice mai o forse lo dice un'infinità di volte e noi non la capiamo, o la capiamo ma è intraducibile come una musica... Dalla sua branda, Recabarren vide la fine. Un assalto e il negro indietreggiò, perdette il sostegno del piede, minacciò una coltellata in faccia ma si protese in una pugnalata profonda che penetrò nel ventre. Dopo ne venne un'altra che il bottegaio non riuscì a identificare e Fierro non si alzò più. Immobile, il negro sembrava vegliare la sua laboriosa agonia. Ripulì nell'erba il coltello insanguinato e tornò a casa lentamente, senza guardare indietro. Compiuta la sua missione di giustiziere, ormai non era più nessuno. O meglio, era l'altro: non aveva destino sulla terra e aveva ucciso un uomo.


 

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