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Fino alla fine dell`alba
di Matteo Bertone
Pubblicato su SITO


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I wanna see you in the morning
I wanna see you when the breaking day is dawning
You gotta go you gotta go
It's all right
But I wanna see you in the light of the morning

Band of Skulls

ore 4:00

Lo squalo
Periferia di cemento, 4 di mattino.

Un blocco di silenzio appena scalfito da scie di motori solitari.

Sporadici scarafaggi notturni corrono ancora sulla strada grigia, intorno agli edifici industriali che emergono dall'asfalto come necropoli nel deserto.

Gli ultimi giri prima di tornare nelle loro tane.

Nell'aria c'è odore di niente misto a gas di scarico.

Da un'autoradio di passaggio i Band of Skulls cantano Light of the morning, mentre qualcuno strilla.

Musica e gridolini post-alcolici sputati fuori dal finestrino aperto di una limousine rosa, insieme a tracce di vomito.

L'alba sta iniziando a gonfiarsi dietro alla skyline della città in lontananza, pronta a scoppiare sul cielo notturno come un gavettone di luce.

Nascosta nel buio, una faccia assonnata segue la limousine fino a che scompare all'orizzonte, il trucco rifatto troppe volte sotto la lucina dell'abitacolo e gli occhi pesti che si chiudono da soli.

Un grosso SUV nero simile a uno squalo si aggira nel parcheggio, rallenta accanto alle poche macchine coi fari accesi, scruta le facce che ammiccano stancamente e si allontana ogni volta con un colpo di coda. I carabinieri non passano più, la notte è finita e il giorno non è ancora iniziato.

In quel limbo di tempo, un'ora e mezza o poco più, alcuni luoghi spariscono. Smettono di esistere, e non ci sono testimoni sufficienti per sostenere il contrario.

Quello che accade lì, non è mai successo.

I casermoni alveare affacciati sulla strada hanno gli occhi chiusi. L'unica luce accesa è quella delle scale. Gli ultimi animali notturni sono già rientrati e i primi animali diurni non si sono ancora alzati.

Anche lì, nessun testimone.

Lo squalo SUV esce dal parcheggio e svolta sulla strada principale, diretto alla città. Nessuno lo sta aspettando, se non un letto vuoto e qualche lattina di birra in frigo.

Il pompino non è stato dei migliori, la ragazza aveva sonno ed era impregnata di un odore dolciastro nauseante. Per poco non gli si addormentava sul preservativo alla fragola.

Rosso.

A quest'ora dovrebbero spegnerli tutti, i semafori, pensa l'uomo sistemandosi un ciuffo di capelli grigi allo specchietto. Il rosso sembra durare in eterno, mentre dall'altra parte non arriva nessuno. Lo squalo si guarda intorno e poi passa. Niente flash, tutto ok.

L'alba si alza lenta e minacciosa, come a sancire la sua vittoria sulla notte, come un dio pronto a punire chi osa allontanarsi dal suo regno per sperimentarne un altro, oscuro e misterioso.

Lo squalo si stropiccia gli occhi, la vista annebbiata dalla stanchezza e dai troppi cocktail bevuti nel locale. Due mojito, un long island, un paio di cuba e una vodka red bull. Oltre a qualche birra prima di uscire di casa.

La strada pian piano diventa fluida, indefinita. Lo squalo abbassa tutto il finestrino per lasciare che l'aria della notte lo investa sulla faccia. Sente ancora il profumo dolciastro della ragazza nell'abitacolo.

Si guarda allo specchietto, i suoi occhi sono palle da tennis con due squarci lunghi e sottili.

La luce del giorno si diffonde rapida, s'insinua tra gli edifici spolverando residui di buio, ogni minuto di più.

Eppure, nonostante il chiarore, la strada sembra sempre più inconsistente e fluttuante, come una fotografia sfocata che continua a perdere definizione.

Lo squalo spalanca gli occhi, stringe le mani sul volante, cerca punti di riferimento, un semaforo, una casa, l'insegna di un bar. Non capisce. I suoi occhi gli stanno giocando un brutto tiro, oppure...

All'improvviso la strada non c'è più. C'è solo il nulla informe, un muro bianco che ingloba tutto, strada, cielo, case, semafori e insegne dei bar.

Lui lo vede, quello spazio bianco, ma non può fermarsi. Non può fermarlo. E lo spazio bianco ingloba anche lui, lo squalo, inghiottendolo nel suo infinito nulla.


Ore 4:30
I tre samurai

Il display dell'orologio segna le 5 e 30.

Una cavalletta attraversa la strada deserta, supera entrambe le carreggiate.

Arriva indenne dall'altra parte ma non sa dove andare, muove le antenne, sfrega le zampe, esita a lungo, troppo a lungo, e la morte cala su di lei improvvisa e inaspettata, sotto forma di un sandalo nero che la trasforma in carpaccio di cavalletta.

L'uomo asiatico solleva il sandalo e contempla lo scempio con i suoi due compari.

La visione della cavalletta spiaccicata li fa ridere di gusto. Uno dei tre si esibisce in una grottesca imitazione della cavalletta e il suo compare brandisce il sandalo nero fingendo di schiacciarlo. Il primo allora fa una smorfia che dovrebbe assomigliare all'espressione della cavalletta morta, dice "co-co-ro", strabuzza gli occhi e mostra la lingua.

I tre scoppiano a ridere ancora più forte trattenendosi le pance prominenti.

Hanno una risata gutturale, tutta fatta di "oh".

Nel motel alle loro spalle, quello dal quale sono appena usciti, l'atrio è sospeso nella semioscurità di un'abatjour verde. Non c'è anima viva.

I tre camminano lungo lo stradone, costeggiano immensi palazzi di uffici vuoti e grandi magazzini dai parcheggi sconfinati. Contenitori di caos dopo l'evacuazione. Camminano vacillando qua e là, fanno piccoli passi di danza e canticchiano melodie del loro paese, lontano migliaia di chilometri.

Celebrano il grande sole, feroce monarca della metropoli di cemento.

Uno dei tre, camicia bianca sbottonata e petto completamente glabro, estrae uno smartphone dalla tasca dei pantaloni e inizia a filmare tutto: i suoi compagni, i dintorni desolati del motel, il cielo in bilico fra notte e giorno, le strade vuote, se stesso.

Sembrano attori amatoriali in una parodia di ubriachi.

Finché arrivano al parcheggio.

Ormai è rimasta solo lei. Le braccia incrociate sul volante e la testa appoggiata alle braccia. Guarda la strada con le palpebre pesanti.

Quando vede arrivare quelle caricature viventi di cartoni animati giapponesi della sua infanzia, lo stupore è tale da provocarle persino un sorriso.

Solleva la testa, abbassa il finestrino e aspetta che si avvicinino.

- Hey cazzetti! – dice nel silenzio del parcheggio. Sa che i giapponesi ce l'hanno piccolo, lo ha visto su internet mentre stava con un cliente.

Sentendosi chiamare, i tre si voltano verso la macchina parcheggiata al buio e si accostano ridacchiando. Quello con lo smartphone riprende tutto. Lei caccia il braccio fuori dal finestrino gli fa segno di smetterla.

- Spegni quella roba! – dice coprendosi il volto con la mano dalle unghie color turchese.

Lui obbedisce e fa un inchino. Gli altri due lo imitano.

- Volete farvi un giro, cazzetti?

I tre si guardano esitanti, scambiano qualche parola cupa nella loro lingua.

L'unico dei tre che capisce qualche parola di italiano dice: - Tu, sesso?

Poi si stampa un sorriso ebete in faccia, mentre gli altri due improvvisano ridicoli esercizi di ginnastica mattutina.

- Non posso star qui in eterno – dice, - volete scopare o no?

Fa un paio di gesti inequivocabili, universalmente riconoscibili, suscitando risatine isteriche da parte di tutti e tre. Questa volta ridono con la "ih".

Sembra che sappiano solo ridacchiare.

- Peggio per voi – dice la donna mettendo in moto, - io ora stacco e me ne vado a nanna.

Inforca un paio di grossi occhiali da sole, sebbene la luce sia ancora molto debole, e ingrana la marcia.

All'improvviso uno dei tre giapponesi afferra con forza la maniglia della portiera prima che lei abbia il tempo di capire.

Riesce solo a pensare: merda, non mi sono chiusa dentro.

Ora i tre non stanno più ridendo, sono seri come Samurai.

Lei caccia un urlo, ma il secondo Samurai l'afferra e la trascina fuori per un braccio con violenza, una violenza inaudita e imprevista.

Lei pensa: merda, non avevo messo le cinture.

La macchina dà uno scossone e si spegne.

- Lasciatemi – urla la ragazza cercando di divincolarsi dalla presa dei tre.

Loro la tengono ferma, la costringono a stendersi sull'asfalto. Uno le sta accovacciato sulle caviglie come un'anatra mentre gli altri le bloccano le braccia.

Lei scuote la testa a destra e sinistra, inarca la schiena come un serpente, ma non riesce a liberarsi.

- Che cazzo volete da me? – dice intanto che il giapponese con la camicia bianca le sfila gli occhiali.

I primi raggi di sole sono come dardi incadescenti e inesorabili.

- Lasciatemi! Lasciatemi! Laciatemi! – urla. Le sue grida squarciano il silenzio soffocato dell'alba, si perdono attraverso i parcheggi sterminati e le strade vuote, sono strappate via dagli spostamenti d'aria degli sporadici tir di passaggio.

I volti dei tre uomini sono scolpiti nel marmo, non trapela più alcun barlume d'ironia, né uno spiraglio di umanità.

Si guardano fra di loro e fanno un leggero cenno col capo. Sembrano soddisfatti e concordi.

Per primi iniziano a fumare i bulbi oculari.

Friggono come uova, nonostante i tentativi della ragazza di tenere serrate le palpebre. Poi è la volta delle braccia, che prendono fuoco molto in fretta a causa della loro sottigliezza. Contemporaneamente la carne del volto si scioglie come burro colando sull'asfalto e le gambe si inceneriscono in pochi minuti.

I tre Samurai si alzano in piedi a osservare il mucchietto di cenere rimasto tra i vestiti leggeri. Polvere grigia che si disperde alle prime folate di vento caldo del mattino.

Ore 5:00
Lele-ttricista

Un furgoncino bianco sfreccia accanto a tre uomini asiatici, dal finestrino aperto uno tsunami di musica potente, EBM, electronic body music.

Synth, sequencer, ritmiche oscure e ossessive. I tre osservano incuriositi il furgoncino, cercano di leggere la scritta sulla fiancata, "Lele-ttricista", ma non riescono a capirne il senso.

Il furgoncino bianco corre lungo la statale, brucia un paio di rossi e sta per passare sotto un condominio alveare. Il ragazzo alla guida tiene il tempo scuotendo la testa e battendo le mani sul volante. Ha braccia ossute e nervose, ricoperte di tatuaggi. Si è fatto un caffè e due tiri di coca, prima di uscire. Lo fa solo per star sveglio al lavoro. Questo è quello che ripete nella sua testa, ogni volta che lo fa.

Ha dormito un'ora, dalle 4 alle 5. Alle 5 si è alzato per far colazione. Prima delle 4 i suoi ricordi sono un po' confusi.

Il condominio alveare incombe pesante e minaccioso, coi suoi 9 piani e qualche occhio acceso qua e là, tra le file infinite di finestre chiuse.

All'improvviso un cigolio. La porticina della scala B si spalanca e un uomo esce trascinando una valigia rigida azzurra che una volta aveva quattro rotelline ma adesso ne ha solo tre. Con l'altro braccio regge un albero di natale rinsecchito, abbracciandolo come un figlio.

Da un balconcino buio, su all'ottavo piano, la voce lacerante di una donna grida una parola incomprensibile, che suona come un insulto con le vocali troppo allungate.

Un cane abbaia al piano di sotto e l'uomo solleva la testa per un attimo, appena in tempo per vedere un oggetto che vola giù verso di lui.

Un istante prima che l'oggetto tocchi terra, l'uomo chiude gli occhi per fermare il tempo.

Non succede nulla, nessun rumore. I rami secchi dell'albero di natale gli punzecchiano una guancia e la valigia si adagia sul suo spigolo senza ruota:tud.

Appena riapre gli occhi, l'oggetto si schianta al suolo esplodendo in migliaia di frammenti vetrosi.

Lo ha mancato per un soffio.

Un mappamondo luminoso, un ricordo trascinato ostinatamente con sé da quando era bambino. Attraverso case e vite diverse.

Osserva il coccio con l'Australia. Avrebbe sempre voluto visitare l'Australia.

Ora non c'è tempo, potrebbe piovere altro dal cielo.

Trascina la valigia zoppa e l'alberello secco fino al cancello esterno del condominio, lo apre ed esce. Si ferma sul marciapiede guardandosi intorno indeciso. L'importante è andare, continua a ripetersi.

Quando Lele-ttricista vede il SUV nero con la portiera aperta fermo sulla carreggiata, è troppo tardi per frenare.

Lo evita sterzando bruscamente e va a finire sul marciapiede che corre davanti al condominio alveare, proprio dove si è fermato l'uomo con la valigia e l'alberello.

E lo prende in pieno.

Il ragazzo si scaraventa fuori dal furgoncino senza nemmeno spegnere la musica. I bassi continuano a pompare forsennatamente nel silenzio surreale e geometrico della periferia.

S'inginocchia accanto all'uomo riverso a terra, ancora abbracciato al suo alberello.

- Oddio è morto – grida il ragazzo afferrandosi le tempie e guardandosi intorno col cuore impazzito e i pensieri in tilt.

- L'ho ammazzato! – dice mordicchiando il piercing al labbro inferiore.

Un rivolo di sangue cola dalla fronte dell'uomo bagnando i rami alti dell'alberello.

- Cazzocazzocazzo – ripete il ragazzo come un mantra, passandosi una mano fra i capelli fin quasi a strapparli.

Pensa alla roba che ha sniffato.

Pensa che se arrivano i poliziotti è fottuto.

Pensa a sua madre e alla frittata di zucchine.

Pensa a Chiara, la sua ragazza, all'ultima scopata che hanno fatto ascoltando i Rammstein.

Pensa pensa pensa.

Poi un suono gli spegne i pensieri.

Un colpo di tosse.

L'uomo ha tossito ovvero l'uomo è ancora vivo.

- Sei vivo, cazzo! – strilla Lele-ttricista cogli occhi sbarrati, tirando su col naso.

Gli mette una mano sotto alla testa e la solleva con delicatezza. Gli parla in modo concitato, come volesse convincerlo a non morire.

- Forza forza respira dai che ce la fai bravo così sei un grande...

L'uomo da parte sua non fa che tossire e perdere sangue dalla ferita sulla fronte.

Ogni tre parole il ragazzo deve fermarsi per respirare.

- Vado a prendere il cellulare. Chiamo i soccorsi. Tu stai qui. Non ti muovere. Ecco così. Bravo. Non è niente. Vedrai...

Lele-ttricista si concentra per non sbagliare. Come se stesse lavorando su fili elettrici scoperti.

Scatta in piedi, si tuffa nel furgone, spegne la musica, apre il cassetto del cruscotto, afferra il cellulare, fa il 118 ma sbaglia a digitare. Al terzo tentativo il numero è quello giusto.

- Sì venite subito c'è un tizio che sta morendo.. no, non è ancora morto... sì cazzo! Venite e basta, porcaputtana!

Mette giù, tira un pugno al volante e sbatte il cellulare sul sedile. Quelli vogliono sempre sapere un milioni di dettagli e intanto uno può schiattare.

Esce dal furgone pregando che il tipo non sia ancora crepato. Gira intorno alla portiera aperta, lentamente, col cuore in gola che sostituisce i battiti della musica e una paura fottuta in corpo.

La prima cosa che vede è l'alberello, steso a terra come una mummia rinsecchita. Poi la valigia mezza rotta con la rotellina mancante.

Manca qualcosa, però. Dove stava disteso l'uomo, c'è una piccola macchiolina di sangue scuro.

Dell'uomo, nessuna traccia.

- Merda! – grida Lele-ttricista nel silenzio liquido del mattino. Un cane gli risponde abbaiando da un capannone lì vicino. Lui si siede sul marciapiede, si stende tra l'albero e la valigia e accende una sigaretta guardando il cielo che schiarisce dietro a cespugli di nubi color porpora.

Ore 5:30
Bunny

- Scusa, tu mi conosci, per caso? – mormora la ragazza coniglio.

All'inizio pensa che sia un sogno. La voce sembra provenire da un luogo lontano e sospeso nei sogni.

Poi lei lo sfiora e diventa reale. Lui si alza di scatto e se la trova davanti. Non l'ha sentita arrivare. Per lo spavento la sigaretta gli cade dalla bocca.

L'ambulanza non è mai arrivata. Ha chiamato anche la polizia, ma non rispondeva nessuno. Il SUV nero è ancora in mezzo alla carreggiata, con il triangolo d'emergenza posizionato a 100 metri. L'ha montato lui.

- Ti ho chiesto... se mi conosci... – ripete la ragazza coniglio inginocchiandosi sull'asfalto lì accanto. Parla lentamente, lasciando vuoti sospesi tra le parole.

Lui invece continua a raccogliere dettagli, incredulo.

Le grandi orecchie rosa di peluche, la maglietta nera aderente con la scritta PlayGirl di paillettes rosa, gli shorts di raso rosa e il mascara sciolto che cola dagli occhi.

E i piedi nudi, sporchi come se camminasse da ore.

- Non lo so chi sei – balbetta muovendo lo sguardo dai piedi della ragazza coniglio ai suoi capezzoli ben visibili attraverso la maglietta.

- La festa è stata bella – dice lei annuendo e spostando ciocche di capelli biondi dal viso.

Lui sfrega gli occhi arrossati e stanchi, ma quando toglie le mani lei è ancora lì.

- Ora però se ne sono andati tutti...

- Come mai sei vestita così?

- Sarà meglio che andiamo via anche noi – risponde lei alzandosi in piedi e offrendogli la mano. Lui fissa lo smalto fucsia sulle unghie e i polsini di velluto nero chiusi da un bottone di madreperla a forma di coniglio.

- E se arriva l'ambulanza?

- Sono andati via tutti. Te l'ho detto.

Lui si arrende e si alza in piedi, raccoglie l'alberello rinsecchito e lo carica sul furgone. Non sa nemmeno perché lo stia facendo. Lei intanto va a sedersi davanti, si fa spazio sul sedile spostando le custodie dei cd e i pacchetti di sigarette e le fotocopie e le busta e la felpa grigia e il pacchetto di crackers aperto e la lattina di RedBull e le biro e i biglietti da visita. Butta tutto sul tappetino. Lo fa con una naturalezza disarmante.

- La mia roba... – dice Lele sedendosi al posto di guida e indicando il caos sul tappetino. Non riesce nemmeno ad arrabbiarsi. Guarda la ragazza coniglio, con le sue orecchie rosa e quello sguardo immensamente vuoto mentre sorride lontana, dal suo pianeta.

- Andiamo, adesso.

La punta delle orecchie rosa si piega contro il tettuccio dell'abitacolo.

Lele mette in moto, fa marcia indietro e parte in direzione della città.

- NO! – urla tutto d'un tratto la ragazza coniglio, sconvolta.

Lele inchioda.

La frenata li fa sobbalzare entrambi in avanti e poi contro il sedile.

I loro sguardi sì incrociano, il primo arrabbiato, l'altro impaurito.

- Dall'altra parte – fa lei con gli occhi che scintillano alla luce di un lampione.

Lele aspetta spiegazioni che non arrivano, sapendo che non arriveranno.

Lei sta seduta composta, in attesa, con le mani appoggiate sulle ginocchia e lo sguardo fisso sulla strada.

Sexy da morire, come può esserlo un manichino perfetto nella vetrina di un negozio di abbigliamento.

- Dove vuoi andare? – chiede alla fine Lele.

Lei alza la testa e indica la direzione.

- Perché di là? – chiede facendo inversione e immettendosi sulla carreggiata opposta.

Lei lo guarda per un momento e poi abbassa gli occhi.

– Non lo so – dice piangendo piano.

Che diavolo sto facendo, pensa Lele sfrecciando sull'asfalto deserto. Le rivolge uno sguardo rubato e scuote la testa.

- Sai almeno come ti chiami?

La ragazza coniglio fa no con la testa fissando tutta la roba che giace sparpagliata ai suoi piedi.

- Be', io mi chiamo Lele. Qualcuno mi chiama Le. Però il mio nome intero sarebbe Gabriele. Faccio l'elettricista. Tu invece cosa fai?

Lei sposta gli oggetti coi piedi, giocherella con le biro e i pacchetti di sigarette. Non risponde. Lele butta un'occhiata, cerca di capire cosa stia combinando là sotto.

- Brava, dammi una sigaretta...

Una luce soffocata si è adagiata sulla strada e sugli edifici tutto intorno. Soffocata e soffocante.

La città alle spalle è ormai quasi invisibile e i prefabbricati sono più radi, così come i centri commerciali e i condomini e le case e i fast food e le grandi aziende.

Di tanto in tanto sorge un distributore, un'oasi di luce nel panorama desolato che circonda la statale.

Lele si volta verso la ragazza coniglio e la fissa per qualche secondo strizzando gli occhi, con la sigaretta stretta tra le labbra e il vento fresco che entra dal finestrino spalancato.

- Ti chiamerò Bunny! – esclama soddisfatto.

Lei sposta una ciocca di capelli biondi e lo guarda con quegli occhi grandi, incorniciati di nero. Sorride appena. Sembra che stia sorridendo. Si avvicina. Le orecchie di peluche strisciano contro il soffitto dell'abitacolo. Lele guarda lei, guarda la strada, poi ancora lei e ha quasi paura. Ma Bunny accosta semplicemente le labbra e lo bacia sulla guancia.

Poi tutto torna come prima.

Non parlano per un po'. C'è solo il rumore del furgone nel silenzio dell'alba.

Finché all'improvviso lei dice: - Siamo arrivati.

- Dove? – risponde lui. – Non c'è niente qui intorno!

- Ci sono tutti, invece. Eccoli là.

Ore 6.00
Epilogo

Il pullman nero dai vetri oscurati accosta e parcheggia nella piazzola. Dalla portiera esce un essere dall'incedere scimmiesco, con cappellino, divisa blu e occhiali scuri. Con un sigaro stretto fra i denti, va dall'altro lato del pullman e si affaccia al guardrail scrutando i campi disseminati di rifiuti. Souvenir degli automobilisti in corsa.

Tra una boccata e l'altra respira l'aria del mattino, che da quelle parti sa già di gas velenosi e cemento bollito, poi apre la patta e fa pipì.

Loro sono ancora lì, aria smarrita, tagli, lacerazioni, contusioni, occhi pesti, bruciature, sangue rappreso e alcool in circolo, pasticche nel cervello e sapore di sperma. Rifiuti umani.

Spazzatura notturna.

La creatura col cappellino chiude la cerniera, torna sul pullman e afferra la sua cartellina nera fermafogli con la matita appesa a un cordino.

Controlla la data sul foglio stampato e dà una rapida scorsa ai nomi.

Scende di nuovo e imbocca lo stradino sterrato che porta alla discarica.

Eccoli, i figli di puttana, pensa.

Odia il suo lavoro.

- Forza muovetevi – sbotta severo contro il gruppetto.

Iniziano le solite lamentele.

Io non posso camminare... mi fa male la gamba... ho un buco nello sterno...

- Blablabla – replica lui roteando la mano nel vuoto e scuotendo la testa.

- Che fine ha fatto il mio SUV? – chiede un tale sfacciato con la faccia spappolata.

Il conducente del bus sfila stizzito gli occhiali, scorre col dito il suo foglio stampato e legge: - SUV nero. Verrà assegnato alla ex moglie di Guido N. E adesso muoviti.

- Aspetta: sono io Guido N! La mia ex moglie è una stronza!

Un uomo dall'aria triste continua a ripetere di aver smarrito la valigia.

Il conducente lo ignora, sta contando le ragazze coniglio che si abbracciano fra loro. Un grumo di corpi da cui spuntano orecchie rosa di peluche.

I volti cosparsi di mascara nero spalmato tutto intorno agli occhi. Maschere da teschio con le orecchie di peluche. Ragazzine che si credevano grandi e ora si stringono come ragazzine.

Impaurite e tremanti fino alla coda appiccicata dietro gli shorts.

E la limousine rosa che giace riversa poco lontano.

Spazzatura notturna.

Bisogna pulire, pulire tutto. Non lasciare tracce.

Tre uomini asiatici abbandonano il gruppo e si dirigono spontaneamente verso il bus nero. Salgono in fila indiana e si siedono tra le prime file.

Il conducente li osserva compiaciuto, poi però cerca i loro nomi sulla lista e non li trova.

- Amen – dice fra sé scrollando le spalle.

Far salire gli altri invece non è affatto facile, alla fine però riesce a caricare tutti.

Quasi tutti, per la verità. Ne mancano due all'appello, ma avendo guadagnato i tre giapponesi si ritrova in credito di uno.

Bunny e Lele non si sono mossi dal furgone. Lui ha parcheggiato dall'altra parte della strada, in una piazzola, nascosto dietro un cespuglio. E ha visto tutto.

Lei continuava a insistere per andare dalle sue amiche, ma lui è riuscito a fermarla.

Finché il bus nero è ripartito.

Sono rimasti soli, sfuggiti all'alba che tutto fagocita, intrappolati nel giorno in divenire, liberi e persi, vincitori e reietti.

Bunny appoggia i talloni sul sedile e abbraccia le gambe. Posa la testa sulle ginocchia, lo guarda.

- Ce ne andiamo – dice lui.

- Per sempre?

- Per sempre.

- Grazie.

- Per cosa?

Lei stringe la sua mano e dice: - Lo sai.

Il furgone sfreccia lontano dalla città nel chiarore abbacinante del mattino. Bunny si è addormentata e Lele cerca di stare sveglio, ma la testa gli cade, gli occhi si chiudono di continuo e lui non ce la fa. Un colpo di sonno, il flash di una macchina che gli viene addosso, una controsterzata, l'adrenalina da zero a mille e il polverone che si solleva da uno sterrato.

Col cuore in gola si guarda intorno. È vivo, ma Bunny non c'è più.

Ci sono solo le sue orecchie rosa sul sedile.

Lele scende dal furgone e controlla la strada in entrambe le direzioni. Niente. Scruta i campi tutto intorno ma sa che non la troverà. È svanita nel nulla, come se non fosse mai esistita. Prova a chiamarla, urla il suo nome.

Inutile come invocare fantasmi.

Poi un pensiero insensato e improvviso gli attraversa la testa: si precipita verso il portellone posteriore, lo spalanca e ci guarda dentro.

È ancora lì.

Dunque qualcosa è rimasto, di quella notte.

Qualcosa di vivo, reale.

E dall'alberello secco sono spuntati mille aghetti verdi.

© Matteo Bertone





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