In quest′epoca di contrapposizioni frontali (ma forse, a ben guardare, ogni epoca lo è), un po′ di wabi-sabi ci farebbe comodo, insomma “una bellezza imperfetta, non permanente ed incompleta”. Perché succede, per esempio nella musica, ma in tutte le arti, che le composizioni dei nostri beniamini le consideriamo perfette ed inarrivabili, siano quelle di Giuseppe Verdi o di Luciano Ligabue, ma la perfezione non è di questo mondo, ed è giusto così. Ed avvicinandoci sempre più ai giorni nostri, non che le cose si semplifichino, se pensiamo in quanti generi e contaminazione tra l′uno e l′altro si possa (tentare di) dividere la musica che si esegue oggi. E manco classica o leggera è più una divisione accettabile (nel senso di “univocamente riconosciuta”), anche se, così ad occhio, sembrerebbe evidente. Nella crisi delle divisioni un po′ manichee (perché se dividiamo, spesso diamo anche dei giudizi di valore…), è preferibile dare altri criteri per parlare di musica e della cultura che ad essa è così strettamente legata, in quanto la musica ci intrattiene, ma ci ispira e ci insegna anche e dice molto del contesto nel quale il musicista opera.
In “Quei gran pezzi dell′Emilia Romagna” di Odoardo Semellini e Brunello Salvarani, partendo da Verdi e muovendo dall′assunto che gli emiliani siano una “brutta razza”, enunciato in quella canzone di Francesco Guccini dove, e non è un caso, “verdiano” fa rima con “strano”, si racconta la ricchissima storia musicale di questa regione, con assoluta precisione documentaria, però con quel rispetto vero che non esclude la battuta amichevole anche al cospetto del “cigno di Busseto”. Ma si risale ancora più indietro, alle sonate per organo di Arcangelo Corelli, che era di Fusignano (come Arrigo Sacchi…). Dagli Skiantos a Nilla Pizzi, passando per lo Zecchino d′Oro ed il “beat”, si fa capire come la musica, qualunque musica, sia cultura. Anche se si parte da qualcuno che non sa suonare, com′era il caso agli inizi di Freak Antoni e del suo gruppo. E′ cultura perché trasmette delle sensazioni e comunica col nostro animo, anche se magari dal palco ci tirano la verdura, perché il pubblico aspetta che succeda qualcosa…ed in effetti qualcosa succede. Ed è anche politica, non soltanto perché vi si parla delle canzoni partigiane e perché le rappresentazioni musicate dei “maggi” possono essere anche uno strumento di emancipazione femminile. Ma perché in fin dei conti, anche se cerchiamo di dimenticarcene, tutto è politica, anche creare una banda “d′integrazione”, come i Rulli Frulli di Finale Emilia, non fermati neanche da un terremoto.
E′ molto bello l′atteggiamento aperto ed intelligente degli autori, che vogliono stabilire collegamenti e riferimenti, in modo molto ardito ma anche elegante, non dimenticando che il mondo della musica è infinitamente più coeso di quanto sembra. Un approccio alla Pavarotti: se si può cantare, lo cantiamo, anche se il genere non è proprio il mio, ci si prova. Perché in effetti, aver passione, è anche accettare la sfida. Ed allora le contrapposizioni, di cui dicevo sopra, diventano quasi soltanto espedienti di mercato. Tornando agli anni ′60, nel momento in cui uno come Gianni Morandi veniva presentato come il cantante dei giovani, per rompere con quella tradizione incarnata dai cantanti della generazione precedente, a cominciare da Nilla Pizzi, che Gianni ammira moltissimo. Così Casadei (Secondo, lo zio di Raoul) cerca di conservare i valzer insinuandoli tra i boogie woogie. Ed a volte l′operazione di contaminazione gli riesce pure… Così Guccini non esita ad accostare nella sua ammirazione il Quartetto Cetra, la cui voce femminile Lucia Mannucci era bolognese, ai Beatles.
Dietro tutto questo, c′è un immenso amore per la musica, che stabilisce collegamenti che sono un po′ nella logica delle cose, dove la musica così riunificata si apre senza problemi alla poesia: è emblematica proprio l′apertura mentale di Freak Antoni, che può leggere poesie surreali sulla musica di Erik Satie, ma anche sognare di andare a Sanremo, non riuscendoci per un soffio. Il personaggio di Freak Antoni è appunto emblematico dell′atteggiamento stesso degli autori, che raccolgono e mettono in relazione dischi e materiale documentario, con un approccio molto, se mi passate il termine, futurista, privo di blocchi mentali e di preclusioni, in un movimento che passando da Balilla Pratella (che era di Lugo) a Bruno Munari, transita per Marinetti.
Un libro bello ed una lettura gradevolissima, sia ad apertura di pagina che tutto di seguito, senza trascurare qualche andirivieni e qualche su e giù. L′idea è di mostrare come la posizione baricentrica e di transito di una regione come l′Emilia Romagna si ripercuota nel desiderio di sperimentazione e di contaminazione, ed in fin dei conti nel diritto di provare ad evolversi ed a giocare coi suoni, ed in quello opposto di stare sempre al proprio posto ed ammiccare ai passanti. Ricchissima la quantità di materiale raccolto, con notizie curiose ed anche di difficile reperimento, e sappiate, per dirne una, che se dopo questa recensione, vi sarà venuta voglia di un piatto di tortellini, dovete ringraziare la signora Adelaide, che li inventò nel 1821. Conclusione banale, ne convengo, ma provate a dire che i tortellini non sono un fatto culturale…