L’angoscia della scelta
Sollecitati da alcuni capolavori certi scrittori rivisitano le narrazioni precedenti modificandone la trama o solo aggiungendo pensieri ed azioni ai personaggi.
Utilizzano il nucleo centrale dell’opera per esplicitarne alcuni significati o per attribuirne di nuovi.
È quello che fa, ad esempio, Lion Feuchtwanger (1) che in un racconto rivisita il mito di Odisseo.
L’Odisseo di Feuchtwanger non è, però, l’abile e scaltro condottiero che ha combattuto a Troia ma un uomo ormai sessantenne, con le spalle curve e i capelli bianchi. Odisseo riparte per un viaggio nostalgico verso l’isola dei Feaci e qui sente cantare dall’aedo Deodoco le sue avventure. Ma c’è qualcosa che non torna nel racconto e Odisseo si sente in dovere di narrare la vera storia all’aedo, soprattutto per quanto riguarda l’incontro dei suoi compagni con la maga Circe.
Infatti, a differenza di quanto creduto, racconta Odisseo, i suoi compagni ammaliati dalla maga Circe e trasformati in scrofe trovarono eccezionalmente soddisfacente la loro nuova condizione e si opposero disperatamente ai suoi tentativi di ridare loro sembianze umane.
Solo dopo un’immane fatica l’eroe riuscì a prenderne uno e a strofinargli l’erba magica sul dorso. Così dal corpo dell’animale spuntò fuori Elpenore. Il “liberato” Elpenore tuttavia non fu affatto grato a Odisseo per tale liberazione e attaccò furiosamente il suo (presunto) “salvatore”.
«E così sei tornato, farabutto, ficcanaso che non sei altro? Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com’ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi: “Che devo fare, questo o quello?” Perché sei tornato? Per rigettarmi nell’odiosa vita che conducevo prima?» (2).
Odisseo viene accusato dal compagno di averlo “ritraghettato” verso una esistenza di sofferenza e soprattutto di angoscia per le continue scelte che l’uomo deve compiere quotidianamente.
Leggendo questo brano non può non tornare alla mente Kierkegaard (3) che, indubbiamente, ha il merito di aver posto in evidenza l’angoscia dell’uomo di fronte alla scelta.
Ogni singolo, secondo il filosofo danese, in ogni stadio dell’esistenza è sottoposto alla questione della scelta ma siccome ogni possibile soluzione è apertura verso l’ignoto, ogni scelta crea angoscia.
Ogni opzione, infatti, rimanda ad infinite possibilità, ma una volta compiuta la scelta non c’è più l’opportunità di ritornare nella condizione di innocenza originaria.
Una porta viene varcata e l’altra (o le altre) si chiudono per sempre.
Lo stato nel quale si trova l’uomo di fronte alle scelte non è certo di tranquillità, ma di tensione, di continua lotta interiore.
Fortunato è allora l’animale che, non avendo consapevolezza, non può essere sottoposto all’angoscia. Nell’uomo, invece, questo stato è perenne. Venendo a Kafka, credo di non sbagliarmi considerandolo un uomo non privo di angoscia.
Così scrive Ladislao Mittner: «Si dice spesso che la vera angoscia non è generata da singole cose o singoli eventi, ma da un senso del nulla che si rivela dappertutto, in ogni cosa. È il caso di Kafka. Chi vive veramente nella realtà, trova angoscianti le cose che violano o sembrano violare la legge della realtà; chi vive fuori della realtà, trova angosciante la realtà intera, e la trova tanto più angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce alla propria legge, quanto più essa è normale» (4).
Il rischio scrivendo su e di un uomo è però sempre quello di assolutizzarne un carattere a discapito della complessità. A maggior ragione per Kafka che, come ricorda Luigi Ferrari, tendeva spesso a “storpiare” la realtà presentandosi nei suoi scritti autobiografici in modo peggiore di quello che apparisse nella quotidianità (5).
Kafka, come ogni uomo capace di riflettere sul suo destino, fu senza dubbio angosciato dal problema della scelta, dalla colpa e soprattutto dalla non conoscenza, ma al contempo fu anche un uomo discretamente allegro: «Chi incontrava Kafka non lo vedeva certo oppresso da tiranniche e tetre impressioni giovanili, non trovava traccia di decadentismo o snobismo, che avrebbero potuto essere facilmente un modo da evadere da tali depressioni, né vi trovava un’anima dilaniata o contrita» (6).
Scrive lo stesso Kafka sull’originalità di ogni uomo: «Ognuno di noi è un tipo particolare e, proprio per questa sua particolarità, è destinato ad agire, a patto che a questa particolarità prenda gusto» (7).
Tuttavia l’aspetto dell’angoscia, collegato all’impossibilità di conoscere la Verità, ritorna spesso nei suoi scritti.
Molti dei personaggi di Kafka sono angosciati, soprattutto quando cercano di accedere in luoghi che sono a loro preclusi. La preclusione diviene inoltre, esclusione dalla conoscenza.
Gli esempi sono molteplici.
Una porta aperta, sorvegliata da un anonimo custode (Türhüter: letteralmente, un portinaio). Oltre, si dice, si trova la Legge (Gesetz). Di quale Legge si parli non è chiaro. Potrebbe trattarsi della verità assoluta, della somma giustizia, del senso ultimo delle cose. Kafka è “volutamente” evasivo.
Certo non lo sa, nemmeno il custode. Ma tutti vogliono conoscere “la” Legge.
Anche un uomo, giunto dalla campagna che chiede al guardiano di poter entrare, di poter avere accesso alla Legge. Ma questo non è possibile per quanto la porta sia aperta solo per lui e si chiuderà alla sua morte dopo un’attesa interminabile (8).
È noto che lo scritto Davanti alla legge, come racconto breve, fu pubblicato mentre Kafka era ancora in vita, la prima volta nell’edizione di Capodanno del 1915 del settimanale ebraico indipendente Selbstwehr, poi, nel 1919, fu inserita nella raccolta: Un medico di campagna.
Lo stesso racconto si ritrova anche ne Il Processo, esattamente nel capitolo IX. Josef K. deve mostrare la cattedrale ad un importante cliente italiano. Tuttavia il cliente non si presenta e K. decide, dopo aver atteso in vano, di lasciare la cattedrale per evitare la predica del sacerdote salito sul pulpito.
Ma il suo tentativo di “fuga” viene fermato dal religioso, che lo chiama per nome pur non avendolo mai visto prima. Si viene così a scoprire che il prete è il cappellano delle carceri. È il sacerdote che gli narra il racconto premettendo che fa parte degli scritti che introducono alla legge. Alla fine del racconto il prete e K. discutono delle possibili interpretazioni della storia.
Il sacerdote, con il suo continuo richiamarsi alle “opinioni” che si contraddicono a vicenda, suggerisce l’idea dell’impotenza della ragione umana a comprendere, fino in fondo, il rapporto tra l’uomo e il suo limite.
Riferendosi a questo racconto, taluni studiosi hanno accolto per buona l’interpretazione, che invece Josef K. giudica una “malinconica opinione”, per cui la verità oggettiva, la Legge, è sempre al di là e indisponibile all’uomo, “assolutamente insuperabile”.
Similmente a quanto avviene al contadino al quale è preclusa l’entrata nel palazzo della Legge, lo stesso accade all’agrimensore K. che non può accedere al Castello.
Ogni sforzo che l’agrimensore fa risulta inutile, quasi vi fosse una differenza ontologica insuperabile tra i funzionari e lui. E anche quando finalmente, dopo «umilianti appostamenti e viavai di nessuna utilità pratica, finalmente riesce ad avere un colloquio notturno con un funzionario che lo tratta benevolmente e promette di occuparsi del suo caso, anche se forse non ne ha il potere» (11), K. si addormenta stremato mentre l’altro gli parla.
La differenza fra Kafka e i suoi personaggi è data dal fatto che questi tendono a non arrendersi mentre lo scrittore praghese si lascia trascinare, abbastanza facilmente, ai margini della vita, laddove non è costretto a giocare con l’esistenza ad un gioco del quale non conosce le regole e non sa la conseguenza delle sue mosse (12).
Sembra quasi che, nel mondo di Kafka, vi sia una ossessiva ripetitività di alcuni nuclei tematici che ricompaiono, immutati nella sostanza, dai racconti giovanili sino alle opere più tarde.
Il nucleo tematico che, in questa sede, mi interessa è quello dell’impossibilità attraverso la ragione di arrivare alla Legge, alla verità. L’assenza della comprensione finale, la mancanza di una visione escatologica, pone, come effetto, la inconoscibilità della relazione, laddove mai esista, fra le azioni dell’individuo e le loro conseguenze. L’assenza di Dio o di ogni altro apparente significato, rende la vita irrazionale e quindi priva di senso ogni cosa (13).
Riecheggiano le frasi di Lady Machbeth: «Spegniti, spegniti breve candela! La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore che avanza tronfio e smania la sua ora sul palco e poi non se ne sa più nulla. È un racconto fatto da un’idiota, pieno di grida e di furia, che non significa nulla» (14).
In questo senso ricordo il pensiero di John Carroll che nel suo Il crollo della cultura occidentale (15), tratta dell’impossibilità da parte dell’uomo moderno di risolvere, una volta liberatosi della presenza di Dio, gli interrogativi sul senso dell’esistenza.
Tornando a Kafka valgano le parole del celebre scrittore friulano Carlo Sgorlon: «Capivo che anch’io, come Kafka e tutto il popolo ebraico, o forse tutti gli uomini pensanti, ero in attesa del messaggio dell’Imperatore dell’universo. Kafka sapeva che quel messaggio non sarebbe mai arrivato. Il messaggero mai sarebbe riuscito ad attraversare le mille difficoltà per uscire dal palazzo imperiale di Pechino e quelle incontrate nella Cina infinita, e raggiungere l’umile operaio che lavorava alla costruzione dell’immensa muraglia, e non sapeva a quale scopo» (16).
L’assenza di scopo impedisce l’azione, immobilizza non solo i personaggi ma lo stesso Kafka (17).
Si considerino due esempi uno maggiormente biografico e uno totalmente letterario.
Nella Lettera al padre, scrive Kafka: «Per me non c’era vera libertà nella scelta della professione. Sapevo che di fronte alla cosa principale, tutto mi sarebbe stato indifferente, come le materie d’insegnamento del liceo. Si trattava dunque di trovare una professione che, senza ferire troppo la mia vanità, permettesse questa indifferenza. Era ovvio dunque scegliere giurisprudenza» (18).
Tratto fondamentale di questa dichiarazione è l’indifferenza dei fatti della vita che lo porterà anche a sottovalutare il lavoro (non come impegno ma come significato) e molti degli aspetti della sua esistenza ad esclusione, forse, della scrittura, vero sfogo alle sue ansie. Si trova, infatti, nei Diari: «Scrivo queste cose certamente perché dispero del mio corpo e del mio avvenire con questo corpo» (19).
Nella stessa direzione mi sembra possa essere considerato il brevissimo racconto Il Villaggio vicino (che per la sua brevità riporto integralmente).
«Mio nonno soleva dire: La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata» (20).
La brevità della vita non è solo temporale, il racconto non è solo una riflessione sulla finitudine dell’uomo, come è ovvio, ma anche il pensiero che nulla può essere intrapreso perché nulla può essere portato a termine.
Lo sforzo, anche il più semplice, è inutile e non avvicina l’uomo alla sua meta (che è rimane sconosciuta).
I protagonisti del Castello, del Processo di America, come quelli di molti racconti, sono tristemente soli, afflitti da sensi di colpa che li schiacciano e li condannano ad un’esistenza disperata e ai margini della società, proprio come il loro creatore. Con lui condividono un’importante caratteristica: l’esitazione. Sono incapaci di scegliere, sono condannati ad una non-vita. Lo stesso Kafka nei suoi Diari dice di essere un non-nato, condannato a morire senza avere vissuto (21).
La malattia come alibi.
Descrivendo la sua famiglia nei Diari Kafka pone in evidenza le differenze tra gli antenati della madre e quelli del padre. ascritta
La famiglia della madre era composta da persone religiose, pie e riflessive anche se non sempre abili su un piano pratico. La famiglia del padre era invece composta da uomini forti, decisi, concreti.
Va da sé che Kafka si sentisse più affine ai parenti della madre.
Il padre, diventato celebre per la famosa lettera scrittagli dal figlio e mai consegnata, viene dipinto come un borghese grezzo, insensibile e arricchito ma soprattutto sovrabbondante di forza vitale rispetto al figlio, timido e introverso.
«Ti pareva che stesse più o meno così: tu hai lavorato sodo per tutta una vita, hai sacrificato ogni cosa per i tuoi figli, soprattutto per me; di conseguenza io ho fatto la bella vita, ho avuto la massima libertà di studiare quello che volevo, non ho dovuto preoccuparmi né di procurarmi il cibo né di qualsiasi altra cosa; tu non pretendevi per questo la mia gratitudine, la conosci, la gratitudine dei figli, ma almeno un po’ di gentilezza, qualche accenno di compassione, e invece io mi sono sempre rifugiato davanti a te, in camera mia, tra i miei libri, coi miei amici stravaganti, nelle mie idee eccentriche; non ti ho mai parlato apertamente, non mi sono mai messo accanto a te nel tempio né ti sono mai venuto a trovare a Franzensbad; inoltre non ho mai avuto il senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozio e delle altre cose tue, la fabbrica l’ho addossata a te e poi ti ho abbandonato, ho dato man forte a Ottla nella sua testardaggine, e mentre per te non muove un dito (non ti prendo nemmeno i biglietti per il teatro), per gli amici faccio tutto» (22).
Kafka viene accusato dal padre di inedia, di mancanza di volontà. Accuse che nella Lettera, per certi versi, Franz Kafka sembra condividere soprattutto quando affronta la sua incapacità di sposarsi.
«Il più importante ostacolo al matrimonio è comunque l’inestirpabile convinzione che per mantenere o comunque guidare una famiglia siano necessarie tutte quelle caratteristiche che ho riconosciuto in te, tutte insieme, nel bene e nel male, a costituire un tutto organico come nella tua persona, e quindi forza e disprezzo degli altri, salute e una certa smodatezza, loquacità e insufficienza, autostima e insoddisfazione del prossimo, senso di superiorità e tirannia, conoscenza degli uomini e sfiducia nei più, e anche pregi senza contropartita alcuna come laboriosità, resistenza, presenza di spirito, animo intrepido. Di tutto ciò io in confronto non avevo niente o soltanto pochissimo, e con ciò io osavo sposarmi pur vedendo che persino tu nel matrimonio dovevi lottare strenuamente e, coi tuoi figli, arrivavi a fallire?» (23).
Ritornando a quanto sopra accennato l’assenza di impegno, incomprensibile per il padre, poteva derivare dall’idea dell’irrazionalità del vivere che affliggeva Franz.
Tuttavia questo suo atteggiamento apatico o di separazione dalla vita doveva necessariamente trovare una giustificazione, un alibi.
Kafka sembra trovare così una via di fuga nella malattia.
Scrive Bufalino: «La malattia, che nel corso dei secoli è stata, quasi sempre, rappresentata nei testi letterari come uno squilibrio dell’essere e uno scandalo biologico, con effetti di stupore, paura, ribrezzo; e le cui radici sono state via via attribuite a un sopruso degli dei, a una rivolta del corpo, a una crudele maledizione, a un’oscura autopunizione... la malattia, dico, dopo essersi a lungo incarnata in personaggi disgraziati e commiserabili, a un certo punto della sua storia, poco meno di due secoli fa, ha preso ad assumere un carattere positivo, di distinzione e quasi di araldico blasone, trasformandosi, come suona appunto il titolo del mio intervento, da stigma in stemma» (24).
Probabilmente per Kafka la malattia non divenne mai uno stemma, un segno distintivo ma la ragione che giustificava, o almeno cercava di farlo, l’assenza di forza vitale e che gli permetteva di potersi creare uno spazio entro il quale privilegiare le attività che preferiva come lo scrivere.
I sintomi che gli avvelenarono la vita furono, in base a quanto lui stesso racconta nei suoi Diari: insonnia, acufeni, astenia e disturbi neurovegetativi. Dopo pochi anni fu costretto al ricovero presso una casa di cura specializzata in malattie del sistema nervoso e patologie polmonari.
In seguito comparvero insonnia e intolleranza verso i rumori. Il quadro clinico peggiorò ulteriormente per via della astenia, della stipsi e dei disturbi neurovegetativi.
Kafka, poco favorevole alla medicina tradizionale, si curò con diete crudo-vegetariane.
Nel 1909 e nel 1913 soggiornò a Riva del Garda in una Casa di Cura raccomandata per il trattamento della neurastenia, disturbi di assimilazione, affezioni di cuore e dei polmoni.
Come scrive Alessandro Miorelli: «L’esperienza vissuta nel Sanatorium e in particolare a Riva lascerà traccia in un’opera minore della produzione kafkiana scritta tra il 1916 e il 1917: Der Jäger Gracchus. Lo scenario meraviglioso del Garda viene ad essere visione di morte, di disperazione e di moto perpetuo. Non più i cangianti colori del verde della vegetazione, il blu del lago e il giallo dei limoni bensì la tragedia di una morte e la prigionia oltremondana in un luogo indesiderato (il Garda)» (25).
Alcuni anni dopo Kafka sostenne di avere i nervi a pezzi e di vivere tormentato da cefalee.
Il 9 agosto 1917 ebbe un’emotisi. «Le 4 del mattino. Mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere la luce. E così comincia. E pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente se non l’avevo aperta. Ecco, dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi» (26).
Così ne parla Brod: «24 agosto 1917. Misure per le malattie di Kafka. Egli la considera psichica, quasi un salvataggio dal matrimonio. La chiama la sua sconfitta definitiva. Ma da allora dorme bene. Liberato? O anima tormentata?» (27).
La malattia lo deresponsabilizza lo rende estraneo alla vita senza che ciò dipenda da una sua scelta. Ecco l’alibi, che senza sua colpa o volontà, lo allontana dal matrimonio e da ogni dovere sociale, lasciandolo, in un certo senso, libero.
Per sottolineare come la malattia e il ricovero in Casa di Cura faccia accedere ad un mondo diverso e separato riprendo le parole di Robert F. Murphy, che fu brillante antropologo statunitense, che descrive la sua gravissima malattia e il suo diventare disabile, con gli occhi dello scienziato sociale.
«Quando l’ultimo dei visitatori serali se ne va, i legami del reparto neurologico con l’esterno si interrompono, i suoi residenti tornano al mondo chiuso dell’ospedale. Il reparto si differenzia dal resto dell’istituzione, perché qui i degenti restano più a lungo, e molti di loro sono profondamente e irreversibilmente malati.
Non sono qui temporaneamente, per una o due settimane, ma sono frequentatori abituali, stanziali. La struttura non è loro estranea – cosa che rende meno sgradevole la situazione – perché i ritmi sono parte di una routine divenuta familiare. I pazienti lungodegenti vengono, in qualche modo estraniati dagli altri, e gli eventi che gli vengono raccontati dai visitatori non ha l’immediatezza di ciò che sta accadendo nel reparto. Si tratta di un’altra dimensione, ma quando scende la sera, i degenti ritornano alle abitudini consolidate, divenute familiari dopo molti ricoveri. In qualche modo sono contenti quando i loro ospiti se ne vanno» (28).
Secondo Murphy dunque lo stato di malattia creerebbe una separazione tra il mondo dei sani e quello dei malati, laddove vigono regole diverse e cambiano radicalmente le priorità, allontanando i patemi della quotidianità e sostituendoli con nuove preoccupazioni.
Un’ ultima annotazione. Per quanto biograficamente la malattia abbia segnato lo scrittore praghese essa non irrompe quasi mai nei suoi racconti coì come non parla mai esplicitamente della tubercolosi, a differenza ad esempio di quanto fa Gesualdo Bufalino che, partendo dalla sua malattia contratta nel gennaio del 1944 e dalle sue esperienze ed emozioni, debitamente trasfigurate, maturate nel sanatorio della Conca d’Oro, vicino Palermo, crea il suo capolavoro: Diceria dell’untore.
Quasi una chiusa
Per quanto la malattia non diventi mai il centro dei racconti ve ne sono alcuni che, a parer mio, hanno a che vedere con essa o con la sua peggiore conseguenza: la morte.
A tale proposito mi voglio soffermare su: Un digiunatore (Ein Hungerkünstler) e su Il cacciatore Gracco (Der Jäger Gracchus, titolo scelto da Max Brod).
Ho sempre sostenuto il realismo di Kafka e il suo stretto rapporto con fatti ed avvenimenti storici.
Anche nel caso del digiunatore, Kafka parte dalla realtà. I digiunatori, infatti, non sono frutto di una mente leggermente alterata o di una fantasia sfrenata o morbosa, ma personaggi concretamente vissuti tra la metà dell’800 e i primi del ‘900. I digiunatori erano uomini e donne in grado di sfidare la fame per giorni e giorni, persone che del loro digiuno facevano mostra e vanto.
La presenza di questi individui che rinunciavano al cibo attirava migliaia di persone e, se raggiungevano una discreta fama, potevano guadagnare anche parecchio. Uno dei più famosi fu un italiano, Giovanni Succi, originario di Cesenatico e celebre in tutta Europa.
Tuttavia con il tempo, come lo sesso Kafka ci ricorda, i digiunatori furono quasi dimenticati: «In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico…» (29).
Kafka scrive “Un digiunatore” nel 1922 quando ormai questo bizzarro esercizio aveva perso il suo fascino e, soprattutto, aveva perso spettatori, ma che lo scrittore praghese ricordava ancora.
Come sempre avviene gli scritti di Kafka si aprono ad un florilegio di interpretazioni.
Molti vi hanno visto una sintesi del difficile rapporto tra Kafka e il cibo, altri la mettono in relazione con la scrittura facendo leva sulle stesse parole di Kafka.
«Allorché nel mio organismo fu chiaro che lo scrivere è il lato più fertile della mia natura, ogni cosa vi si concentrò lasciando deserte tutte le facoltà intese alle gioie del sesso, del mangiare, del bere, della riflessione filosofica e soprattutto della musica. Io dimagrai in tutte queste direzioni. Ed era necessario, perché nel loro complesso le mie forze erano così esigue che soltanto raccolte potevano passabilmente servire allo scopo di scrivere. S’intende che non ho trovato questo scopo coscientemente e da me, ma esso si trovò da sé e ora è ostacolato soltanto dal lavoro d’ufficio, ma in misura radicale. In ogni caso non devo però rimpiangere di non poter sopportare un’amante, di capire dell’amore quasi quanto della musica, e di dovermi accontentare degli effetti più superficiali, di aver cenato la sera di San Silvestro con scorzonera e spinaci, accompagnati da un quarto di Xeres, e di non aver potuto partecipare domenica alla lettura del saggio filosofico di Max […]» (30).
Personalmente, considerando anche la data di composizione e di correzione del racconto, non posso non pensare allo stesso Kafka e alle sue condizioni di salute. Erano quelli i giorni, infatti, in cui lo scrittore praghese si consuma incapace di mangiare, di deglutire, anche di bere se non a prezzo di intensi dolori alla gola.
Kafka riesce ancora una volta con un trucco di prestigio a trasformare la sua situazione tragica in un racconto ironicamente drammatico con valenza universale.
La narrazione si basa su un malinteso.
Per la gente, gli spettatori l’astinenza dal cibo del digiunatore era da considerarsi come un esercizio ascetico, un’impresa favolosa.
Per il digiunatore era un fatto ordinario, imposto dalle condizioni di vita più che una scelta di privazione. Il digiunatore non sceglie di non mangiare, ma è la vita che glielo impone. Ritorna così la tematica della scelta e il fatto che il Kafka – digiunatore non si sente diverso dagli altri, né particolare per come il suo fisico, provato dalla malattia (digiuno), lo ha reso.
Kafka non pensa di meritare l’ammirazione di nessuno, soprattutto di quelle tante persone che gli sono scivolate accanto e che lui non ha mai afferrato. Uniche eccezioni i pochi amici, la sorella Ottla, Milena e Dora.
«Perché non dobbiamo ammirarlo?», chiese il sorvegliante. «Perché io son costretto a digiunare, non posso farne a meno», rispose il digiunatore. «Ma senti, senti!», disse il sorvegliante, «e perché non puoi farne a meno?» «Perché», replicò il digiunatore sollevando un pochino la sua testolina e parlando con le labbra appuntite come per schioccare un bacio proprio all’orecchio del sorvegliante, «perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l’avessi trovato, credimi! non avrei fatto tante storie, e mi sarei rimpinzato come te e come tutti». Furono le sue ultime parole; ma nei suoi occhi spenti brillava ancora la ferma, anche se non più fiera, convinzione di protrarre il digiuno» (31).
Kafka non ha mai addentato e divorato la vita ma non perché non lo volesse ma perchè non trovò mai nulla per cui valesse vivere.
Ne Il Cacciatore Gracco, ritorna prepotente il tema dell’indecisione, dell’impossibilità di poter portare a termine qualcosa, anche il solo fatto di morire, già presente ne Il Villaggio vicino.
Il cacciatore Gracco è un racconto datato 1917, quando la malattia non era ancora “esplosa”, per cui Kafka poteva sondare con meno ansia il destino dell’uomo.
Il racconto narra la bizzarra vicenda di un cacciatore che, mentre insegue un camoscio nella Foresta Nera, cade in un dirupo morendo.
Fin qui nulla di strano senonché la barca funebre che ne trasporta il corpo sbaglia rotta.
Secoli dopo, l’imbarcazione giunge in Italia, a Riva del Garda, dove il cacciatore viene accolto dal sindaco della città.
«”Lei è morto?”, “Sì, come vede” rispose il cacciatore. “Molti anni fa, ma devono essere moltissimi anni, nella Foresta Nera – che è in Germania – precipitai da una rupe mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto”. “Lei vive però anche” osservò il sindaco. “In certo qual modo” rispose il cacciatore, “in certo qual modo sono anche vivo. La mia barca funebre ha sbagliato rotta, un falso colpo di timone, un istante di disattenzione da parte del barcaiolo, una deviazione attraverso la mia splendida Patria, non so che cosa sia stato; so soltanto che sono rimasto sulla terra e che da allora la mia barca solca acque terrene. Così io che volevo sempre vivere sulle mie montagne viaggio dopo morto per tutti i paesi della terra”» (32).
La barca così, invece di raggiungere l’oltretomba, rimane a navigare perpetuamente nelle acque del mondo terreno.
Gracco quindi, pur essendo defunto, è anche vivo e in grado, almeno di parlare.
Quando il sindaco gli chiede se sia in qualche modo partecipe dell’aldilà, Gracco risponde: «Sto sempre […] sulla scala che vi sale. Mi aggiro su questo scalone infinitamente ampio, ora in alto, ora in basso, ora a destra, ora a sinistra, sempre in moto. Ma quando prendo il massimo slancio e già vedo brillare il portone lassù, mi sveglio nella mia vecchia barca incagliatasi desolata in qualche acqua terrena» (33).
Il cacciatore aggiunge che, da parte sua, aveva accettato senza riserve la morte, e si dichiara incolpevole del fatto che essa gli sia venuta a mancare. Egli ormai sa bene che, per lui, non ci sarà più rimedio né aiuto possibile; dovrà continuare a vagare in eterno: «La mia barca è senza timone e viaggia col vento che soffia nella più basse regioni della morte» (34).
Anche in questo caso non mancano i riferimenti biografici come l’ambientazione della storia a Riva de Garda dove Kafka, come ho già detto, si recò più volte.
«Il significato della reiterazione letteraria del viaggio a Riva del Garda non è così scarso da poter essere ignorato. Si può quasi dire che i soggiorni rivani abbiano coinciso con momenti emblematici della parabola umana dello scrittore praghese: la mitologia del l’evasione (viaggio a Riva del 1909), la ricerca di un recupero psicofisico (viaggio a Riva del 1913), la coscienza del l’irresolubile precarietà della propria condizione esistenziale (viaggio immaginario della morte-vita del cacciatore Gracco)» (35).
Ma soprattutto torna la paura del non poter scegliere.
Impossibilità dovuta non alla sua volontà, Gracco accetterebbe la morte, ma a quella di qualcosa di esterno, un’imprecisione che ha bloccato il normale transito, l’organizzazione del viaggio verso l’aldilà.
Neppure la morte pone fine alla sua angoscia di uomo, all’incapacità di realizzare qualcosa, anche solo alla capacità di morire (per quanto ciò dovrebbe essere assolutamente naturale). Il dramma per Gracco – Kafka è quello di vagare eternamente senza la possibilità di un approdo qualunque, schiavo di quell’incertezza che gli ha impedito di vivere, gettandolo fra le braccia della malattia.
NOTE
1. L. Feuchtwanger, Odisseo e i maiali, Nottetempo, Milano 2012.
2. Ibidem
3. Kierkegaard fu un filosofo conosciuto, letto ed apprezzato da Kafka come testimonia Brod. M. Brod, Franz Kafka, Passigli, Bagno a Ripoli 2008, p. 180.
4. L. Mittner, Kafka senza kafkismi, in L. Mittner, La letteratura tedesca del Novecento, Einaudi, Torino 1960.
5. L. Ferrari, Superfluità e ‘vuoto mentale’ dei lavoratori: una esplorazione attraverso i racconti di Franz Kafka, in Narrare i gruppi Etnografia dell’interazione quotidiana Prospettive cliniche e sociali, vol. 10, n° 2, Ottobre 2015. Ha rafforzato questa impressione la stessa testimonianza dello scrittore, il quale “enigmaticamente” ha depistato i suoi interpreti dicendo di sé di essere stato un impiegato modesto, svogliato, incapace e spesso assenteista. (Si veda: Kafka F., Confessioni e diari, Mondadori, Milano 2006). La realtà, sappiamo oggi, era del tutto differente. Franz Kafka, effettivamente, dopo solo pochi mesi di lavoro aveva abbandonato le Assicurazioni Generali per impiegarsi presso l’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, in Praga proprio a motivo del troppo lavoro (e della modesta retribuzione) alle Generali. Tuttavia, nell’Istituto la sua attività fu poi assai apprezzata non solo per la dedizione e la serietà, ma anche per le capacità, l’originalità delle soluzioni escogitate ai problemi assicurativi1 e per l’affidabilità nel portare a termine incarichi delicati
6. M. Brod, Franz Kafka, Passigli, Bagno a Ripoli 2008.
7. F. Kafka, Quaderni in ottavo, Feltrinelli, Milano 2018.
8. In realtà non volendo tradire i miei scritti precedenti su Kafka, in cui privilegio un’interpretazione realista, potrebbe trattarsi “semplicemente” dell’attesa di un uomo di poter accedere ad un ufficio pubblico o a un tribunale per voler risolvere una sua “questione”. Mal burocrazia. Si veda: M. Canauz, Kafka e le donne, Atheneum, Firenze, 2000 e M. Canauz, Josefine ovvero una possibile suggestione per interpretare Kafka, Progetto Babele,
9. F. Kafka, Davanti alla Legge, in F. Kafka, Tutti i romanzi e i racconti, Newton Compton, Roma 1991.
10. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995.
11. I. A. Chiusano, Introduzione a Il Castello, in F. Kafka, Tutti i romanzi e i racconti, op. cit.
12. L’idea di Kafka che gioca a scacchi con la vita è già prospettata, in qualche senso, da Adorno ne: Il tentativo di capire il Finale di partita, (di S. Beckett), in T. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino 2012.
13. In questo senso vanno anche le riflessioni di Cioran che afferma: «E’ chiaro come il sole che Dio era una soluzione e che non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente.» E. Cioran, L’inconveniente di essere mati, Adelphi, Milano 1991.
14. W. Shakespeare, Macbeth, Atto V scena V.
15. J. Carroll, Il crollo della cultura occidentale, Fazi, Roma 2009.
16. C. Sgorlon, Tra epos e metafisica, Lectio doctoralis, Università Udine, 2007.
17. Secondo Adorno, op. cit. gli eroi di Kafka non hanno ancora la piena consapevolezza che il loro agire è totalmente inutile mentre quelli di Beckett, ad esempio Clov e Hamm, hanno questa consapevolezza.
18. F. Kafka, Lettera al padre; Gli otto quaderni in ottavo: considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, Mondadori, Milano 1988.
19. F. Kafka, Diari, Mondadori, Milano, 1996.
20. F. Kafka, Il villaggio vicino, in Un medico di campagna, Mondadori, 1981.
21. F. Kafka, Diari, op. cit.
22. Anche in questo caso, stando alle parole di Max Brod, Kafka esagerava e “storpiava” la realtà così come aveva fatto parlando del suo lavoro. Scrive a tale proposito Brod commentando quanto Franz dicesse del padre: «per chi, come me, osservava le cose più freddamente e non era vincolato dalla famiglia poteva constatare accanto ad elementi giusti anche certe esagerazioni.» M. Brod, Franz Kafka, op. cit. p. 11.
23. F. Kafka, Lettera al padre, op. cit.
24. G. Bufalino, Da stigma a stemma. Il malato come eroe letterario, Testo della lezione tenuta da Gesualdo Bufalino il 27 ottobre 1990 a Messina in occasione dell’inaugurazione del Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina Interna.
25. A. Miorelli, La rappresentazione letteraria del paesaggio dell’Alto Garda: una metafora esemplare del concetto di confine‛, Between, I.1 (2011),
26. F. Kafka, Diari, op. cit.
27. M. Brod, op. cit.
28. R. F. Murphy, Il silenzio del corpo, Erickson, Trento 2017.
29. F. Kafka, Un digiunatore, in F. Kafka, Tutti i romanzi e i racconti, op. cit.
30. F. Kafka, Diario, 3 gennaio 1912.
31. F. Kafka, Un digiunatore, op.cit.
32. F. Kafka, Il Cacciatore Gracco, in F. Kafka, Tutti i romanzi e i racconti, op. cit.
33. F. Kafka, Il Cacciatore Gracco, op.cit.
34. Ibidem
35. A. Tonelli, Ai confini della Mitteleuropa. Il Sanatorio von Hartungen di Riva del Garda – Dai fratelli Mann a Kafka gli ospiti della cultura europea, Biblioteca Civica-Museo Civico, Comune di Riva del Garda 1997.