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In generale non ci riunivamo nella parte del grande giardino che affacciava verso via Virrey Loreto, che era poi quella più interessante e segreta, fin sotto all'ombú che confinava con il nudo muro di mattoni. I rami dell'ombú raggiungevano l'alto muro rosso e formavano come una copertura naturale, sotto la quale la pioggia, se non era proprio forte, non riusciva a penetrare. Lì sotto passavamo ore, Luisito ed io, ed a volte anche Quique, giocando, pensando e discutendo (sto parlando di quindici o venti anni fa), finché la mamma o Josefina, uscendo di casa, ci chiamavano per prendere il latte. Questa merenda non é che ci andasse proprio tanto, perché non c'era paragone tra bere caffelatte mangiando pane e marmellata in cucina, e mangiare noccioline o popcorn sotto l'ombú, specialmente nei giorni di pioggia. Siccome Luisito aveva sempre denaro con sé, ed ogni volta compariva con un pacchetto di popcorn o di arachidi, o con una dozzina di frittelle o di brioches. Dal canto mio, io avevo moltissime riviste. Il Billiken non era un granché, perché era pieno di schede scolastiche: si salvava per le storie a fumetti di Pelopincho e Cachirula1 , e perché pubblicava dei ritratti molto belli di Belgrano in pantaloni bianchi e giacca azzurra, che io collezionavo incollandoli in una grande cartella rivestita di carta verde ragno. Non c'era nulla che potesse superare Paperino e La Gran Historieta, che era il supplemento. Che cosa c'era di più affascinante di quelle avventure tanto ben disegnate, di Paperino e dei suoi tre nipotini Qui, Quo e Qua, di Gastone, suo cugino fortunato, di Zio Paperone che fa il bagno nel denaro, del coraggioso Topolino e dell'ingenuo Pippo, della genialità di Buci2 e del suo amico Beniamino, che fabbricarono una macchinina con solo una scatola di cerini e due rotelline? Luisito preferiva i fumetti d'avventura: molte volte portò Rayo Rojo e Puño Fuerte, e anche Misterix, la migliore di tutte le riviste di avventura, soprattutto per via di Misterix e Bull Rockett, che mi facevano molta impressione con i loro volti quadrati e le loro frasi laconiche e ardimentose. Luisito teneva per Colt Miller, che lavorava in Rayo Rojo ed era cowboy. Avevamo tagliato orizzontalmente con la sega a mano due radici dell'ombú, ottenendo in questo modo due piccole panche per leggere comodamente. La mia la lisciai accuratamente con la carta vetrata e la dipinsi a strisce celesti e bianche; Luisito dipinse la sua di bianco con una banda rossa diagonale, siccome in quel tempo io tifavo per il Racing e Luisito per il River (sto parlando di quindici o vent'anni fa). Io avevo l'abitudine di disporre con orgoglio, secondo lo schieramento teorico sul campo, la squadra completa del Racing, fatta con le figurine "Lali": Grisetti Higinio Garcia - Garcia Perez Gimenez - Rastell - Gutierrez Cupo - Ameal - Blanco - Simes - Sued E Luisito, quella del River: Carrizo Perez - Soria Yacono - Venini - Ferrari Vernazza - Prado - Walter Gomez - Labruna - Loustau Senza dubbio, la mia massima ambizione all'epoca era possedere qualche squadra completa (purché non fossero l'Atlanta o il Quilmes, che erano quel che c'era di peggio al mondo) con le figurine "Starosta". Disgraziatamente, il loro periodo era già passato. Pensate un po': erano le figurine più perfette che l'arte umana avesse mai concepito. Brillanti, nitide, con colori vivi, un cerchio nero intorno al calciatore, e il suo nome. Nient'altro: la marca ed ogni altra informazione commerciale era sul retro della figurina. Ne avevo soltanto cinque, e le conservavo come reliquie salvate da un'epoca di dissipazione durante la quale avevo perduto centinaia di quelle meraviglie: Curutchet, del Vélez; Antonio García, del Ferro; Armoa, dell'Huracán; Dutruel, del Chacarita, e Agotegaray, del Tigre. Sotto l'ombú avevamo diserbato e pareggiato il terreno, ed inoltre possedevamo, sebbene a volte ci salissero le formiche, un'invidiabile pista per le biglie. Tuttavia, non mi andava molto di giocare con le biglie, perché Luisito barava in continuazione. Per abitudine non considerava gli accordi precedenti: in buca prima che bruci, brucia prima della buca, tutte buone, tutte cattive, colpo, prima del colpo, buono il pieno, male il pieno, eccetera. E persino i più ignoranti sanno che, se non si rispettano i bordi, non si può fare niente, ma veramente niente. Inoltre, faceva delle spaventose arranzate e così non sbagliava mai il tiro (figuratevi che, quantunque sia passato tanto tempo, ancora mi viene da ridere, ricordandomi che Luisito le chiamava erroneamente rivincite, quando tutti sanno che si chiamano arranzate). Solo in via del tutto eccezionale, poteva concedermi una protesta, però se poi, a causa di una sua concessione, perdeva la partita, si metteva a gridare: -Eh no! Eh no! Non te la do vinta!-. E tirava ancora una volta. Simile a quella disposizione strategico-scacchistica delle squadre di calcio era quella che adottavamo con i soldatini di piombo. Luisito stava con San Martín, ed io con Belgrano; si facevano guerra, caso inaudito, San Martín contro Belgrano, le cui personalità dividevamo in due: San Martín e Belgrano erano infatti sia i loro rispettivi ritratti collocati in testa agli eserciti che il più elegante soldatino a cavallo di ciascuno dei due. Ci spingeva a queste battaglie fratricide il fatto che nessuno di noi poteva sopportare di condurre i movimenti tattici dell'esercito spagnolo, e d'altronde, l'unico spagnolo di cui possedevamo il ritratto era il viceré Cisneros, la cui frangetta non ci piaceva per niente. In verità, c'erano anche dei Billiken con i ritratti del viceré Vértiz, o di Ramón y Cajal, o di Cervantes (particolarmente nel Giorno della Lingua Spagnola), però capivamo perfettamente che costoro non volessero immischiarsi in affari di guerra. Quel che è certo è che i nostri giochi erano piuttosto statici e si svolgevano, in generale, sotto l'ombú, poiché ci era vietato, naturalmente, di avvicinarci alla parte del giardino che si affacciava verso via Virrey Loreto, la parte più segreta ed interessante, perché, oltre il capannone di zinco, c'erano il ligustro circolare che copriva i verzieri e, un poco più oltre, tutte le gabbiette. Il gioco dell'oca fu per qualche tempo il nostro favorito, ma quando passò il suo periodo, finì automaticamente per stancarci. Ci fu il periodo delle biglie, il periodo delle figurine, il periodo della palla e anello e quello dello yo-yo. Però secondo me niente poteva battere le figurine, che si potevano giocare al punto, al punto e volta, alla pentola e, con l'aiuto delle carte napoletane, al monte d'oro o banca, e a sette e mezzo. Peccato che io dovessi pure andare a scuola e poi a casa perdere altro tempo facendo i compiti. A volte, venendo dalla strada, potevo vedere la testa di papà e le spalle del suo spolverino grigio sporgere sopra il ligustro. Egli non mi vide mai, tanto era occupato tutto il giorno con l'installazione dei tubi e dei cavi. In un'occasione, tornando da scuola, incontrai il Biondo della Rimessa, che mi fece vedere qualcosa di meraviglioso. Nelle sue capienti tasche aveva tutte le squadre complete, fatte con le figurine "Starosta". Me le mostrò velocemente, vantandosene e con tirchieria, facendo scorrere i cartoncini rotondi tra le dita, come per sentirne l'odore, e cantilenando i nomi dei giocatori con un sussurro di sufficienza: - ... e Puysegur; Contini, Mardizza, Benavídez, Montaño e Ortigüela. - Perché non vieni a casa? - lo invitai, nella speranza che mi avrebbe permesso di disporre le sue leggendarie squadre nel cortile per contemplarle a piacimento. - No, nooo - rispose, con una smorfia delle labbra ed una stupida aria preoccupata, come se gli avessi chiesto di venir meno ai suoi doveri. - Devo andare a comprare sigarette per mio fratello: il più grande, quello che ha la moto. Indubbiamente, era colpa dell'acquario. Era proprio come dicevano la mamma e Josefina: i pettegolezzi cominciavano a diffondersi e la gente credeva a qualunque cosa. Ed infatti, Quique già non veniva più e l'unico che ancora rimaneva era Luisito. Fu appunto il Biondo della Rimessa che mi insegnò una frase in turco: jara bisudi erde, baffi sporchi di merda, a quanto mi disse. Mi consigliò di gridarla a qualche robivecchi, con la precauzione di mettermi ad una certa distanza da lui, in quanto, a quel che gli risultava, era la cosa in assoluto che faceva più arrabbiare i turchi. Ricordo chiaramente che, dopo aver preso tutte le possibili precauzioni ed aver aspettato pazientemente, nascosti su un ramo dell'ombú che fuoriusciva dal muro, che passasse un robivecchi, finalmente io e Luisito potemmo gridare la magica formula che rendeva i turchi folli di rabbia. Con il cuore in gola speravamo che almeno il robivecchi (con cappello e espadrillas) ci lanciasse in testa la lettiera di bronzo che emergeva dal mucchio di bottiglie vuote e vecchi giornali del carretto: invece questi non ci prestò la minima attenzione, e si perse pian pianino in lontananza, lungo la strada buia. Con Luisito facemmo tre ipotesi: o il Biondo della Rimessa era un bugiardo, oppure il turco era sordo, o forse il turco non era turco. Dapprima giocavamo a colpire la palla di testa nel giardino, ma non lo facemmo più dal giorno che Luisito andò a cercare la palla sotto il ligustro e papà uscì gridando come un pazzo, con le mani grondanti questo liquido immondo e vischioso: - Non devi mai attraversare la siepe. Hai capito? Mai! Hai capito? Mai, mai! Hai capito? - ed ogni volta che diceva Hai capito? dava a Luisito un scapaccione che sembrava una mazzata. Papá è sempre stato una persona collerica, ma non l'avevo mai visto così, ed in quel momento mi diede l'impressione di aver scambiato Luisito per me. Poi, sacramentando e scalciando sassi per la rabbia, entrò nel capannone. Luisito si spaventò moltissimo, pulendosi le unghie. Corse subito a casa, ed io credevo che non sarebbe mai più tornato. Invece il giorno dopo già stava di nuovo con me. Ma poi, cosa c'era dietro il ligustro sotto il capannone che dava su via Virrey Loreto: niente, qualche asse d'impalcato, le vasche di calcestruzzo armato, i rotoli delle albisioni, dieci o dodici latte di olio genico, e le buste col mangime appoggiate contro la parete esterna. Certo, il capannone era chiuso, però e chissà che dentro non ci fosse qualcosa dell'altro mondo (sto parlando di quindici o venti anni fa). La domenica portammo la radio a batteria sotto all'ombú e la sintonizzammo su Alfredo Aróstegui che trasmetteva Racing-River per Radio Splendid. Tanto io che Luisito passammo un pomeriggio molto nervoso ed agitato, soffrendo per la sorte dei nostri rispettivi giocatori favoriti: sapevamo bene che chi teneva per il vincitore aveva il diritto - che non mancava mai di esercitare - di burlarsi del perdente. Seguivamo la voce del cronista con ansietà, cercando di immaginarci visivamente le azioni che solo conoscevamo per quelle descrizioni, le cui emozioni erano invariabilmente esagerate. In questa occasione, toccò a me: il Racing vinse cinque a tre, ma prima che io potessi cominciare a vantarmi - cosa che facevamo sempre dopo l'ultimo minuto di gioco, perché no hay que cantar victoria antes de gloria3 - Luisito iniziò a difendere, prima, e poi a giustificare il River, basandosi sul fatto che all'ultimo momento il portiere Carrizo non aveva potuto giocare, e Rocha, il sostituto, aveva quindi dovuto giocare in due ruoli, quello di titolare e quello di riserva. Luisito continuò ad insistere con la tesi che questo aveva danneggiato moltissimo il River che, concluse, doveva essere considerato il vincitore morale, secondo quanto diceva lui, per il fatto di avere perso con due sole reti di differenza. Ricordo che, nonostante provassi a ridicolizzare con una risata ironica i suoi argomenti, questi avevano fatto tanta presa su quella che era la mia morale a quel tempo, che tutto quello che provavo, anziché giusta soddisfazione, era come una sorta di rimorso per quella nostra vittoria così poco corretta. Gli avvenimenti collegati a quella partita sono ancora così vivi nella mia memoria perché quella fu la notte in cui si sentirono le urla che venivano dal capannone. Seduto sul letto, le ascoltavo con grande attenzione, cercando di riconoscerle. Sentii i passi che arrivavano correndo nell'anticamera e mi infilai nel letto fingendo di dormire. Josefina entrò nella stanza e restò gemendo accanto al mio letto senza sapere cosa fare: gemeva così forte che mi obbligò a fingere che mi avesse svegliato. Le urla si sentivano ancora più forte di prima ed erano accompagnate da schianti sordi e da rumori secchi, che immaginai fossero prodotti dagli utensili che urtavano contro il metallo del capannone. -Che succede?- dissi, sgranando gli occhi per dare maggior realismo alla mia recita. In maniera quasi buffa, Josefina cominciò a tapparmi la faccia, la testa, le orecchie con i cuscini e le coperte per evitare che io ascoltassi le urla. Ma che urla!! Entravano attraverso le coperte, le lenzuola, le piume, la lana e si incrostavano nella testa fino alla nuca, dentro alla bocca fino giù in gola e nel collo, opprimendomi il petto e togliendomi il respiro come se non avessi più i polmoni, come se avessi un piccolo paio di branchie. Il giorno dopo fu un giorno come qualunque altro. Costruimmo una pista con delle curve esagerate e organizzammo gare con le macchinine di plastica. Io tenevo per Oscar Gálvez e Luisito per Fangio. Recentemente mi avevano insegnato un buon argomento per ridicolizzare Fangio a favore di Gálvez. La sigla C.G.F.S.A. che appariva sui fiammiferi "Ranchera" (che voleva dire Compañía General de Fósforos Sud Americana4 ) significava, secondo la mia interpretazione, Correndo Gálvez, Fangio sempre appresso5. Come si può vedere, il colmo dell'ingegnosità. Ma Luisito, con indubitabile mancanza di logica, introdusse una modifica scorretta: Correndo Gálvez, Fangio sempre avanti. Lo sproposito era evidente. La mia filologia presupponeva che Fangio potesse essere davanti quando Gálvez non correva, ma correndo Gálvez, Fangio sempre appresso. Al contrario, quella di Luisito voleva dire che la condizione indispensabile affinché Fangio andasse avanti, era che corresse Gálvez*. Io avevo una macchinina azzurra, teoricamente Ford, la numero uno, la guidavo, ed ero Oscar Gálvez. Luisito (Juan Manuel Fangio) correva con la Chevrolet numero due, tutti e due trasmettevamo le emozionanti gare imitando le voci di Luis Elías Sojit e di "Corner". Nello stesso tempo, ruggivamo ferocemente, come senza dubbio avrebbero fatto i motori delle nostre macchinine, se non fossero stati ripieni di stucco. Le nostre competizioni arrivavano a diverse migliaia in poche settimane e, siccome non prendemmo mai la precauzione di annotare i rispettivi trionfi, ancora oggi - dopo tanti anni ed in un'altra condizione di vita - ognuno di noi è convinto di aver collezionato il maggior numero di vittorie. Josefina mi guardava con diffidenza, per vedere gli effetti che avevano causato in me gli avvenimenti del giorno, come dicono i giornali. Io fingevo di essere triste e terribilmente contrito, così che la povera vecchia non si rendesse conto che io avevo già ascoltato in più d'un'occasione urla come quelle, anche se con timbro diverso, il che era logico, perché non poteva essere lo stesso. I grandi non capiranno mai che i bambini si rendono conto di tutte le cose, ma che, mossi a compassione dai grandi, giocano a far vedere che non sanno nulla. Luisito non parlò mai dell'episodio del capannone e avrebbe avuto ancora meno ragione di farlo ora, che avevamo imparato a muovere i pezzi della scacchiera. Lui era più concentrato di me, e gli piaceva quel gioco; al contrario io tendevo a distrarmi, e non riuscivo a starmene seduto come uno sciocco davanti a quei quadrati marroni e gialli. E siccome quel giorno papà era uscito alla mattina (l'avevo visto andarsene con Gustavo, che gli portava la scatola con le larve delle laziane), mi venne in mente che potevamo tornare a giocare a pallone. Fosse quel che fosse, se la palla se ne andava sotto il ligustro, ce la riprendevamo in un attimo. - Gol di testa vale due, gol al volo conta tre e non si calcia la palla persa. Quando Luisito ebbe accettato questo regolamento, cominciammo a giocare, ma uscì mamma e ci chiese per favore di smetterla. E nello sguardo supplichevole che incrociammo c'era l'immagine sinistra di mio padre. Altre volte avevo disobbedito a mia madre, ma questa volta le dissi immediatamente sì, poveretta, che tante volte si era messa a piangere, credendo che io non la vedessi. Nella notte, leggendo i fumetti di Fratel Coniglietto, mi ricordai che era molto tempo che papà non usava i conigli. Al principio (ma molto al principio di tutto), anch'io potevo guardare, ma senza toccarle, ovviamente, le casse di vetro e fil di ferro, con i rospi, le rane, tutte quelle lucertole di tanti colori (con il cartellino: lacertidi), e qualche serpente o vipera. Ed in quel tempo, papà aveva ancora buon umore, o almeno un umore normale, ed a volte mi parlava anche, non era come più avanti e specialmente non era come nel periodo delle urla. Ed anche in tempi più recenti, nella settimana in cui la mamma disse che la vecchia Josefina aveva dovuto tornare a Gualeguaychú, prima che finisse di dirlo io sapevo già che era una bugia. Dopo, papà e Gustavo cominciarono a portare animali più belli: criceti, conigli, cavie ed anche topi veri, che non erano così carini. Tutte le gabbiette riposavano contro il capannone. In quel tempo potevamo attraversare la ligustro, sempre senza entrare, perché già l'acquario era completamente installato. Per dire la verità, il coniglietto mi fu molto utile per parlare con Susana. Portai il coniglio, che era uno dei pochi animali che ancora papà mi lasciava toccare, in braccio fino al marciapiede della casa di Susana (perché da sopra lo steccato l'avevo vista seduta su di una seggiola nel giardino mentre giocava con figurine coperte di fiori e brillantini). Le mostrai il coniglietto attraverso la griglia e lei subito uscì per accarezzarlo. Io ero il fidanzato di Susana, anche se nessuno lo sapeva: era una ragazzina bellissima, con la faccia molto colorata ed i denti molto grandi. Peccato che fosse così prepotente ed autoritaria. -Che carino!- disse mentre gli accarezzava il dorso. -E' tuo? -Logico- affermai con orgoglio, ma subito dopo mi corressi -Bah... è del mio papà. -Ah, del tuo papà- e si mise a pensare (capii che stava pensando perché si mordeva le labbra, le costava poca fatica con quei denti così grandi che aveva). Stava mettendo in relazione il fatto con qualcosa già accaduto prima: le ragazze non sono intelligenti come i ragazzi, quando lei cominciava ad arrivare, io ero già sulla via del ritorno. -Susy!- urlò la mamma, mostrandosi da sopra lo steccato -Torna subito dentro. Di corsa, eh? -Aspetta, mamma- Susana ebbe un gesto di fastidio, voleva senza dubbio completare il suo ragionamento. La mamma non attese un minuto, l'afferrò per un braccio e se la trascinò dietro: dicendole di lavarsi le mani con l'alcool. Ma questo del coniglio successe molto tempo fa: era l'epoca in cui papà ancora mangiava e dormiva a casa. Dopo fu Gustavo l'incaricato di venire a prendere la roba da mangiare per portarla al capannone dove dormivano tutti e due insieme. Lentamente i conigli ed i topi venivano sostituiti da altri. Il primo sintomo dell'indomabile irritabilità di papà coincise con l'arrivo del titì peruviano. Lo scimpanzé, che arrivò dopo, fu indubbiamente il più simpatico di tutti gli animali che passarono per casa, non come il gorilla che portarono più tardi, quello che dovettero far entrare di notte, di nascosto, perché tutto il vicinato stava all'erta. E poco dopo Josefina se ne andò a Gualeguaychú. Da qui in poi successero così tante cose e così rapidamente che persi la nozione del prima e del dopo. Non so veramente se il fatto dei cinque vagabondi, che papà invitò a mangiare nel capannone, successe prima di quello del Biondo della Rimessa e sinceramente mi è impossibile ricordare se mamma provò a suicidarsi prima o dopo dell'ingresso di Susana, Luisito e me, che fu simultaneo. La giustizia umana non poté raggiungerci e gli ittiologi determinarono che eravamo tutti di acqua dolce. Ci tennero più di un anno di osservazione a La Plata, ed una volta comprovata la nostra normalità totale ci buttarono nella laguna di Chascomús. Ora Luisito ed io giochiamo fra i giunchi, cercando lattine vuote o scarpe e ci divertiamo intrecciando i fili dei pescatori. Josefina è ancora preoccupata e paurosa e guarda con prevenzione la grotta della costa Est, dove papà, più arrabbiato e nervoso che mai, lavora giorno e notte (a volte posso vedere, mentre è curvo sui suoi strumenti o maneggia i rotoli delle albisioni, le squame del dorso, ma lui non mi vede mai), lavora giorno e notte con il fedele Gustavo, nell'arduo lavoro che richiede l'installazione corretta di un algario. *In un momento di estrema calma spirituale ed insospettabile lucidità, ho riflettuto sul fatto che questa formula è in realtà più sottile della mia: in effetti, Fangio ce la mette tutta per vincere le corse solo quando corre anche Gálvez, per umiliarlo. © Fernando Sorrentino [De La regresión zoológica, Buenos Aires, Editores Dos, 1969.] Traduzione a cura di Carlo Santulli, Marco Roberto Capelli, Eva Malagon Esteo 1. Fumetto dell'anglo-uruguayano Fola, che durò circa trent'anni sul Billiken. 2. Personaggio Disney (Bucky Bug) apparso per la prima volta nei cortometraggi della serie Silly Symphonies negli anni '30 ed abbastanza noto fino agli anni '50. Buci fu disegnato, fra gli altri, da Al Taliaferro. 3. Non si deve mai cantar vittoria prima che tutto sia finito. 4. Compagnia Generale Fiammiferi Sud Americana. 5. Atrás, cioè dietro nell'originale.
©
Fernando Sorrentino
Recensioni ed articoli relativi a
Fernando Sorrentino
(0) Frankenstein di Fernando Sorrentino trad.di Redazione di Inchiostro - TRADUZIONE (1) Con la "de palo" di Fernando Sorrentino trad.di Marco R. Capelli - TRADUZIONE (2) Un campionato incompiuto di Fernando Sorrentino trad.di Marco R. Capelli - TRADUZIONE (3) Per colpa del dottor Moreau di Fernando Sorrentino - RECENSIONE (4) Episodio di don F.F. (di Fernando Sorrentino) di Luca Muzzioli - TRADUZIONE
Testi di
Fernando Sorrentino pubblicati
su Progetto Babele
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