Che Lorenzo Calogero sia uno dei più grandi poeti europei del XX secolo pare non ci sia più nessuno a metterlo in dubbio: sono stati necessari più di cinquant’anni, dopo la sua morte, perché gli illustri accademici italiani ponessero fine a quella che molti definirono “necessaria stagionatura” dei versi dello sfortunato poeta di Melicuccà.
A quarant’anni dalla morte, durante una “giornata di studio” celebrata a Melicuccà il 13 aprile 2002, un gruppo di docenti universitari (Antonio Piromalli, Paolo Martino, Tommaso Scappaticci e Carmine Chiodo) tentò una revisione del giudizio della critica per una corretta ricollocazione di Calogero nella letteratura del Novecento, ma fu il convegno internazionale “Lorenzo Calogero, 1910-2010. L’ombra assidua della poesia”, organizzato ad Arcavacata di Rende, dall’Università della Calabria a porre finalmente fine (almeno così ci auguriamo) al lungo ostracismo a cui è stato condannato il medico-poeta calabrese per tanto tempo. Le sue “carte”, scannerizzate e trasferite su supporto informatico, sono ora custodite nel Centro ArchiLet dell’Università calabrese, assieme a quelle di Pierro, di Flora e di altri autori, a disposizione degli
studiosi, e pare sia anche ripresa la pubblicazione delle sue opere:
subito dopo il convegno, la casa editrice Donzelli ha presentato la nuova edizione di Parole del tempo(2010) a cura di Mario Sechi, ordinario dell’Università̀ di Bari, con introduzione di Vito Teti, ordinariodell’Università della Calabria, e la casa editrice Nuove edizione Barbaro di Delianuova (RC) ha provveduto alla ristampa anastatica di Poco Suono,il primo volume di poesie stampato da Calogero, a sue spese, nel 1936, presso l’editore Centauro; a giugno del 2014, sempre per i tipi dell’editore Donzelli, è stato pubblicato l’inedito Avaro del tuo pensiero, questa volta a cura, oltre che di Mario Sechi, di una delle più tenaci estimatrici dell’opera del poeta di Melicuccà, Caterina Verbaro, docente della LUMSA di Roma; nel 2015Teresa Martino, una giovane professoressa in lettere, nel volume Lorenzo Calogero e la Critica, editoda Calabria Letteraria, Soveria Mannelli 2015, ha ripercorso tutta la vicenda umana e letteraria del poeta con l’intento di offrire uno strumento indispensabile per l’inserimento dell’opera calogeriana nei programmi scolastici che, fino ad ora, salvo rare eccezioni, l’hanno ignorata; nel 2016 le Chelsea editions di New York hanno stampato An Orchid Shining in the Hand, una silloge delle poesie di Lorenzo Calogero, in inglese, grazie alla quale, nel 2013, l’Accademia dei poeti americani aveva assegnato il prestigioso premio Raiziss/de Palchi al suo traduttore, John Taylor.
La pubblicazione dei due volumi di Opere Poetiche, editi da Roberto Lerici (1962 e 1966), suscitarono, negli anni ’60 del secolo scorso, un “caso letterario” che occupò ampiamente le terze pagine di tutti i giornali italiani, ma il cui clamore durò poco, nonostante l’unanime consenso di autorevoli letterati come Ungaretti, Montale, Vigorelli, Zampa, Caproni, Luzzi, solo per citarne alcuni.
Dopo la pubblicazione del secondo volume di Opere poetiche, la casa editrice Lerici pose fine alla sua attività editoriale e, esaurite le scorte dei due volumi accatastati nelle librerie Remainders, solo pochi ebbero modo di accostarsi ai versi di Calogero. Si attese per anni, inutilmente, la pubblicazione di altri inediti, tra cui la silloge Avaro del tuo pensiero (ora stampata da Donzelli) per la quale Amelia Rosselli, che coltivava l’intenzione di portare a termine l’edizione di un terzo volume delleOpere poetiche,aveva dimostrato grande interesse.
Era iniziato, “il nuovo Rimbaud italiano”, un cinquantennale limbo e i suoi versi sembravano destinati a cadere definitivamente nel dimenticatoio nonostante l’incondizionato giudizio positivo espresso da Leonardo Sinisgalli: Betocchi si scusò dicendo che nessuno può leggere gli oltre mille libri di poesia che escono ogni anno in Italia, Montale invocò la stagionatura del tempo, che non danneggia mai la vera poesia. Neppure l’icastica frase “Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti”,pronunciata da Ungaretti e rimasta come un memoriale nella critica calogeriana, servì ad evitareche i manoscritti del poeta di Melicuccà (più di ottocento quaderni) restassero internati nei depositi della Casa della Cultura di Palmi, prima che la Magistratura li affidasse all’Università della Calabria. Se la poesia di Calogero è rinata tante volte dalle sue ceneri lo si deve all’opera di non molti studiosi tra i a quali Antonio Piromalli (1970), Stefano Lanuzza (1987), Caterina Verbaro (1988). Fu grazie alla loro ostinata azione che Calogero guadagnò gradatamente terreno nei semplici lettori, furono richieste e assegnate tesi di laurea in varie Università e comparvero brevi cenni in volumi di Storia della Letteratura italiana contemporanea. Giacinto Spagnoletti, per esempio, nella sua Storia della letteratura italiana del Novecento,Roma 1994, pag. 170-171, definì il poeta di Melicuccà «una delle voci più alte del nostro dopoguerra». Alcune poesie già edite furono raccolte in un volume dei Meridiani Mondadori, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, e sugli scaffali delle librerie comparvero quattro piccole antologie, frutto dell’impegno individuale dei loro curatori: Perpendicolarmente a vuoto, per i tipi delle edizioni Parallelo 38 di Reggio Calabria, a cura di Giuseppe Bova, Rodolfo Chirico e Angela Stilo, nel 1982; Poesie, curato da Luigi Tassoni e pubblicato da Rubbettino di Soveria Mannelli, nel 1986; Antologia“con proposte di lettura”, a cura di Renato Meliadò e stampata dall’editore Falzea di Reggio Calabria, nel 1996; Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, curata da chi scrive queste note e pubblicata dalla casa editrice Qualecultura/Jaca Book, di Vibo Valentia nel 2003.
A dire la verità, nell’ultimo ventennio, un ruolo non indifferente nella diffusione dell’opera di Lorenzo Calogero fu svolto da un giovane regista di Cittanova, Nino Cannatà che, con la sua associazione, denominata Villanuccia (come la clinica di Catanzaro dove il poeta fu ricoverato prima del suo definitivo ritiro a Melicuccà), diede vita ad un Progetto Calogero, «con l’intenzione di approfondire e sviluppare tecniche e linguaggi di rappresentazione artistica coerenti con la poetica calogeriana», che trovò l’apice della sua espressione nell’opera multimediale Città fantastica rappresentata, tra l’altro, al teatro Belli di Roma, con la partecipazione di Carlo Emilio Lerici, figlio dell’editore di Opere Poetiche.
Le prime poesie di Calogero furono pubblicate nell’antologia Dieci poeti dell’editore Centauro(1935) ed erano state inviate dal poeta, l’anno prima, alla rivista fascista “L’Artiglio” di Lucca, per partecipare al premio “Poeti per Mussolini”. Molto probabilmente, agli ani tra il 1933 e il 1935 appartengono pure le liriche della raccolta 25 poesie, in cui sono presenti echi leopardiani e dannunziani reinterpretati però da una sensibilità poetica nuova, comprese nel volune Parole del tempo (Maia, Siena 1956). In quelle prime prove sono evidenti l’imitazione di poeti contemporanei, come Ungaretti, e l’eco dei grandi classici, ma contengono anche la testimonianza della fiducia incondizionata di Calogero nella poesia e nelle sue personali possibilità di successo. Forse, alla luce dei manoscritti ora a disposizione degli studiosi, merita una più approfondita indagine anche il suo rapporto con la religione.La sua assidua lettura della rivista letteraria “Il Frontespizio” può essere considerata indicativa della sua formazione cattolica e, dalla lettura delle poesie giovanili (25 poesie,Poco suono eParole nel tempo) si evince che egli credette fermamente in Dio: «La legge di Dio/ è penetrata nella mia profonda/ mia intima carne / come acciaio rovente», afferma nella poesia La legge di Dio(Dieci Poeti, p. 111), convinto che «il vero poeta è un asceta che ha fede in Dio e che è emblema della vita morale» (A. Piromalli, I primordi della poesia di Lorenzo Calogero, in Lorenzo Calogero poeta- Atti Melicuccà 2002, Qualecultura/Jaca Book, Vibo Valentia 2004, p. 21).
Certo è che la sua fede, negli anni, lasciò il posto alla tristezza sempre più cupa, i momenti di sconforto divennero sempre più frequenti e la sua diventò la voce di un uomo deluso perché incapace di ottenere un briciolo di quella soddisfazione che pure continuamente aveva cercato: «Datemi quel tanto che mi spetta/ e me ne vada:/ ho le labbra arse secche:/ schiuma di cavalli./ Sono vano per troppo aspettare./ Sento la mia pupilla affogare/ In un labile pianto» (Poco Suono, Centauro, Milano 1936, p. 10).
Qualcuno, anche a causa della mancata pubblicazione degli inediti, suppose che dopo l’intensa stagione giovanile, tra il 1935 e il 1946, Calogero avesse trascurato la poesia nel tentativo di affermarsi professionalmente come medico, ma quel periodo non fu meno fecondo della fase giovanile e di quella della maturità: la professione medica, come egli stesso scrisse a Vittorio Sereni, era sempre stata, per lui, soltanto «una distrazione per la ineliminabile noia della vita».
Nel 1942, dopo aver tentato il suicidio, forse a causa proprio del suo fallimento esistenziale e professionale, non gli restò che la poesia: i suoi versi diventarono sempre più tormentati, ma anche più originali e la tensione lirica, i fulgori poetici della raccolta Ma questo …anticipano i toni tipici della produzione matura. Il titolo della silloge Come in dittici, scritta tra il 1954 e il 1955, contiene forse una spiegazione di quel “tu” ossessionante che pervade ogni verso e che riteniamo possa essere lo stesso poeta, l’altro assente, il simbolo dell’incompiutezza che egli sentiva dentro di sé e che non poteva essere meglio identificato se non dal dittico che esprime proprio la dualità.
Nella poesia matura Dio è scomparso dai suoi versi e, anche se non c’è stata una dichiarata abiura della fede religiosa, il poeta era forse caduto in una sorta di agnosticismo o, meglio, in «un amorfo assenteismo religioso, assorbito totalmente dall’ossessione poetica» (L. Ferrari, Trova in morte la fama che lo respinse da vivo, “La Tribuna del Mezzogiorno”, 24 agosto 1962) che lo portò al totale ripiegamento su se stesso, alla delusione e, nel 1956, nella clinica per malattie nervose Villa Nuccia, al secondo tentativo di togliersi la vita recidendosi le vene dei polsi.
In quella clinica la vita non era certo edificante per lui, «un grafomane»a cui non si faceva mancare carta e penna per tenerlo buono e al quale non restava che cercare conforto nelle pietose parole di Concettina, un’infermiera che ha rappresentato l’ultima figura intorno alla quale ha cercato di costruire il suo mondo etereo e che nei versi da lei ispirati, forse perché l’unica persona ai suoi occhi disposta a dargli un minimo di comprensione, appare come una figura angelica, celestiale: «Tu levigata eri nella tua veste dolcissima/ nell’azzurra chiarità dello spazio/ o in una veste amata,/ perché di tutto in te tutto ritrovo, bianchissima!» (I Quaderni di Villa Nuccia, in Opere Poetichevol. I, p. 278).
Nel mondo non c’è stata nessuna Concettina per Calogero e neppure l’assegnazione del premio letterario “Villa san Giovanni” riuscì a dargli una pur minima soddisfazione momentanea: durante la premiazione andava ripetendo «sono qui per non offendere nessuno. È tardi per tutto questo, il premio, il resto. Cerco questo, ma è tardi. La vita ha perso già» (G. Tedeschi, Lorenzo Calogero, Reggio Calabria 1996, Parallelo 38, p. 14).
Nel luglio 1959, quando il poeta si ritirò definitivamente nella sua casa di Melicuccà, dopo il secondo ricovero a Villa Nuccia, il suo fisico era ormai logorato definitivamente, tanto da non consentirgli quasi di uscire da casa, e forse conscio di essere ormai vicino alla fine scrisse i versi di Inno alla morte: «Ma non m’interessa più della vita,/ oggi mi curo della morte./ Fra poco e alla svelta morrò …» (I Quaderni di Villa Nuccia, op. cit., p. 411).
Sembrò logico considerare quei versi come l’ultimo saluto alla vita prima del suicidio, una tesi avvalorata dai due precedenti tentativi del 1942 e del 1956, avvenuti in due momenti particolarmente drammatici della sua esistenza. I giornali non esitarono a titolare: Scoperta di un poeta suicida (“Il Paese” 10 luglio 1962)enon è stata neppure valutata l’ipotesi che il poeta, che da anni si alimentava di caffè, barbiturici e sigarette e sentiva prossima la fine, si sia lasciato morire per denutrizione. Prima di esalare l’ultimo respiro, nel momento in cui sentiva venir meno definitivamente le sue forze, quando il suo respiro si affievoliva sempre più, senza che qualcuno si accostasse a lui per prestargli aiuto, sentì la necessità di lasciare al mondo il suo ultimo messaggio vergato su un foglio di quaderno: «Vi prego di non essere sotterrato vivo». Quelle sue ultime parole sono state l’estrema invocazione di SOS, l’ultimo messaggio di un uomo a cui fu riconosciuto «un reale temperamento poetico»e la cuiopera, pur non avendo sponsor di sorta, è riuscita a superare decenni di tormentate vicende per reclamare il posto che merita nella letteratura del ‘900.