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Varney a working class vampyre
di Marco R. Capelli
Pubblicato su PB20


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Varney a working class vampyre

Capitolo I 
I rintocchi solenni del vecchio orologio di una cattedrale hanno annunciato la mezzanotte – l’aria è densa e pesante -una strana immobilità, come di morte, avvolge ogni forma di vita. Come la calma terribile che precede un inusuale scatenarsi degli elementi, quando questi cessano anche le più ordinarie fluttuazioni per raccogliere le forze e prepararsi allo sforzo che li attende. Un soffocato rombo di tuoni ora arriva da lontano. Come il colpo di cannone che dà il via alla battaglia, quel rombo sembrò risvegliare i venti ed un terrificante, furioso uragano si scatenò sull’intera città, producendo nei quattro o cinque minuti che durò, una devastazione superiore a quella che avrebbe causato mezzo secolo di fenomeni ordinari. 
Era come se un gigante avesse soffiato su una città in miniatura, spargendo all’intorno gli edifici con il soffio bruciante del suo terribile respiro; perché nel momento stesso in cui la violenza del vento cessò, tutto tornò immobile e calmo come prima. 
Coloro che dormivano si svegliarono, e pensarono che ciò che avevano udito fosse solo il ricordo confuso di un sogno. Tremarono e si rimisero a dormire…
Tutto è immobile, immobile come un cimitero. Non un suono interrompe la magia del sonno eterno. Ma cos’è questo – uno strano scalpiccio, come i passi di un milione di piedi di fate? È grandine – sì, una tempesta di grandine si è scatenata sulla città. Le foglie sono strappate dagli alberi, assieme ai rami più piccoli; le finestre che si trovano esposte direttamente alla furia delle particelle di ghiaccio sono infrante, ed il silenzio assorto che poco prima era così strano nella sua perfetta immobilità è sostituito da un rumore che, crescendo, affoga ogni grido di sorpresa o costernazione che, qui e là si leva tra le persone che hanno trovato la propria casa invasa dalla tempesta. 
A tratti, un’improvvisa raffica di vento, soffiando lateralmente, sospende milioni di pietre di ghiaccio a mezz’aria, ma soltanto per proiettarle poi con forza raddoppiata in una nuova direzione, dove è possibile causare ancora più danno. 
Oh, come infuriava la tempesta! Grandine, pioggia, vento. Era, davvero, una terribile notte. 

Era una notte cupa e tempestosa, insomma. Questo è certo. E così, comincia la saga di Varney the Vampyre. E’ il 1845 e nessuno, sicuramente non l’autore (anzi, gli autori), poteva immaginare che la storia, pubblicata sotto forma di opuscoli popolari a basso prezzo, i così detti penny dreadfull, si sarebbe trascinata, con incredibile successo, per oltre due anni e duecentoventi capitoli.

Eppure, prima di Dracula, prima di Carmilla, per i giovani lettori della working class della seconda metà del XIX secolo, il Vampiro per eccellenza è sicuramente Varney.

E Varney è davvero un vampiro popolare, quasi ingenuo per molti versi, però è anche, senza dubbio, un vampiro moderno. Certamente influenzato dal Lord Mardsen di Polidori (scritto nel 1816 e pubblicato nel 1819) se non ha – per scelta e per necessità - né la classe né il fascino sofisticato di un emulo di Byron, Varney possiede però l’appeal ruspante e popolare, granguignolesco, fatto di colpi di scena, allusioni vaghe a cose proibite e potenzialmente immorali che il suo pubblico cerca disperatamente e che fa storcere il naso, forse non senza una punta di invidia, ai più colti lettori dell’epoca vittoriana. 

Del resto, i penny dreadfull (chiamati anche, con disprezzo, penny horrible o penny blood), la narrativa popolare dell’epoca vittoriana, nascono proprio per offrire questo: emozioni forti, in formato seriale, per un pubblico semi incolto e quasi povero in cerca di sogni a basso prezzo. 
Qualcosa di non molto differente da quello che saranno i fumetti della golden e silver age o le serie televisive sfornate dalle major americane dagli anni ‘50 del XX secolo ad oggi.

A volte, anche quel singolo penny poteva essere troppo per i giovani acquirenti, che si consociavano in gruppi di lettura e si scambiavano, a rotazione, i fascicoli acquistati. Non a caso la BBC, in un famoso documentario, ha definito i penny dreadfull  come “l’equivalente vittoriano dei videogiochi”. 
Ogni numero, di otto o sedici pagine, debitamente corredato di illustrazioni sensazionalistiche e stampato su carta economica (la carta di polpa di legno, detta pulp) veniva distribuito con cadenza settimanale per essere venduto, appunto, per un penny[1]. 
I soggetti erano perlopiù sensazionalistici, spaziando dalla cronaca di crimini più o meno efferati, alle storie soprannaturali (fantasmi, diavoli, vampiri, ovviamente).

Pubblicati in Inghilterra a partire dal 1836 - quando la diffusione della scolarizzazione di base presso i ceti operai (la working class) aveva portato ad un numero di giovani alfabetizzati sufficiente a garantire le vendite di una forma di narrativa popolare dedicata principalmente a loro e la maggior circolazione di denaro permetteva anche ai meno abbienti di investire piccole somme in prodotti che non fossero di puro sostentamento - tra le pagine dei penny dreadfull fecero la loro comparsa personaggi entrati prepotentemente nella cultura pop ed arrivati fino ad oggi, come il barbiere assassino Sweeney Todd, il brigante di strada Dick Turpin,  il misterioso Spring-heeled Jack (sorta di demone saltellante dagli occhi infuocati e dalla fisionomia diabolica, prima vera leggenda urbana della storia e protagonista di centinaia di avvistamenti “reali” ed isterici che si protrassero per decenni. L’ultimo registrato è del 1904/1906, a Liverpool), Robin Hood (nella sua versione popolare, Robin Hood and Little John, 1838) e Varney. Nel 1850 si contavano ben cento editori specializzati in questo genere e, tra il 1860 ed il 1870, le vendite raggiunsero il milione di copie alla settimana, copie che venivano distribuite in tutto il paese per tramite della ferrovia (inaugurata nel 1825). 

La serializzazione dei romanzi era già pratica comune ma, mentre un romanzo di Dickens poteva costare uno scellino, i penny dreadfull erano alla portata delle working class. A volte potevano essere ristampati classici come Il castello di Otranto o Il monaco, più spesso venivano pubblicati resoconti delle gesta di qualche famoso criminale (particolarmente gettonati, i briganti di strada, come Dick Turpin, protagonista di una cronaca – per la maggior parte immaginaria – che si trascinò per 254 episodi), o imitazioni e parodie più o meno palesi e parodie di famosi romanzi dell’epoca (le opere di Dickens erano tra le più gettonate). Altalenante, ma generalmente basso, il valore letterario. Del resto, c'era molto da scrivere, poco tempo per rileggere e non c'erano fondi per farlo fare ad un editor...

Il fascino di questa forma di narrativa popolare era legato anche alle grandi illustrazioni che erano parte integrante di ciascuna uscita. Per chiarire, si racconta che la raccomandazione più frequente che gli editori facevano agli illustratori fosse: “more blood – much more blood[2]!”. A partire dal 1860 cominciarono ad essere adattate e vendute in Inghilterra anche le dime novels americane, ed i giovani britannici conobbero personaggi come Buffalo Bill e Malaeska, la moglie indiana del cacciatore bianco .  

Inciso necessario, ma torniamo a Varney: se Marsden è il primo vampiro “moderno”, Varney, per quanto sopra, ne è la logica conseguenza. La versione popolare, il padre onorario dei vampiri “a fumetti”, dei non morti da b-movie e delle serie televisive. E proprio a Varney si deve la nascita di molti di quegli stereotipi che caratterizzano i vampiri di oggi, tanto nella letteratura quanto nel cinema. E lo stesso Dracula ne è debitore, tanto quanto lo è di Polidori e Le Fanu. 

Varney, ad esempio, ha le zanne e lascia due segni caratteristici sul collo delle vittime (With a plunge he seizes her neck in his fang-like teeth), aggredisce le sue prede entrando dalla finestra, possiede una forza sovrumana ed un altrettanto sovrumano, irresistibile, potere ipnotico. 
Tuttavia, può spostarsi di giorno e non teme né croci né, tantomeno, trecce d’aglio. Può mangiare come qualsiasi essere umano, ma quel cibo non è in grado – a quanto dichiara egli stesso - di mantenerlo in vita. Quando la sua energia sta per esaurirsi, deve succhiare sangue umano. 

Altri elementi utilizzati in Varney sono stati ripresi da autori successivi in differenti contesti. Ad esempio, ad un certo punto della storia, Varney viene impiccato e muore. Non preoccupatevi eccessivamente, morire è una cosa che gli capita svariate volte nel corso della saga. Comunque, in questo specifico frangente, viene resuscitato da uno studente di medicina il Dr. Chillingworth, che lo rivitalizza applicando il galvanismo sul suo cadavere. Un lettore distratto potrebbe pensare ad un’ovvia somiglianza con Frankenstein di Mary Shelley; tuttavia, l’elettricità è il mezzo utilizzato per animare la creatura di Shelley negli adattamenti cinematografici, non nel romanzo originale del 1816. Quindi, Varney è probabilmente il primo “mostro” ad essere riportato in vita in questo modo. 

Ancora, Varney detesta la sua condizione, che è frutto di una maledizione, pur essendone schiavo e non potendo ribellarsi. Questo tema non compare nel lavoro di Stoker, ma verrà ripreso moltissime volte in seguito, ad esempio nel film La figlia di Dracula (1936) o nella soap opera americana Dark Shadows, (di cui è stato recentemente realizzato un remake con l’attore Johnny Depp nel ruolo del vampiro Barnabas Collins), o nel romanzo Intervista col vampiro di Anne Rice.

Del resto, Varney è ancora, indirettamente, molto popolare e sono tanti gli autori e sceneggiatori moderni che si sono divertiti ad inserire tracce della sua presenza nelle loro opere. Nel Marvel Universe, Varnae è il primo vampiro creato dal popolo di Atlantide prima che sprofondasse nel mare e nel serial del 1991 Dracula: The Series, proprio Varney guarisce Dracula da un avvelenamento. Non poteva mancare una citazione nella serie televisiva Penny Dreadful (2014) dove Abraham Van Helsing (sic) consegna una copia di Varney the Vampire al collega, dottor Victor Frankenstein, naturalmente assicurandogli che la storia non è affatto finzione… Nel film L’uomo che inventò il Natale (2017 diretto da Bharat Nalluri), Charles Dickens viene inquadrato mentre legge una copia di Varney, ma con un errore un po’ grossolano: la scena è infatti ambientata nel 1843, due anni prima della pubblicazione del primo episodio. In Italia, Il personaggio di Varney appare nella serie a fumetti  Dampyr, in una storia in due parti raccontata sui numeri 52 e 53 ed ispirata  al romanzo originale. Romanzo che, per chi volesse leggerlo nella sua interezza, è stato pubblicato in tre volumi dalla casa editrice Gargoyle Books nel 2010. Consigliamo, però, ai lettori di armarsi di pazienza, in quanto l’edizione originale, raccolta nel 1847, consisteva di 868 pagine in doppia colonna per un totale di 667.000 parole, 232 capitoli, con una qualità letteraria (ed una coerenza nella trama) decisamente variabili. D’altra parte, gli autori erano pagati per riga tipografica, quindi, vanno capiti...

La trama, come accennato, è piuttosto vaga. La cosa non è difficile da comprendere, data la mole di lavoro richiesta per portare a termine un’opera simile nell’arco di due anni (scrivendo con penna e calamaio – la prima macchina da scrivere Remington fu commercializzata solo nel 1865 - e, probabilmente, lavorando contemporaneamente a più progetti).  Anche dal punto di vista temporale ci sono molte discrepanze. Teoricamente la storia si dovrebbe svolgere nella prima metà del XVIII secolo; tuttavia, vi sono accenni alle guerre napoleoniche ed anche ad eventi contemporanei alla stesura (cioè agli anni 1845/47). L’ambientazione si sposta da Londra a Bath a Napoli. Elemento ricorrente è la persecuzione da parte di Varney nei confronti della famiglia Bannerworth, un tempo ricca ed ora decaduta e composta dalla vedova Mrs. Bannerworth e dai suoi tre figli Henry, George e Flora (curiosamente George non viene mai più nominato dopo il trentaseiesimo capitolo, difficile dire se sia morto o se sia solo stato… dimenticato). Con loro vive un amico di famiglia, Mr. Marchdale, in seguito arriveranno altri personaggi: il fidanzato di Flora, Charles Holland, e suo zio, l´Ammiraglio Bell, con il suo aiutante, Jack Pringle, cui spetta il ruolo di elemento comico della storia.
Neppure il motivo per cui Varney odi i Bannerworth (sete di sangue o ragioni economiche?) è chiaro, come se l’autore stesso non avesse deciso esattamente se fare di Varney un vero vampiro o solo un essere umano che si comporta come tale. Gradualmente, comunque, Varney viene umanizzato e presentato come vittima della sua maledizione, dalla quale tenta inutilmente di liberarsi fino al suicidio finale, quando si lancia nel Vesuvio dopo aver lasciato un resoconto completo della sua storia, nel quale racconta di esser stato condannato al vampirismo per aver tradito Oliver Cromwell e aver accidentalmente ucciso il proprio figlio accecato dall’ira. Difficile dire quale delle due colpe fosse, per l’autore, la più grave...

Del resto, non vi è assoluta certezza neppure su chi fosse l’autore, infatti l’editore Edward Lloyd non lasciava mai che le opere venissero firmate dai loro creatori. Tuttavia, c’è un certo accordo nel ritenere che Varney sia stato scritto a quattro mani da James Malcolm Rymer (1814–1884) e Thomas Preskett  Prest, (1810, probabilmente –1859), anche se alcuni critici ritengono che il contributo di Rhymer, a giudicare dallo stile dei dialoghi, sia stato prevalente. 

James M. Rymer era un abituale autore di penny dreadfull ed aveva collaborato con Prest anche nella stesura de La collana di perle (1847 The String of Pearls) dove fa la sua comparsa Sweeney Todd, il diabolico barbiere portato al cinema nel 2007 da Tim Burton ed interpretato (anche in questo caso, come per il già citato Barnaba Collins) da Johnny Depp. Oltre a questo, di lui sappiamo ben poco nonostante, tra il 1842 ed il 1867, abbia scritto qualcosa come centoquindici romanzi popolari per l´editore Edward Lloyd. Scozzese, ma nato a Londra, nel 1841 risulta censito come ingegnere edile, residente al 42 di Burton Street. E questo è più o meno tutto.

Anche su Prest le informazioni sono scarse. Autore prolifico, giornalista e compositore piuttosto apprezzato dai contemporanei. Il suo pseudonimo favorito era Bos, ispirato al primo pseudonimo di Charles Dickens: Boz. Sotto questo nom de plume scrisse, infatti, numerose parodie delle opere di Dickens, come The Penny Pickwick (1839, parodia de Il circolo Pickwick), The Life and Adventures of Oliver Twiss, the Workhouse Boy (1841, parodia di Oliver Twist), David Copperful o Nickelas Nicklebery (parodia di Nicholas Nickleby). Ma, probabilmente, i suoi romanzi più famosi restano quelli scritti assieme a Rymer: Varney e La collana di Perle.  

Note
[1] Fino al 1971, un penny valeva 1/240 parte di sterlina, ovvero 1/12 di scellino. Da cui si deduce che una sterlina veniva suddivisa in 20 scellini. Dio benedica gli inglesi... 
[2] Più sangue, molto più sangue!

A cura di Marco R. Capelli



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