...ovvero annotazioni critiche a margine di Tutto il ferro della torre Eiffel, romanzo di Michele Mari (Einaudi 2002)
Ci sono momenti in cui essere con il futuro
significa essere con il passato contro il presente.
I poteri evocatorio, raziocinante, scientifico, o definitorio – l’ultimo in senso etimologico e gnoseologico – sono tutti intrinseci nel verbo chiamare(inteso nell’accezione del separare le componenti del caos percepite dall’uomo, tangibili o astratte che esse siano, per poterle cogliere singolarmente) o negli effetti causati da tale verbo, ma non costituiscono certamente una scoperta recente. Tant’è che proprio con quell’azione il libro della Genesi inaugura laBibbia: ‘‘Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; echiamò la luce «giorno», e le tenebre «notte»’’.
Pertanto ogni parola è figlia dei poteri contenuti ab origine da tale predicato verbale letteralmente primigenio, cosicché chiamare equivaleumanizzare e al contempo divinizzare, in sintesi eternare la realtà, ogni realtà di ogni tempo. Sta a significare che l’uomo, nell’atto del creare le parole, si assume delle prerogative divine – o quanto meno metadivine – perchénominandolo dota il mondo di un’anima. Insomma il sole nietzschiano, che se non lo vedesse nessuno non sorgerebbe affatto.
Tuttavia al procedimento appena tratteggiato si potrebbe applicare la proprietà commutativa: la realtà evoca la parola, cioè si fa chiamare dall’uomo. Ovvero: se il sole non sorgesse, nessuno potrebbe vederlo sorgere; dunque gli animali, le piante e gli oggetti, avrebbero in sé i poteri dell’Eterno Creatore e li indirizzerebbero, come un magnete, verso l’uomo per includerlo nella propria sfera, nella propria classificazione, tout court nel proprio mondo, dal quale l’uomo sarebbe altrimenti escluso. In questa dinamica capovolta spetterebbe all’uomo l’essere un di piú, un elemento facoltativo dell’universo fortunatamente, o fatalmente, acceso dall’altro da sé che gli ha concesso l’uso della favella – il cosiddetto dono della parola.
Ebbene, in virtú di questo crediamo possa emergere un aspetto importante di Tutto il ferro della torre Eiffel: quello della dialettica uomo-oggetto, prevalentemente considerata nell’àmbito della trascendenza ebraica – poiché il romanzo ruota attorno al filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin nel periodo della sua residenza parigina (ed esattamente nel 1936). Illuminante il seguente passo del romanzo di Mari, che prende spunto dall’opera di Paul KleeAngelus novus, alla quale Benjamin si ispirò realmente nella realizzazione della IX tesi contenuta nel suo saggio Tesi di Filosofia della Storia (1940).
Secondo l’angelologia talmudica e kabbalistica, Dio gode di un’ininterrotta creazione di angeli che si dissolvono davanti a Lui nel momento stesso in cui Egli li nomina, cioè li crea. Questo potere è dato anche all’uomo, ma una volta sola e a una condizione: quando egli pronunci ad alta voce il nome segreto impostogli alla nascita dai genitori e rivelatogli all’ingresso nell’età puberale, nome che corrisponde alla sua identità piú profonda e al suo angelo protettore: allora l’angelo-nome esce da lui, e perdendo la propria forma si insedia nelle cose che quell’uomo ha amato e tenuto a lungo con sé, rendendole, ai soli suoi occhi, trasparenti. In questo modo, quando l’uomo muore, la sua parte migliore non si disperde, perché è trasfusa e protetta nelle cose. (Pag. 32)
In funzione di complice designato (o disegnato), ecco poi il deuteragonista, anch’esso personaggio realmente esistito e qui amico di Benjamin: lo storico francese Marc Bloch (1886 – 1944), sempre accompagnato da un paio di fissazioni, fra le quali la prima consistente in una forma di superstizione ben fusa alla sua acuta dipendenza dall’alcool:
(...) appoggiato al bancone di zinco dei Deux Magots, mentre gli veniva servito il suo primo Cognac, dovette estrarre ancora una volta il taccuino. Per scrivere: «Poteri speciali del ferro. Il ferro protegge dalle malíe e dalle invidie dispettose: per questo è odiato dagli elfi e in genere dai demonietti di piccola taglia. Approfondire». (Pag. 35)
L’altra ossessione dell’illustre medievista, invece, è una e doppia, nonché da lui stesso espressa nei seguenti appunti privati:
«Rodaun (Vienna), 15 luglio 1929: Hugo von Hofmannsthal muore di crepacuore. Due giorni prima suo figlio Franz si era suicidato in circostanze rimaste oscure. Si è solo potuto appurare che subito prima del tragico gesto Franz von Hofmannsthal aveva ricevuto una visita, perché sul tavolo della cucina si trovavano due bicchieri semipieni. Il fatto curioso è che sulla sedia corrispondente a uno dei bicchieri erano stati messi uno sull’altro ben quattro cuscini. Parigi, 24 novembre 1870 (...): all’età di ventiquattro anni viene trovato morto nel suo appartamento (...) lo scrittore Isidore Ducasse, conte di Lautréamont. L’ipotesi piú probabile è quella del suicidio. Vicino al cadavere si trova un foglietto con una sola parola, scritta cosí convulsamente da essere quasi illeggibile: i grafologi consultati concordano nell’interpretarla per ‘‘Homunculus’’. (...) Parigi, 3 novembre 1793: un attimo prima di essere arrestato sulla base di una denuncia anonima, lo scrittore Nicolas-Sébastien Roch detto Chamfort cerca di suicidarsi con un rasoio (...). Parigi, 10 ottobre 1936 (...), lo storico Marc Bloch (...) si è improvvisamente tolto la vita sparandosi alla tempia destra con una pistola...» – Mauser! – risuonò una voce alle sue spalle. Si girò inorridito (...). Davanti a lui, nella stanza male illuminata, c’era un nano. (Pag. 45 sgg.)
Tale accoppiata ferale-causale nano-suicidio o forse nano-omicidio, però, non infetta solo l’etilica psiche di Bloch, ma si estende anche a Max Horkheimer – ennesimo pensatore francofortista ad apparire, seppur indirettamente, nello sconfinato coro di creature fantastiche, intellettuali, artisti e personaggi pubblici soprattutto novecenteschi, che Mari porta ad esibirsi nel suo lugubre teatro romanzesco dopo averlo accuratamente rivestito di un abito di scena, sí da renderlo una ensemble fumettistica etereamente postmoderna, la cui recitazione faccia spettacolo, senza dopotutto distinguere troppo se copione e ruolo riguardassero drammi personali o familiari (vedasi a partire da pag. 154 il tremendo dialogo tra Thomas Mann e il figlio Klaus), oppure creazioni letterarie: tappi malefici, automi, mostri spazianti fra il Golem di Meyrink l’omino della Michelin Bibendum e l’Odradek kafkiano, bambole-doppioni, danzatrici, attrici, amanti e spie. Ma scrive, dicevamo, Horkheimer a Benjamin:
In seguito alle informazioni di cui sono recentemente venuto in possesso qui negli Stati Uniti mi sono domandato a lungo se fosse meglio tenertene all’oscuro (...). Le suddette informazioni mi spingono a gridarti: guardati dai nani! (Pag. 48)
E gli racconta, oltre alle vicende di certi efferati nani accoltellatori, una delirante storia in cui la versione originale della famosa fiaba popolare raccolta dai fratelli Grimm, Biancaneve e i sette nani, sarebbe stata una novella di Ludwig Tieck dal titolo Biancospina e gli otto nani, dei quali l’ottavo si sarebbe chiamato Crotalo ed avrebbe avuto ‘‘un animo perverso’’ (pag. 49). Infine Horkheimer indirizza l’amico da Bloch, la cui presenza a Parigi a Benjamin era ignota: e giustamente, trattandosi questo dell’indirizzo di residenza non del filosofo tedesco Ernst Bloch, ma dello storico francese Marc. Tuttavia i due, incontrandosi, fraternizzano immediatamente – grazie alle tante loro comuni passioni intellettuali, visto che
Si raccontarono tutto quello che sapevano dei nani: parlarono molto di Fischerle, naturalmente, e degli altri, di tutti quei suicidî ed incidenti aerei, del ferro, della guerra di Spagna e di Hitler. (Pag. 51)
Poi, ubriachi, i due nuovi amici forse si addormentano, lasciando che un terrorizzante fantasma di Marlene Dietrich si materializzi, brutale epifania di megera teutonico-nazista, alla vista di entrambi (piú avanti sarà la volta di Leni Riefensthal, non meno nazi e, nel suo italiano germanicamente storpiato, non meno illeggibile). In seguito, nella narrazione, gli eventi si susseguono, costantemente seguendo modalità onirico-rievocative e raramente esulando dalla cornice stilistica del fumettone postmoderno mascherato da scrittura alfabetica.
Pagina dopo pagina, l’andazzo non muta sensibilmente: una sequela ininterrotta, drogata e drogante, di incontri impossibili, deformazioni giullaresche di persone e character, citazioni dotte, improbabili collegamenti causa-effetto ad intrecciare ispirazioni artistiche, destini reali, opere e/o personaggi letterari, suggestioni ebbre, assurdi spazio-temporali et similia. Vertiginosamente.
Essendo la trama del romanzo spinta soprattutto dalla ricerca veritativa, che il duo Benjamin-Bloch conduce sommando aneddoti e fonti varie sulla scomparsa violenta di diversi intellettuali d’epoca moderna al fine di svelarne i perché (o l’unico perché), non crediamo sia esagerato affermare cheTutto il ferro della torre Eiffel è un’opera che, non stimolando affatto un’analoga inchiesta da parte del lettore (o quanto meno un’augurabile lettura dei libri menzionati), lo porta ad affogare – in una condizione di indifesa immobilità stante fra l’ammirato, lo sbalordito e l’annichilito – in un gorgo di finzioni bambinesche, allusioni piú sguaiate che dotte, situazioni iperboliche e uniformemente grottesche, atmosfere che sembrano trasportate di peso dal Realismo Magico sudamericano, dialoghi sovente masturbatorî e reiterati sconfinamenti nel Teatro della Crudeltà o in quello surrealista. Il tutto in sovreccitata disamorevole e casuale combutta e riportato senza mai rinunciare ad una frenesia logorroico-esibizionistica che oltrepassa qualsiasi umano buongusto o eleganza almeno quanto l’opera di un pittore che, mettiamo ispirandosi al Guernica di Picasso (oltretutto citato nel romanzo), per replicarne la profondità d’animo realizzasse un’orgia di figure ammucchiate senza alcun senso, se non quello di offrire ai nostri occhi il turgore di volumi intinti nella magnetica magia da baraccone di tinte sfarzose e abbaglianti. Alle spalle di tale sontuosità, infatti, ciò che delude è la totale assenza di colore, l’indistinto nero dello sfondo, davvero troppo invadente da poter giustificare questo parossismo di (falsi) movimenti, artificiose coincidenze di eventi e sovrabbondanti siparietti.
Il dettato di Tutto il ferro della torre Eiffel – prono alle personali esigenze dell’autore – si avvolge su se stesso perdendo, via via, forza affabulatoria, dunque rivelando una mancata o insufficiente revisione critica del testo ante-pubblicazione – i.e. il famoso labor limae, tanto migliore quando condotto sulle bozze con l’ausilio di persone di fiducia esperte in tecniche narrative. Perché, per condurre con polso fermo la bellezza di 277 pagine, sarebbe stato indispensabile rafforzare e scandire con altro ritmo i nodi portanti dell’intreccio in modo da avvicinarli fra loro e unirli con nessi causa-effetto qui invece del tutto inavvertibili al lettore, il quale, sic stantibus rebus, non può cogliere affatto le differenze tra fabula ed intreccio. O magari, alternativamente, sarebbe stato salvifico dell’arco drammaturgico, nonché dell’economia generale dell’opera, il sintetizzare o ridurre di numero le troppe divagazioni e digressioni tra il colto e l’erudito, cosí da evitare che disturbassero lo sviluppo degli accadimenti facenti parte della – già di per sé scarnissima – fabula.
In poche parole: una narrazione lunga, per riuscire coinvolgente in senso sano e non lisergico, non deve mai essere esente da un accurato dosaggio delle scene e degli atti di cui è composta. Come nel teatro classico. E ben venga anche il barocco, il rococò, l’oleografia, purché vengano tagliate le parti ridondanti o superflue, insomma quelle insignificanti.
Tali caratteristiche negative – pur pesando oltremodo sul versante strettamente narrativistico del testo, dunque inficiandone le sottese potenzialità – non ne oscurano tuttavia gli aspetti di indiscutibile interesse concernenti le implicazioni umane, filosofiche e diremmo metapoetiche.
Molto ben riuscita è la parte finale, scorrente sul doppio binario cronologico, prima parallelo poi coincidente, su cui marciano Benjamin e Bloch; ottima l’ambientazione nei passage parigini, resi sede di (latini) monstri ed affascinanti accessi a una Parigi macrocosmica, od ipogea, labirintica, mercuriale ed esoterica; calzante ed autenticamente seducente la compenetrazione fra la passione collezionistica di Benjamin (dato reale) e la sua pessimistica interpretazione storica dell’angelo, estratta dalla tradizione talmudica; bella infine la scelta di personalità (sempre veramente esistite) dell’industria automobilistica francese, sebbene inserite in un macchinario concettuale e favolistico complessivamente alquanto dispersivo, nonostante resti pervaso di quella persistente aura che, inevitabilmente, le opere d’autorelegano a sé e disperdono nell’aria – Mari ci scherza su ma in effetti ne è un po’ illuminato anche lui. E lievemente deprimente l’esser costretti a chiudere la nostra analisi con la constatazione che il panorama italiano d’inizio XXI secolo non sembra offrire pressoché niente di qualitativamente eguagliabile o migliore di questo romanzo che, ragionevolmente disgustato del presente, altro non sa fare che santificare il passato dell’arte europea.
(Lubiana, 14 Settembre 2014)