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Aspides
di Riccardo Merendi
Pubblicato su PB19


Anno 2005- Halley Editrice
Prezzo € 9- 293pp.
Collana Altrimondi
ISBN 88875890681

Una recensione di Salvo Ferlazzo
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 Aspides

Non c’è momento nella vita, nella produzione letteraria di uno scrittore, in cui il richiamo della storia antica, non faccia sentire la sua voce lontana. E a questa voce- meglio a questi echi- Riccardo Merendi si è fatto carico di assegnare un corpo, in una lunga marcia che attraversa un periodo, un’epoca forieri di eventi straordinari.

Nelle pagine che seguono i primi capitoli della terza parte, l’autore fa compiere al lettore un salto di secoli, per farlo piombare nel bel mezzo di una disputa, alla quale fa seguito il dialogo stretto, confidenziale, a volte inquieto, provocatorio tra il vescovo e un confratello.

Sono pagine di limpida significatività.

L’ossequiosa irriverenza del giovane Ernac si sposa perfettamente con la personalità ieratica del vescovo, che sovrintende e coordina i lavori di quell’assise di sant’uomini.

Il tema è scottante, come si direbbe oggi.

Ecco che il racconto di Merendi si ispessisce, si autoalimenta per giungere la da dove era partito: il legnetto legato a una funicella, la reliquia che giace nei sotterranei vaticani.

Singolare e inquietante la domanda che molti si sono posti. Il libro non spiega; lascia dubbi, ancora irrisolti.

Durante la disputa viene nominato il patriarca di Costantinopoli, Nestorio, il quale negò l’unione ipostatica di Cristo. Sebbene durante il Concilio di Nicea fosse stata affermata la consustanzialità, cioè la stessa natura di Cristo e di Dio, Nestorio fu sostenitore dell’identità di natura (ousia) e persona (ipostatsia) e della immutabilità di Dio. Se Dio è immutabile, la sostanza umana e quella divina non possono fondersi; se ad ogni sostanza deve corrispondere una persona, allora in Cristo vi sono due persone, una divina e una umana, con attività comuni.

Pertanto, per Nestorio, Maria, persona di sola sostanza umana, non può essere madre del verbo. In alternativa propose il termine di christotokos oppure theotocos, che riceve Dio. Infatti theotocos, madre di Dio, poteva voler dire che la natura umana di Cristo fosse stata annullata da quella divina, come sarà in seguito sostenuto da Eutiche e dai monofisisti.

La diatriba sparì nel Concilio di Efeso, nel giugno del 431 d.c., nel quale i sostenitori del vescovo di Alessandria d’Egitto, Cirillo, confermarono la condanna di Nestorio e la scomunica dei suoi sostenitori.

E’ un periodo denso di avvenimenti che avrebbero lasciato un segno profondo nella storia dell’umanità.

Il susseguirsi ravvicinato di diversi concili ecumenici della chiesa cristiana (solo per citarne alcuni: il Concilio di Efeso nel 431 d.c., subito dopo quello di Costantinopoli; 20 anni più tardi il Concilio di Calcedonia, nel 451 d.c., preceduto nel 449 dal secondo Concilio di Efeso presieduto dal patriarca di Costantinopoli, Flaviano) danno la cifra di quanto stava maturando nel panorama storico-politico di quel tempo, che coinvolgeva la religione cristiana d’allora e i suoi rappresentanti.

Il libro di Merendi, si cala in questa realtà composita, intrisa di sotterfugi, piani segreti, intrighi di palazzo, dove l’aria è fetida, e ben poche volte vi penetra la luce del sole a rischiarare le parole e la mente di coloro che in quelle stanze vi agiscono.

Anzi, questi personaggi sfuggono ad ogni tentativo di chiarezza, rifugiandosi invece dietro bizantinismi, mezze parole, frasi dubbie, o fin troppo evidenti.

Le due parti precedenti del libro, quando non mostrano il marasma che regna a palazzo, ci fanno ripercorrere con i due protagonisti, i fratelli Aspar e Warfen, un tratto di territorio che va dalla Pannonia, l’attuale Austria, attraverso il Norico, fino in Italia, a Ravenna.

Quel che resta di quell’enorme regione che era l’impero romano d’oriente- quello d’occidente era già collassato, è ciò che nei primi decenni del V secolo d.c. gli imperatori d’occidente videro venir meno: la loro influenza in tutto il nord Europa (Gallia, Britannia, Germania), ed in Spagna, mentre gli Unni, negli stessi anni, si stabilivano in quella terra di Pannonia, da dove prende l’avvio questa storia.

Due fratelli così diversi, quasi antitetici, ma con un destino comune che matura in contesti e momenti diversi.

Aspar, mosaicista assiste al crollo di quel muro che nasconde quel legnetto pieno di mistero e potere. Nello stesso momento diviene testimone inconsapevole della caduta di quell’enorme costruzione politico-economica , culturale che fu l’impero romano d’oriente.

Aspar è illuminato da ciò che è bello esteticamente, dalle figure ottenute da quelle minuscole tessere colorate; Warfen, rude pastore-guerriero, è intriso di quella selvaggia essenza che la natura dei luoghi gli offre come baluardo alla presenza ingombrante delle legioni romane. Entrambi si ritrovano a dover assistere, loro malgrado, al disfacimento e al crollo di tutte le velleità egemoniche di Roma.

Percorsi diversi, diversi ambienti, diverso persino il rapporto con il potere.

Merendi parte da lontano. Quasi avventurosa, para-mitologica, la vicenda dei due fratelli sembra svilupparsi su due sfondi teatrali affiancati, ma invisibili l’uo all’altro.

Eppure lo spettatore-lettore riesce a coglierne i passaggi, a distinguere il colore delle voci, la bellezza del gesto, la ruvidezza dell’impeto. Questo parallelismo esistenziale, così sapientemente dosato dall’autor, non infastidisce, non crea disorientamento percettivo. L’avventura, nella sua limpida caratura, lascia presagire eventi futuri inimmaginabili.

Merendi crea ambienti sempre mobili dove i personaggi, dai due protagonisti fino a quelli di sfondo, ma non per questo meno importanti, vivono un insieme di gesti, di elaborazioni concettuali, dei quali subiscono a volte il fascino, a volte il fastidio.

Eppure, riescono a sopravvivere con straordinaria caparbietà. Dubbi? Sempre. Certezze? Mai.

L’alchimia degli eventi ristabilisce, solo per qualche momento, il significato primordiale di un mondo presente non ancora perduto, ma purtroppo lontano dall’abbraccio che uno sguardo disincantato può riservare ai luoghi dove si è nati.

Con una efficace capacità descrittiva, molte volte surreale, a tratti pesante, l’autore si concede al piacere di dialoghi che disgelano, fuor di metafora, una perfetta plasticità con i fatti, le vicende personali del nostro tempo.

I due fratelli, la cui identità è sempre riconducibile al posto in cui sono nati, avvertono la presenza di un isolamento nel quale si sento immersi, e che in qualche modo tentano di sconfessare, senza riuscirvi.

E’ proprio l’assenza di questo risultato che li ricaccia sempre indietro, qualche volta nello sconforto, a volte nell’esuberanza di prestazioni sessuali ineguagliabili quando non ammantate da una evidente perversione.

Un enorme puzzle, nel quale i personaggi vivono in un sincretismo quando mediato, quando istintivo, con l’intento, sempre e comunque, di restituire dignità alla propria esistenza.

“Barbari irrumpunt!”, è il grido di chi in quel momento percepisce l’impero alla sua fine.

Il romanzo storico-avventuroso di Merendi volge al termine. I due protagonisti rintracciano nella ragione delle loro singole esistenze, i punti orientativi del loro giudizio sugli avvenimenti che stanno crescendo, come un lievito storico.

Merendi completa una struttura narrativa declinante verso gli aspetti epici, con un ritorno al tema iniziale: alfa e omega, inizio e fine.


Una recensione di Salvo Ferlazzo



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