Effettivamente non si è ancora riflettuto abbastanza sulla potenza della metafora. Non mi riferisco alla “metafora” in quanto tale, ma all’effetto che la “potenza” metaforica esercita nella costruzione dei rapporti umani. Saggi o studi che ne analizzino il significato e l’uso abbondano, ma si tratta perlopiù di teorie critiche, letterarie o semiotiche, che riportano la metafora alla creazione poetica. Insomma, sono studi che legano la metafora al logos. Li salto non perché non siano interessanti, anzi, ma semplicemente perché non hanno posto al centro della loro analisi l’effetto che la sua “potenza” esplica. A me, invece, interessa proprio questo aspetto, vale a dire la potenza della metafora come costruttore di rapporti sociali.
Intesa in questo senso, prime e istruttive osservazioni si possono ancora leggere nella Sacra Famiglia (1844) di Marx ed Engels, in particolare nel § 2 Il mistero della costruzione speculativa capitolo V. Tuttavia, la critica dei due fondatori del materialismo storico è circoscritta soprattutto al linguaggio filosofico. Per un’interpretazione radicale sugli effetti della potenza della metafora occorre attendere il Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale (1873). Che cos’è per Nietzsche una metafora? «Uno stimolo nervoso trasposto anzitutto in un’immagine: prima metafora! L’immagine poi rimodellata in un suono: seconda metafora». Si tratta, dunque, di “una trasposizione allusiva”.
La svolta epistemologica che fa compiere alla riflessione sulla metafora un salto eccezionale è avvenuta. Nietzsche non si limita ad analizzare il solo linguaggio concettuale. La sua riflessione investe la “natura” stessa del genere umano, e affonda lo sguardo nelle nostre stesse radici antropologiche. Essa riguarda ormai, in termini gehleniani, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, vale a dire comprende l’essenza stessa della natura umana, ossia il fondamento stesso su cui si regge la società. La potenza della metafora è un effetto di inganno, dovuto alla cieca credenza che le finzioni “sociali” siano fondate su una realtà solida. Gli effetti di tale fede durano finché l’uomo dimentica di essere un essere «sospeso nei suoi sogni sul dorso di una tigre». Insomma, il genere umano deve dimenticare che tutti i rapporti umani siano il prodotto di un effetto dovuto alla potenza che la metafora sa esercitare sulle menti. Una tale “verità”, se arrivasse alla coscienza, entrerebbe in contrasto con le profonde convinzioni coltivate dal genere umano, il quale crede che la tavola delle leggi (cioè, dei valori) su cui si regge la società umana abbia in sé un fondamento indiscusso.
Ed è proprio questo concetto di “oblio” o rimozione di Nietzsche ad aprire una delle piste all’inconscio freudiano. Sennonché, Freud ha paradossalmente “rimossa” la potenza della metafora, sostituendola con quella del “linguaggio simbolico”, riportandola di nuovo sotto l’egemonia del logos. Al centro della psicoanalisi non troviamo più la “metafora”, ma il “simbolo”, che finirà con l’occupare un posto sempre più centrale. Il simbolo rimanda a un archetipo, a una sorte di linguaggio collettivo e universale, del quale l’umanità ha smarrito il senso profondo, e la psicoanalisi d’impronta jungiana proverà a trovare la chiave d’accesso per svelare il senso di questo archetipo simbolico.
Il “simbolico” scava dunque la sua strada e arriva a Jacques Lacan, il quale lo designa come l’ordine della cultura, della legge e del linguaggio, e ne decreta la supremazia rispetto al reale e all’immaginario. A questo punto, la metafora, legata al mondo dell’immaginario, da cui è sorta, al mondo del raddoppiamento della realtà, al suo lato “finzionale”, come aveva intuito Nietzsche, viene scalzata dal simbolo, il quale rimanda a un mondo inaccessibile alla coscienza.
La deviazione è ormai un fatto compiuto. Di nuovo, la potenza della metafora viene respinta nel recinto della soggettività, dell’individualità, perdendo il suo senso relazionale e tralasciando proprio quella complessa rete di relazioni nella quale si dispiega. Serve a spiegare il meccanismo della formazione dell’inconscio, assimilato a quello del linguaggio, attraverso le sue due figure principali: la metafora o il processo di condensazione, e la metonimia o il processo di spostamento. In altri termini, assistiamo a un’altra “mistificazione” filosofica che colloca la vera realtà oltre il mondo dell’apparenza. Il “mondo iper-uranio” di Platone, la trascendenza religiosa, la “cosa in sé” di Kant o lo “spirito del mondo” di Hegel prendono altri nomi, assumono altre forme: è l’istanza dell’inconscio, il mondo archetipico di Jung, lo “spirito” di Lévi-Strauss o la “struttura” di Lacan, l’episteme di Foucault, ecc.
Dopo quel primo grande abbrivio, la riflessione sulla potenza della metafora si impenna nelle maglie della psicoanalisi, che, viene soppiantata dal linguaggio simbolico. Dal mio punto di vista, ciò rappresenta un arretramento, e non un avanzamento, perché ha finito con il rimuovere la forza della metafora così come si era configurata negli scritti giovanili nicciani. Il simbolo, raccogliendo in unità ciò che è “disperso” o del tutto disomogeneo, e a concentrare in sé una massa, permettendole di sentirsi in comunione emotivamente (penso al simbolo della bandiera o ai simboli religiosi), è pur sempre espressione di un sentimento collettivo che ha soprattutto il compito di costruire “finzioni identitarie” e/o di marcare ambiti di appartenenza. Il simbolo è una forma di riconoscimento e di differenziazione, ha la funzione di “assimilare”, di rendere simile ciò che simile non è. In quanto tale, rappresenta un’elaborazione secondaria, come i “concetti”, poiché richiede una dose maggiore di astrazione; la metafora, invece, rimane un’elaborazione primaria.
Per fare compiere alla riflessione sulla potenza della metafora una “virata” sorprendente, bisogna aspettare l’uscita di saggi che travalicano i consueti ambiti disciplinari: Massa e potere (1960) di Elias Canetti per un verso; e La violenza e il sacro (1972) di René Girard, per un altro. Questi saggi non parlano affatto di metafora, ma sono testi che mettono al centro della loro riflessione il processo di mimesi osservato da punti di vista diversi, e la mimesi (o l’effetto contagio) è un processo vitale ai fini dell’efficacia della potenza metaforica. Entrambi gli autori non solo hanno visto all’opera l’efficacia di questo processo ma ne hanno intuito pienamente gli effetti che la potenza metaforica ha sulla mente umana. E, forse, non è neanche un caso che entrambi provengono dalla letteratura. Girard aveva già analizzato questo processo in un testo precedente, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita (1961), e lo aveva fatto attraverso il prisma di talune opere e personaggi della letteratura moderna: Cervantes, Flaubert, Stendhal, Proust, Dostoevskij. Tuttavia, l’analisi della mimesi ancora non veniva posta al centro della sua riflessione, era ancora troppo intrisa di letterarietà; non aveva, intendo dire, una sua autonomia ed era, pertanto, priva della riflessione sulla potenza della metafora, come invece avverrà in testi successivi, penso a La violenza e il sacro, al Capro espiatorio, fino ad arrivare a Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Neanche nel citato testo canettiano troviamo un’analisi esplicita sulla potenza della metafora, non mi riferisco tanto al capitolo Massa e storia, dedicato soprattutto alla forza del simbolo, ma soprattutto a quello più complesso e difficile dedicato a La metamorfosi, che possiamo definire come delle vere e proprie svolte radicali sul tema.
Un altro studioso “anomalo”, Gregory Bateson, si è interrogato a fondo sulla potenza della metafora. Mary Catherine, figlia di Bateson, scrive, nel capitolo conclusivo di Dove gli angeli esitano, che «il tema della metafora ricorre in tutta l’opera di Gregory, e in effetti l’idea che lo assorbì nelle ultime settimane di vita era quella del sillogismo della metafora» (Adelphi, Milano 1989, p. 388). La testimonianza della figlia del grande “pensatore” non dovrebbe essere sottovalutata, e dovrebbe indurre a chiederci: perché nelle ultime settimane di vita Bateson era così preso dall’idea del sillogismo della metafora? Cosa avrà visto la sua mente di così importante da assillarlo sulla soglia della morte? Come scrive Pier Aldo Rovatti in Abitare la distanza, «conviene “esitare” piuttosto che affrettarsi a dedurre logicamente le conclusioni dalle premesse».
Come insegnava l’ultimo Bateson, quando vogliamo comunicare un’idea o un’immagine non è alla grammatica e alla sintassi della (cosiddetta) logica che dobbiamo badare, bensì alla efficacia stessa del “senso” della “storia” che vogliamo comunicare. Insomma, nella creazione metaforica c’è qualcosa che sfugge al comune senso logico. Rispondere a una domanda come questa: «A chi somiglia un albero?», dal punto di vista logico non ha alcun senso. Eppure, quante volte diciamo a qualcuno: «Sei una quercia!».
Quando vogliamo provare a verificare l’esattezza di un’espressione metaforica, ci esponiamo al ridicolo. Se sentiamo dire da qualcuno: “Mi trovo in un vicolo cieco”, al posto di: “Nella mia situazione in cui mi trovo non vedo vie d’uscita o soluzioni”, se volessimo analizzare l’espressione “vicolo cieco” dal punto di vista “logico” o da ciò che noi crediamo essere la “realtà reale”, è chiaro che precipitiamo nel ridicolo. È inutile aggrapparsi all’idea che non possono esistere “vicoli vedenti” o “vicoli non vedenti”: i vicoli non hanno occhi, e, di conseguenza, non possono né vedere né non vedere. Ma se ci inoltriamo in questo sentiero, non è che l’espressione: “Nella situazione in cui mi trovo non vedo vie d’uscita o soluzioni” sia meno carica di linguaggio metaforico della prima! È difficile immaginare “situazioni” che hanno “vie d’uscita”, cioè entriamo comunque nell’ordine del linguaggio metaforico.
Nella comunicazione ciò che si effettua è processo analogico in virtù di un rapporto di inferenza tra due immagini, il cui effetto attiva una terza immagine come risultato del loro incontro. Questa terza figura consente, a sua volta, delle ulteriori inferenze. Ma per arrivare all’elaborazione di questa terza immagine si è dovuto mettere in moto tutta una catena di sillogismi metaforici, di cui ogni conclusione rappresenta la premessa generale per il sillogismo successivo, e così via. Passando da un sillogismo all’altro perdiamo di vista gli “anelli di congiunzione”, e alla fine del processo metaforico arriviamo ad un punto in cui perdiamo completamente le tracce dei loro passaggi precedenti. Costruire metafore, per Bateson, vuol dire mettere in relazione cose diverse, servendosi di uno schema o modello, che, a sua volta, è già il prodotto di una metafora elaborata, cosicché, metafora dopo metafora si apre così un gioco infinito di variazioni che alla fine, senza perdere coerenza, raggiunge «non l’identità, ma una somiglianza significativa, tale da consentire ulteriori inferenze».
Ora nessuna somiglianza potrebbe essere colta se contemporaneamente non si cogliessero le differenze: tra l’immagine della vita e quella della strada la differenza deve essere netta. Nessuno è tanto sciocco da non saper distinguere una “vita” da una “strada”: allora qual è il “ponte” o l’arco che ci permette di attraversare da un’immagine all’altra senza farci perdere di vista la loro differenza?
La metafora, come scrive Bateson, è un mettere tra parentesi due sponde in grado di comunicare grazie alla loro inferenza, altrimenti rimarrebbero l’una di fronte all’altra, ognuna chiusa nella sua rispettiva distanza. Ed è proprio a questa “messa tra parentesi” che pensava Bateson. Un sillogismo è costituito da tre proposizioni categoriche, di cui una (la conclusione) segue logicamente dalle altre due (le premesse); l’esistenza del nesso inferenziale deriva dal fatto che le tre proposizioni hanno, a due a due, un termine in comune. La potenza della metafora ha il potere di mettere in relazione realtà distanti.
Nel sillogismo metaforico, l’ordine delle proposizioni è invertito, in quanto la premessa minore (che costituisce la metafora) deriva dal risultato! Insomma, il linguaggio metaforico opera con una ipotetica inferenza, che in apparenza sembra corretta, ma in realtà non lo è, in quanto deduce la metafora dalla suo risultato. Bateson intuisce che la metafora è basato su un ragionamento abduttivo fortemente suggestivo. La deduzione si presenta come l’applicazione di regole generali a casi particolari; l’induzione come inferenza di una regola da un caso e da un risultato; l’abduzione, invece, come inferenza di un caso da una regola e da un risultato (cfr. Charles Sanders Peirce).
La trasposizione o il passaggio viene dunque effettuata in virtù di un effetto di suggestione: la vista di un fuscello che si piega a ogni colpo di venticello suggerisce un’immagine di fragilità. In virtù di questa immagine primaria si elabora uno schema generale (regola); dopodiché si fa una constatazione su un’altra immagine; mettendo in relazione la prima e la seconda immagine, se ne inferisce ipoteticamente una terza che le mette in relazione.
(Prima immagine): il fuscello è una cosa fragile…
Il procedimento abduttivo assume questa forma:
Reg. - (Schema) Le cose fragili sono come se fossero fuscelli….
Ris. - (Seconda immagine) Questa cosa (l’uomo) è fragile…
Caso - (Terza immagine) Questa cosa (l’uomo) è come se fosse il fuscello…
(ricordiamo che la regola su cui si fonda questo sillogismo abduttivo è il prodotto di un caso precedente (“Il fuscello è una cosa fragile”)…
La deduzione avrebbe avuto questa forma:
Reg. - (Schema) Le cose fragili sono come se fossero fuscelli….
Caso - (Terza immagine) Questa cosa (l’uomo) è come se fosse il fuscello…
Ris. - (Seconda immagine) Questa cosa (l’uomo) è fragile…
La deduzione avrebbe avuto quest’altra forma:
Caso - (Terza immagine) Questa cosa (l’uomo) è come se fosse il fuscello…
Ris. - (Seconda immagine) Questa cosa (l’uomo) è fragile…
Reg. - (Schema) Le cose fragili sono come se fossero fuscelli….
Ora, ciò che occorre comprendere in questa riflessione sulla “potenza della metafora” è capire in “forza” di che avviene questo meccanismo. Da un lato potrei semplicemente rispondere: avviene in forza della facoltà creativa del genere umano; ma questa spiegazione non è affatto esaustiva, anzi, serve soltanto a spostare il problema, perché si dovrebbe cominciare a spiegare a cosa corrisponda questa “facoltà creativa”. Dall’altro è vero, alla base di ogni processo metaforico v’è una buona dose di creatività – e su questo versante i poeti hanno tanto da insegnarci – tuttavia, il rimando a questo processo, valido nell’ambito estetico, appare piuttosto limitativo, in quanto questo meccanismo non è affatto circoscritto soltanto all’ambito linguistico, ma sottende anche quello delle relazioni umane.
Siamo partiti dall’idea che la metafora sia un’inferenza ipotetica effettuata tra due immagini al fine di metterle in comunicazione. Le due immagini, come due sponde, sono “diverse” ed “opposte”. La metafora/ponte unisce dei tratti comuni alle due immagini e le mette in comunicazione o in relazione.
Porre tra parentesi l’immagine inferita (la metafora) vuol dire soprattutto essere consapevole di aver operato una sospensione logica della razionalità. In altri termini, la messa in parentesi segnala il fatto di essere di fronte a una finzione, a un come se, ad un gioco della mente: posto che l’uomo è un essere fragile consideriamolo come se fosse un fuscello…
Ma cosa accade nel momento in cui non vediamo più le parentesi e scambiamo la finzione per realtà? E cosa induce la mente ad eliminare le parentesi che segnalavano il processo finzionale? La sospensione della messa in parentesi dipende dall’effetto che la potenza della metafora riesce a esercitare sulle menti, ovverossia dipende da quanta forza di suggestione la metafora riesce ad esercitare sulle menti al punto da indurle a scambiare la finzione per un effetto reale.
La potenza della metafora svela il meccanismo profondo in questo “scambio” tra finzione e realtà. A questo punto la distinzione tra i due piani non si nota più. In pratica, ciò che noi designiamo come realtà è il prodotto di un processo finzionale. Tuttavia, in questo passaggio ciò che viene rimosso è la consapevolezza di questo processo. Quando la finzione viene scambiata per realtà, gli effetti che tale scambio provoca saranno percepiti come reali. Senza la forza di suggestione, che presiede a questo scambio, la potenza della metafora non potrebbe esplicarsi in tutti i suoi effetti ed avere conseguenze reali sulle esistenza.
A questo punto che la potenza della metafora c’entra poco e niente con la “innocua” creazione poetica, o, in sovrappiù, con il nostro linguaggio quotidiano, il nostro particolare modo di esprimerci. Si è indotti a crederlo perché non si sa o non si riesce a vedere la reale potenza della metafora quando opera nella costruzione dei meccanismi sociali, perché non si sa o non si riesce a vedere che ciò che noi chiamiamo “ruoli”, categorie sociali, tipi, ecc., altro non sono che un continuo scambio tra il piano finzionale e quello reale i cui effetti vanno a costruire quella complessa e intricata rete di relazioni di cui è intessuta la nostra vita quotidiana.