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Baudelaire e Rimbaud: l’origine della poesia
di Riccardo Renzi
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Baudelaire e Rimbaud: l’origine della poesia

Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, le prime due figure che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi, sono quelle di Charles Pierre Baudelaire e Jean Nicolas Arthur Rimbaud. Ma perché proprio loro due? Quale impatto ebbero nell’immediato e a lungo termine?

Le due figure hanno ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte sono impresse nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il loro spirito rivoluzionario le rende assai attraenti, in particolar modo appetibili per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo. 

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell'arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell'Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell'alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali, fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L'opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l'anno dopo morì in una clinica di Parigi[4]. 

Les fleurs du mal, sono il suo capolavoro per eccellenza, una raccolta di liriche suddivisa in sei parti: Noia e Ideale, Quadri parigini, Il vino, I fiori del male, Rivolta, La morte. Esse costituiscono l'unità delle riflessioni del poeta. Sono un organismo di tenebrosa e profonda unità, con spiragli di ciceroniana saccenza, più propri di un oratore che di un poeta. Al momento della stesura, non vi fu volontà architettonica, ma fu guidato da l’esigenza di raccontare con modalità stratigrafica di opposizione: Noia e Ideale, Vita e Morte, Rivolta e Conservatorismo. 

Tra foreste di simboli s’avanza
La Natura è un tempio in cui pilastri vivi
a volte emettono confuse parole;
l’uomo, osservato da occhi familiari,
tra foreste di simboli s’avanza.

Come lunghi echi che di lontano si confondono
in una unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,
dolci come oboi, verdi come prati,
ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,
come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino
e cantano l’estasi dello spirito e dei sensi.

In Baudelaire troviamo sempre un intimo rapporto con la natura, derivante dagli studi che egli fece su di essa, dallo studio della luce in campo pittorico, a quello sonoro. In lui inoltre è sempre presente, anche se a volte celato nell’ombra, lo Spleen, termine inglese che indica una forma malinconica e dolorosa di noia, di cui è vittima fin dalla tenera età il poeta. Questo sentimento può prendere forme diverse, legate a differenti luoghi chiusi, quali tombe e prigioni.

Spleen

Quando il cielo basso e oppressivo pesa come un coperchio
sull’anima che geme in preda a lunghi affanni,
e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,
una luce nera più triste di quella delle notti;
quando la terra si è trasformata in un’umida prigione,
dove la Speranza, come un pipistrello,
va sbattendo contro i muri la sua ala timida
e picchiando la testa sui soffitti marciti;
quando la pioggia distendendo le sue immense strisce,
imita le sbarre di una grande prigione,
e un popolo muto d’infami ragni
tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,
a un tratto delle campane sbattono con furia
e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,
simili a spiriti erranti e senza patria,
che si mettono a gemere ostinatamente.
– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,
sfilano lentamente nella mia anima;
vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,
pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero.

Nel componimento sono posti in parallelo lo spazio esterno e quello interiore del poeta, entrambi rappresentati come prigioni dalle quali ogni tentativo di fuga risulta vano. Nella prima quartina il cielo è paragonato a un “coperchio” che schiaccia l’animo del poeta, già oppresso da dolore e preoccupazioni, e che porta sulla terra oscurità e tristezza. Nella seconda quartina la terra diventa una “prigione”, nella quale non c’è spazio per la Speranza, che è paragonata a un pipistrello che sbatte da ogni parte poiché non trova il modo per uscire. Il corpo è sempre concepito come prigione dell’anima, mentre la terra come prigione dell’uomo. In tutta la sua vita Baudelaire, proprio come Rimbaud e Campana, dopo di lui, si sentirà un estraneo tra gli uomini, un migrante errante, senza patria e senza meta. Pur sapendo tutto ciò, conscio del suo essere, sa perfettamente che come poeta ha un compito fondamentale: rivelare i segreti del mondo. Il poeta non è un essere comune, sente ciò che gli altri non sentono e vede ciò che gli altri non vedono, proprio come fa un albatros dall’alto. 

Con le sue ali di gigante non riesce a camminare
Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano albatri, grandi uccelli di mare,
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli abissi amari.

Appena deposti sulla tolda,
questi re dell’azzurro, vergognosi e timidi,
se ne stanno tristi con le grandi ali bianche
penzoloni come remi ai loro fianchi.

Com’è buffo e docile l’alato viaggiatore!
Poco prima così bello, com’è comico e brutto!
Uno gli stuzzica il becco con la pipa,
un altro, zoppicando, scimmiotta l’infermo che volava!

Il poeta è come quel principe delle nuvole,
che sfida la tempesta e ride dell’arciere;
ma, in esilio sulla terra, tra gli scherni,
con le sue ali di gigante non riesce a camminare.

Passando a Rimbaud egli dal punto di vista biografico ha tutte le carte in regola per essere un poeta maledetto[5]. Fu educato in provincia, presso Charleville, nelle Ardenne, in una famiglia molto agiata, nel più rigido perbenismo e nell’osservanza religiosa. Conclusa l’adolescenza egli fuggì da tutto ciò e si diede all’alcol e alla vita sregolata, legandosi con Paul Verlaine[6] in un rapporto amoroso omosessuale. Per sopravvivere, il ragazzo, fece i lavori più disparati, dal marinaio allo scaricatore, dal maestro al volontario nell’esercito olandese. Tra i 17 e i 20 anni scrive quasi tutti i suoi componimenti, che poi si riveleranno fondamentali per la storia della poesia contemporanea. A 21 anni molla tutto e scappa in Africa, si ammala, gli viene amputata una gamba e muore a soli 37 come un nulla tenente[7].

Rimbaud, per onestà intellettuale, è da considerare, senza tanti giri di parole, il più grande poeta contemporaneo francese. Artisticamente la vicenda di Rimbaud si intreccia a quella di Verlaine. Quest’ultimo con le sue formulazioni teoriche, ha portato avanti una ricerca esistenziale e poetica che origina da Baudelaire[8]. Ma Rimbaud, come aveva fatto Novalis per il romanticismo e Campana per la poesia italiana, crea una frattura con la tradizione maledettista francese, con lui la poesia riparte da zero. La prova di ciò risiede nel fatto che egli dagli avanguardisti venne visto come un caposcuola, un riformatore, a lui essi si rifaranno e non a Verlaine. La sua poetica è un attacco frontale al conformismo e alla mediocrità piccolo borghese, ma allo stesso tempo si caratterizza per una ricerca esistenziale personale. È influenzato dalla Comune di Parigi e dai nuovi spiriti rivoluzionari che ricominciano a circolare e animare la città. Rimbaud riprende, con un vero e proprio accanimento, motivi anticlericali e giacobini, ma li rivolge contro la nuova borghesia, mediocre, insulsa e sempre più insignificante. A tutta questa critica classista si accompagna sempre una costante ricerca esistenzialista, come anticipato anche in precedenza.

 Il Male

Mentre gli sputi rossi della mitraglia
sibilano senza posa nel cielo blu infinito;
scarlatti o verdi, accanto al re che li schernisce
crollano i battaglioni in massa in mezzo al fuoco,

mentre un’orrenda follia, una poltiglia
fumante fa di centomila uomini,
– Poveri morti! Nell’estate, nell’erba e nella gioia
tua, o natura! tu che santamente li creasti!

– C’è un dio che ride sulle tovaglie di damasco
degli altari, nell’incenso e nei grandi calici d’oro,
che s’addormenta cullato dagli Osanna,

– e si risveglia, quando madri chine
sulla loro angoscia, piangendo sotto i vecchi cappelli neri
gli danno un soldo legato nel loro fazzoletto.

La presenza costante del male, a volte interiore, altre esteriore, accompagnerà sempre la poesia di Rimbaud, un po' come quella di Novalis, ma mentre quest’ultimo trova la salvezza nella fede, il “fanciullo francese” è condannato ad una eterna dannazione, senza speranza. Gli uomini, secondo Rimbaud, non sono in grado di non auto lesionarsi. 

Sognato per l’inverno (1870)

D’inverno, ce ne andremo in un piccolo vagone rosa
con i cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di pazzi baci riposa
in qualche soffice angolo.

Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dai vetri
ghignare le ombre delle sere,
queste arcigne mostruosità, plebaglie
di neri démoni e neri lupi.

Poi sentirai la guancia scalfita…
Un piccolo bacio, come un ragno folle,
ti correrà per il collo…

E tu mi dirai: «Cerca!» inclinando la testa,
e perderemo tempo a cercare quella bestia
– che così tanto viaggia…

La salvezza in Rimbaud, come in Campana, risiede solo nella fuga, nel cambiar luogo, come vagabondi erranti nella nebbia. La loro vita fu infatti caratterizzata da un continuo vagabondaggio, in cerca di una pace per loro inafferrabile. 

Note: 
[1] Nel sistema scolastico italiano solitamente si affronta in IV° superiore.
[2] Introduzione a I fiori del male, Cronologia della vita e delle opere, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Giulio Einaudi Editore, 2014.
[3] C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Milano, Mondadori, 2018, p. 30.
[4] S. Guglielmini, Guida al Novecento, Milano, Principato editore, 2009, p. 29-30.
[5] L’espressione fu coniata da Verlaine in una raccolta di saggi del 1884 intitolata I poeti maledetti.
[6] A. Buisine, Verlaine. Histoire d'un corps, Tallandier, coll. «Figures de proue», 1995.
[7]  E. Ria, Il ragazzo dalla faccia pulita. Saggio su Rimbaud, Catania, Villaggio Maori edizioni, 2014, pp. 7-21. 
[8] G. Macchia, Baudelaire, Milano, Rizzoli, 1975, pp. 55-56.

A cura di Riccardo Renzi



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