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Irene Némirovsky (1903-1942)
a cura di Lara Scifoni
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La valigia di Irina
Irène Némirovsky fu riscoperta in Francia nel 2004, quando il prestigioso Prix Renaudot venne attribuito postumo al suo romanzo incompiuto Suite française (Suite francese); da allora la scrittrice si è imposta all’attenzione di editori e lettori di tutto il mondo per la straordinaria capacità narrativa. I suoi romanzi e racconti denotano una tale capacità d’introspezione, uno sguardo così lucido e distaccato nel rappresentare personaggi e descrivere stati d’animo da indurre il lettore ad interrogarsi sulla donna che scrisse tali opere: leggerne la biografia rivela come la produzione letteraria presenti un alto tasso autobiografico. Consapevole di ciò, la Némirovsky attinse a piene mani alle proprie esperienze personali: “Nella mia vita ci sono abbastanza ricordi e abbastanza poesia per farne un romanzo”, dichiarò in un’intervista . Di romanzi ne scrisse ben sedici e oltre cinquanta racconti, prima della tragica fine a soli 39 anni. Nel 2009 è stata pubblicata in Italia una ponderosa e circostanziata biografia: La vita di Irène Némirovsky, di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, uscita nel 2007 in Francia con il titolo di La vie di Irène Némirovsky, edita da Grasset. Irina - giacchè questo era il vero nome di battesimo della scrittrice - nacque a Kiev nel 1903, figlia di un ricco ebreo russo, Leonid Némirovsky, appartenente a una famiglia dedita al commercio di granaglie nella città ucraina di Nemirov. Leonid aveva lavorato con tenacia e intraprendenza prima di farsi strada nel mondo della finanza e diventare uno dei banchieri più facoltosi della Russia: era un self-made man dotato di audacia, ambizione e senso degli affari. La madre di Irina, Anna Margulis, nata a Odessa, si faceva chiamare vezzosamente Jeanne o Fanny: donna vanitosa, venale e fredda nei confronti di Irina, della quale si disinteressava completamente, aveva messo al mondo la figlia per compiacere il marito, ma per lei la bambina rappresentava il primo segno del declino della propria femminilità, e la affidò subito alle cure della balia: Irène è la figlia unica ma “cancellata” di una madre narcisista fino alla follia, che la obbliga a vestirsi da scolaretta ben oltre l’adolescenza. La madre Fanny, donna bellissima e frivola, nega così fino all’inverosimile la femminilità adulta della figlia, rea di denunciare la “vecchiaia” di chi l’ha messa al mondo (il tema della madre-mostro, dell’ “orchessa”, torna in molti romanzi: in particolare Le Bal del 1930, o Jézabel del 1936). In opposizione a questa madre-strega, madre-matrigna, svetta la figura idealizzata della colta e affettuosa istitutrice francese, col conseguente ancorarsi della ragazzina alla letteratura come a un magico valore-rifugio. Ogni inverno i Némirovsky partivano alla volta delle città termali francesi (Vichy, Vittel, Plombières, Divonne), dove la figlia poteva curare l’asma e i genitori si recavano a giocare ai casinò. Appartenendo alla buona borghesia finanziaria, Irina ricevette un’ottima istruzione da precettori privati: imparò il francese dalla governante sin dall’infanzia e ne studiò la letteratura; parlava correntemente il russo, il polacco, l’inglese e capiva lo yiddish sentito dai nonni e di cui vi sono tracce nel romanzo del 1940 Les chiens et les loups (I cani e i lupi). Tuttavia, Anna imponeva l’etichetta francese e proibiva che in casa si parlasse lo yiddish o si preparassero piatti tipici della tradizione ebraica: cercava, insomma, di occultare l’ebraismo della sua famiglia, anche perchè era stata testimone di diverse ondate di pogrom in Ucraina: una, terribile, nel 1905 mise Kiev a ferro e a fuoco e Irina, bimba di due anni e mezzo, fu salvata dalla cuoca, che la nascose dietro un letto. La famiglia conduceva una vita lussuosa e trascorreva le estati nei luoghi alla moda: in Crimea, a Biarritz e in Costa Azzurra anche per mesi interi; nonostante ciò Irina fu una bambina triste e solitaria, che guardava con occhi impietosi la madre narcisista, occupata ad imbellettarsi, spiare la comparsa delle prime rughe, provare abiti e farsi massaggiare. Il padre, che pure amava e ammirava, era distratto, sovente in viaggio per affari o nei casinò. Irina allora si rifugiava nei libri e nell’affetto ricambiato per la governante francese Zézelle. Dal 1914 i Némirovsky si trasferirono in una grande dimora a San Pietroburgo, nella centralissima Prospettiva Nevskij. Nel 1917 l’istitutrice francese fu licenziata da Anna; questo dolore in Zézelle si sommò al turbamento per l’atmosfera tetra di Pietrogrado, cui non riusciva ad abituarsi e la portò a suicidarsi nelle acque gelide della Mojka. Il tragico episodio segnò per sempre la vita di Irina; nella sua produzione letteraria, infatti, l’annegamento in un corso d’acqua è un tema ricorrente: […] Nelle opere di Irène Némirovsky ci si suicida e si annega spesso, in un’acqua sempre più fredda, più nera e più fetida: quella perennemente inquinata di San Pietroburgo, il cui “odore venefico” era per lei “l’alito stesso della città”. La ragazzina, che in un primo momento aveva pensato di imitare il gesto estremo della governante, amata come una madre, s’immerse nella scrittura: la precoce attività di scrittrice iniziò in Russia per esplodere in Finlandia, come reazione alla sensazione d’irrealtà e precarietà che viveva. Quando scoppiò la Rivoluzione e i bolscevichi presero il potere nel 1917, venne messa una taglia sulla testa di Leonid; i Némirovsky allora fuggirono in Finlandia in modo rocambolesco, travestiti da contadini. Trascorsero quasi un anno in un quieto villaggio, a Mustamäki, con la speranza di poter rientrare in Russia, ma quando fu chiaro che ciò non sarebbe stato possibile, si trasferirono a Stoccolma, e nel giugno del 1919 Irina s’imbarcò con la madre per la Francia. La traversata durò dieci giorni e fu tremenda a causa di una terribile tempesta; da allora le rimase la paura dell’acqua che andò a sommarsi a quella dell’annegamento. La scrittrice stessa, anni dopo, dichiarò: “[…] Io non ho mai paura….Non ne ho mai avuta. Tranne una volta in Russia durante la rivoluzione…E un’altra su un piccolo cargo che mi portava dalla Svezia a Rouen. Ci imbattemmo in una tempesta terribile, la nave ballava; temevo di cadere nell’acqua verde…” . Dal 1919 la famiglia visse stabilmente a Parigi: Irina aveva 16 anni e iniziava una nuova fase della sua vita. Da quel momento Anna si fece chiamare da tutti Fanny; Leonid, Léon e Irina Irma divenne Irène Némirovsky. Léon nella capitale francese assunse la direzione di una succursale della sua banca e poté così ricostituire il patrimonio ridotto a zero a causa della rivoluzione bolscevica. A Parigi Irène, alla quale la madre aveva affiancato una governante inglese, si diplomò e poi s’iscrisse alla Sorbona, ma i primi quattro anni furono dedicati alla vita mondana e ai flirt. Dopo questo periodo di intemperanze la ragazza incontrò Michel Epstein, un ingegnere, ebreo russo emigrato come lei, ma più assennato; Irina decise che era tempo di dedicarsi con serietà allo studio e alla scrittura: nel 1924 conseguì la laurea in Lettere con lode, continuò a scrivere alacremente e a pubblicare soprattutto racconti. Nel 1926 sposò Michel Epstein, che entrò a lavorare come impiegato alla Banque des Pays du Nord, e nel 1929 nacque Denise, la primogenita; quello fu anche l’anno della pubblicazione del romanzo David Golder, a cui seguì un’inattesa notorietà, tanto che i diritti del romanzo vennero acquistati da una casa cinematografica e ne furono tratti sia un film che un adattamento teatrale. I critici letterari parigini ricollegavano l’opera al “pittoresco” di Balzac, o addirittura al naturalismo di Dickens o Zola; il critico Robert Brasillach elogiò la purezza della prosa dell’autrice ormai proiettata nel mondo letterario parigino. Il romanzo vendette oltre sessantamila copie e fu tradotto in numerose lingue, tra cui il giapponese. Vi sono molteplici tratti peculiari nella vita della Némirovsky, tanto che Lina Zecchi ha parlato di “apparente schizofrenia culturale”: […] Un problema d’identità (la sua, la nostra), di appartenenza culturale, di cittadinanza e di esilio che il riconoscimento tardivo amplifica invece di attutire. […] La cifra segreta di Irène Némirovsky è la scissione, la separazione, l’appartenenza per esclusione, l’eterna marginalità. Irène, infatti, pur essendo ucraina di nascita e pur parlando correntemente il russo, scrisse le sue opere in un francese puro, a tratti violento. Quando l’editore Bernard Grasset mise un annuncio per trovare l’autore che gli aveva inviato il manoscritto anonimo di David Golder - romanzo audace, cinico e a tratti brutale - fu sconcertato nel trovarsi davanti una giovane donna, in Francia solo da dieci anni e, per di più, appena diventata mamma. D’altro canto, la stessa scelta della scrittrice di firmarsi Irène Némirovsky sottolinea la lacerazione tra l’identità francese e quella ebreo-russa. Nel 1930 venne pubblicato un romanzo breve ambientato a Parigi, Le Bal (Il ballo), trasposizione letteraria del rapporto conflittuale tra Irina adolescente e la madre egocentrica. Sebbene acclamata dalla Francia, la Némirovsky rimaneva pur sempre una scrittrice impregnata della cultura russa: e romanzo “russo” è Les mouches d’automne (Come le mosche d’autunno), uscito nel 1931, sobrio, semplice nella narrazione degli eventi, eppure sconvolgente: inizia con uno sguardo al passato per concentrarsi poi su un presente di cambiamenti a cui è difficile, se non impossibile, adattarsi. La protagonista indiscussa del libro è la njanja, Tat’jana Ivanovna, balia, governante e memoria storica della ricca famiglia borghese dei Karin. Brasillach, critico letterario nazionalista e antisemita, nel recensire il romanzo su l’‹‹Action française›› scrisse: La signora Némirovsky è riuscita a “tradurre” in francese l’immensa malinconia russa, privandola quasi della sua forza disgregatrice. Resta soltanto questa testimone di un tempo tormentato, questa vecchia serva che incarna innegabili virtù di fedeltà e devozione, e che muore vittima dello sradicamento…si legga e si conservi questo libro la cui poesia è così commovente e così genuina. Come le mosche d’autunno inizia in medias res durante la prima guerra mondiale in Russia: Tat’jana Ivanovna prepara i bagagli a Jurij e Kirill, i suoi “figliocci” che stanno per partire, baldanzosi, per il fronte russo-tedesco e traccia un segno di croce sulla slitta che li porta via nella notte gelata. Durante la Rivoluzione la balia rimane a vegliare sulla grande tenuta dei Karin, mentre il resto della famiglia fugge a Odessa per timore dei bolscevichi. E’ lei ad accogliere nella vasta dimora vuota Jurij, sfinito e braccato, il quale verrà, da lì a poco, ucciso a tradimento da un cocchiere che da bambino aveva giocato con lui. Per tre mesi, poi, Tat’jana, ultrasettantenne, cammina senza sosta fino a Odessa con i diamanti della padrona cuciti nell’orlo della gonna. Grazie alle pietre preziose i Karin possono imbarcarsi per Marsiglia, e poi, da là, proseguire per la capitale francese, ultima tappa del loro forzato esilio. Nell’angusto appartamento buio di Parigi essi non fanno altro che girare in tondo dalla mattina alla sera, frastornati, déracinée: […] Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita. Tat’jana, che ha accudito e amato i Karin per due generazioni, li vede vendere posate, pizzi, perfino le icone portate dalla patria. La serva è tacita testimone del decadimento dei valori in cui la famiglia credeva; non approva la rilassatezza dei costumi di Kirill e Loulou, i ragazzi che ha visto nascere, e nessuno sembra più aver voglia di ricordare il passato. Solo la nutrice, sempre più estranea alla realtà, vive delle memorie passate; le mancano la casa “con l’infilata di stanze immense” , il gelo, il vento sferzante e soprattutto la neve della Russia. La notte della vigilia di Natale, mentre gli altri sono fuori a festeggiare, si avvia, ingannata dalla nebbia che crede essere la prima neve, verso le fredde acque della Senna, avvolta nello scialle, e insieme a lei annegano la nostalgia e i ricordi: Ma quando arrivò in fondo, l’odore dell’acqua finalmente la colpì. Ebbe un brusco moto di stizza e di stupore, si fermò un attimo, poi riprese a scendere, sebbene l’acqua le riempisse le scarpe e le inzuppasse la gonna. E soltanto quando fu dentro la Senna fino alla vita ritrovò completamente la ragione. Si sentì gelata, cercò di gridare, ma ebbe solo il tempo di farsi il segno della croce e il braccio le ricadde: era morta. Il minuscolo cadavere galleggiò qualche istante, simile a un fagotto di stracci, prima di scomparire, ghermito dalla Senna scura. E’ evidente l’impronta autobiografica dell’opera: l’odissea dei Karin non è tanto dissimile da quella dei Némirovsky e Anna cucì davvero i diamanti nell’orlo della gonna prima di fuggire dalla Russia durante la rivoluzione. L’autrice, nel presentare il romanzo nel 1931 già uscito in una raccolta a tiratura limitata, replicò così ai critici che avevano disapprovato il finale “inverosimile” e “melodrammatico”: ‹‹Mi sembra importante precisare che il suicidio della vecchia Tat’jana è l’unico fatto veramente reale del racconto. Così è morta la mia governante, una donna devota e dal cuore semplice che mi ha educata, e che amavo come una madre. In omaggio alla sua memoria, e poiché credo si debba rispondere dei propri errori, non ho voluto cambiare nulla della presente edizione››. Né Il ballo né Come le mosche d’autunno ottennero il clamoroso successo di David Golder, ma la Némirovsky era ormai una scrittrice affermata e continuò a pubblicare senza sosta romanzi, racconti a puntate su periodici di grande tiratura come ‹‹Le Figaro››, ‹Candide››, ‹‹Revue des Deux Mondes››, ‹‹Gringoire›› (a prescindere dal loro orientamento politico), recensioni letterarie e critiche cinematografiche, anche perchè costituivano la principale fonte di reddito della famiglia da quando il padre era morto e le aveva lasciato un’esigua eredità, mentre gran parte del patrimonio era andato alla madre con la quale Irène aveva troncato i rapporti. La scrittrice conduceva una vita agiata, ma non tollerava l’idea di dover rinunciare all’alto tenore di vita cui era abituata. Gli Epstein, d’altra parte, si erano inseriti perfettamente nella società parigina e organizzavano serate con letterati della levatura di Paul Morand, Tristan Bernard e Henri de Régnier. Eppure, malgrado la notorietà, gli appoggi prestigiosi e le richieste ripetute dal 1935 fino al 1939, la scrittrice non riuscì mai ad ottenere la nazionalità francese né per sé né per il marito. Irène si rendeva conto della difficile situazione in cui si trovava data la sua condizione di straniera apolide: la propaganda antisemita in Francia andava assumendo toni sempre più accesi e nonostante ciò la scrittrice non fece nulla per nascondere le proprie origini ebraiche. Quando uno zio di Michel, lo psicanalista Alfred Adler, trasferitosi negli Stati Uniti all’inizio degli anni Trenta consigliò agli Epstein di seguire il suo esempio, essi non lo ascoltarono. Irène decise invece di convertirsi alla religione cattolica, e si fece battezzare insieme al marito e alle bambine il 2 febbraio del 1939: La conversione tardiva al cattolicesimo di Irène […] non è tanto un tentativo di salvare se stessa simulando una fede che non ha né desidera approfondire, quanto di “assimilarsi” e radicarsi in qualche modo a una patria ideale che continua a rifiutarle, dopo vent’anni di richieste, la nazionalità. Némirovsky non si fa troppe illusioni in proposito: la sua religiosità non è mai stata di tipo mistico né confessionale; eppure, cerca di essere pragmatica e considera l’adesione al cattolicesimo una via per mettere il marito e le figlie al riparo dalla persecuzione. Anche questo sarebbe quindi un gesto “schizofrenico”, dato che dopo la “conversione” Irène non fa nulla per ingraziarsi i suoi protettori cattolici e non nasconde il disprezzo inesorabile per ogni forma di collaborazionismo. In un momento così incerto la scrittrice probabilmente aveva bisogno di una consolazione spirituale che il giudaismo, al quale la sua educazione l’aveva resa estranea, non le poteva offrire, ma sapeva bene che neppure l’acqua battesimale poteva “lavarle il sangue”, tanto più che gli antisemiti “biologici” mettevano in guardia coloro che intendevano convertirsi: L’ebreo convertito resta un ebreo, così come il negro che riceve il battesimo mantiene intatti il colore della pelle e le sue caratteristiche razziali. La questione ebraica non è una questione religiosa ma di razza. Nel settembre del 1939, Irène e Michel Epstein scartarono l’ipotesi di riparare in Svizzera, come se non volessero sottrarsi al destino che li attendeva, ma misero al sicuro le figlie in un tranquillo paese della Borgogna, Issy-l’Évêque, mentre loro continuavano a risiedere e a lavorare a Parigi. Il governo di Vichy, a partire dall’ottobre del 1940, conferì ai prefetti i poteri di internare gli stranieri di razza ebraica; da quel momento gli Epstein furono sempre più esposti alla discriminazione: Michel fu epurato dalla banca e a Irène fu proibito di pubblicare, così entrambi si riunirono alle figlie e alla governante a Issy. Irène intuiva che l’esito sarebbe stato tragico, ma continuava a leggere e a scrivere febbrilmente . Lavorava ad una saga, una sorta di Guerra e pace in versione francese, come lei stessa definì l’opera ambiziosa che stava prendendo forma e il cui titolo doveva essere Suite française. Il progetto era di scrivere un romanzo di mille pagine, costruito come una sinfonia in quattro o cinque movimenti. Riuscì a portarne a compimento due e abbozzare il terzo: Tempête en juin, una successione di quadri sul tracollo della Francia invasa rapidamente dai tedeschi; Dolce, dove la struttura della finzione romanzesca diviene più complessa, e Captivité. Il 13 luglio del 1942 Irène venne arrestata, condotta nel campo di concentramento di Pithiviers e da lì inviata ad Auschwitz. Nei giorni precedenti al suo arresto aveva affidato il manoscritto del suo ultimo libro, nascosto in una valigia di cuoio, al marito, il quale fu arrestato tre mesi più tardi. Gli appunti, le fotografie, la stesura parziale di Suite française vennero allora custoditi dalla figlia maggiore Denise sempre dentro la valigia di cuoio, che servì come cuscino durante le sue fughe con la sorella minore nella Francia occupata. Irène venne registrata nel campo di sterminio di Birkenau, ma debole e stremata passò al “Revier”, l’infermeria in cui venivano portati i prigionieri troppo ammalati per lavorare e che poi venivano condotti alle camere a gas. Il certificato di morte è datato 19 agosto 1942 e parla di decesso in seguito a “influenza”, che nel linguaggio dei campi di concentramento indicava, quasi certamente, febbre tifoide. Michel Epstein, che tanto si era prodigato per la liberazione della moglie, fu deportato ad Auschwitz il 6 novembre del 1942 e mandato nelle camere a gas il giorno stesso. Dopo l’arresto dei genitori, Denise e Élisabeth, braccate dalla polizia francese e dalla Gestapo, trovarono rifugio in un convento di suore, vennero nascoste in cantine umide, nei sottoscala, portando sempre con loro la preziosa valigia; al termine del conflitto vissero un vero e proprio calvario per sopravvivere sia materialmente che psicologicamente. Romanzo senza happy ending, dunque, la vita di Irène Némirovsky; mi pare tuttavia opportuno fare due considerazioni: in primo luogo il premio del 2004 a Suite française, una sorta di risarcimento postumo, ha avuto il merito di far riscoprire le opere della scrittrice, sorprendenti per la loro attualità e la “freschezza” che solo i classici riescono a conservare; la seconda considerazione è che Irène non fu amata dalla madre e ciò le procurò una ferita mai sanata, ma amò teneramente le figlie e fu ricambiata da entrambe: Élisabeth divenne traduttrice e dirigente editoriale con il nome di Élisabeth Gille e scrisse, già malata, una struggente “biografia immaginaria” dedicata alla madre, Le Mirador. Morì nel 1996. Denise Epstein affidò il quaderno che conteneva gli appunti di Suite française all’Institut Mémoire de l’Èdition Contemporaine (IMEC); tuttavia, prima di separarsene, dattilografò il manoscritto compiendo una certosina opera di decifrazione, aiutandosi con una lente. Nel 2008 ha pubblicato in Francia Survivre et vivre, ora tradotto anche in italiano (Sopravvivere e vivere, da Adelphi), in cui racconta la difficoltà di rapportarsi alle opere della madre scomparsa precocemente e l’importanza terapeutica che per lei ha avuto curare la pubblicazione di Suite française; inoltre difende la Némirovsky dalle accuse di antisemitismo che le sono state mosse, a causa delle descrizioni di ebrei avidi e senza scrupoli contenute in particolare in David Golder, e anche per aver collaborato a riviste di estrema destra sotto pseudonimo dopo la promulgazione delle leggi razziali. Nel settembre del 2009, all’età di 80 anni, Denise Epstein ha partecipato al Festival della Letteratura di Mantova; il titolo del suo intervento è stato: “Irène Némirovsky, mia madre."
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Lara Scifoni
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