“Il vecchio della montagna”, pubblicato a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899 e raccolto in volume l’anno successivo, è un romanzo solo apparentemente minore che segna lo spartiacque tra le sperimentazioni giovanili e la maturità letteraria dell’autrice.
Incentrata sulla relazione passionale e coinvolgente tra Melchiorre Carta e sua cugina Paska, la storia ruota attorno a pochi personaggi alla cui drammatica vicenda fanno da sfondo le aspre montagne che circondano Nuoro.
«Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile. Era un giovane pastore biondastro, di piccola statura; una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore del suo volto contornato da una rada barbetta rossiccia. Anche la sopragiacca di cuoio del suo costume era giallognola, e il cavallino che egli montava era rossastro, tozzo, angoloso e pensieroso come il suo padrone. Melchiorre era un giovine di buoni costumi e d'ottima fama; molto spensierato ed allegro non lo era mai stato, ma da qualche tempo si mostrava più taciturno del solito, e si sentiva quasi malvagio, perché sua cugina Paska lo aveva abbandonato alla vigilia delle loro nozze. E senza motivo! Così, solo perché ella si era improvvisamente accorta di essere graziosa e corteggiata anche da giovani signori.»
Il numero limitato dei personaggi gioca decisamente a favore della loro caratterizzazione psicologica; ne emerge un mondo nitido e ben definito, in cui la durezza della natura (ricorrenti sono gli accenni all’orrore dei dirupi ed all’asperità delle vette) e la lontananza dalla vita sociale lasciano emergere un universo interiore governato da leggi arcaiche e impulsi ancestrali.
Ed è questo il mondo nel quale si muove con assoluta coerenza Pietro Carta, il vecchio della montagna – vero protagonista della vicenda - anziano pastore ormai cieco.
"(…)zio Pietro, seduto davanti al fuoco, con le mani appoggiate una sull'altra sul bastone fermo fra le gambe, pareva una figura preistorica, con gli occhi chiusi nel sogno d'apocalittiche visioni."
Pietro Carta è sempre pronto a umiliarsi per il bene del figlio e per tutta la vita ha – nonostante tutto e tutti – percorso senza esitazione i sentieri della bontà e della rettitudine; perché, dunque, è stato condannato ad un destino così atroce? La domanda, come sempre nella vita (e meno frequentemente in letteratura) resta sospesa nell’aria. Al lettore, se lo desidera, il compito di trovare una risposta che non c’è.
Quello che sappiamo è che la malattia gli concede una autonomia estremamente limitata: riesce a svolgere ancora semplici compiti che ripete con una gestualità quasi rituale, arriva a spingersi nell’orto con l’aiuto del suo bastone ma ha sviluppato una dipendenza assoluta dal figlio Melchiorre, la cui assenza risveglia immediatamente in lui una sorta di "arcano timore" che si ingigantisce quando il vecchio inizia a rendersi conto che questi – innamoratosi della giovane Paska - si sta progressivamente allontanando da lui.
“(…)il vecchio sentiva il bosco stormire, percosso da un brivido di brezza: e questa voce lamentosa e monotona gli echeggiava dentro, nel buio dell'anima inquieta, dandogli un senso disperato di tristezza e di abbandono. Per lui la luce era la presenza del figliuolo. Ma da qualche tempo sentiva che Melchiorre, incalzato dalla sua passione, lo abbandonava anche lui, e talvolta provava un terrore simile a quello d'un bimbo smarrito in luoghi deserti."
Nel tratteggiare i personaggi l’autrice va oltre l’impostazione veristica (o documentaristica) dei primi romanzi, senza però indulgere nel simbolismo (a volte eccessivo) presente in altre novelle. Il risultato è una storia rude ma profondamente realistica. La componente etico-morale che attraversa l'intero impianto narrativo culmina nel viaggio catartico che porterà il Vecchio della Montagna fino alle estreme conseguenze, diventando simbolico atto di redenzione dalla forza distruttrice della passione.
La passione, che è quella tra Melchiorre e Paska, è a sua volta un sentimento complesso: attrazione sensuale e repulsione, amore e gelosia si mescolano tormentando e confondendo il giovane Carta. Paska, dal canto suo (“Creatura bella e affascinante che possedeva la malefica potenza di far perdere il sonno a chi l'avvicinava”) inebriata dalla propria bellezza – che vede come strumento di potere e riscatto - si lascia corteggiare da tutta una schiera di personaggi secondari, incluso un servo di Melchiorre, il giovane porcaro Basilio, creatura "selvaggia e incosciente".
In questo senso, il prototipo di Paska può essere agevolmente rintracciato nella tipica “femme fatale” della letteratura ottocentesca, sorta di trasgressivo proto-ideale di libertà ed emancipazione.
Quasi inutile ricordare come, anche per la stesura di questo romanzo, l’autrice si sia ispirata ai drammi che i pastori sardi consumano nella solitudine della "tanca", sorvegliando le greggi nei pascoli montani e riparandosi nelle loro capanne primitive. Una realtà rozza ma genuina e sincera che rappresenta, in tutta la produzione di Grazia Deledda, una inesauribile fonte di storie e personaggi e che viene anche qui contrapposta, come a darle maggior risalto, a quella dei signorotti sfaccendati che vengono nel bosco a far feste e bagordi accanto alla chiesa-baita proprio nel periodo Novena alla Signora.