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La città che somigliava a Chopin
di Cristian Bonomi
Pubblicato su SITO


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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

L’epidemia di silenzio iniziò senza che qualcuno potesse assegnarle un nome o un perché. Ne uscì prostrato il centro storico d’Elinìv. I politici non pronunciarono mai tante volte la parola «calma» di fronte ai giornalisti che tentavano di mettere un diesis alla notizia. «Il viatico del male è uditivo. O così pare. Un suono come di pioggia irrompe brusco ma senza gocciolare. Tra chi lo avverta, solo alcuni si ammalano. Le strade paiono loro più anguste e circolari, quasi un cappio che spegne la voce: lo s’intuisce dal terrore in cui gli sventurati si perdono - riportava in apertura “Die Sis”, la testata meno pettegola della città vecchia - la paralisi che ne segue è immediata. Lega le pulsazioni, riducendo la vittima ad un oggetto che s’infrange per terra: orribilmente senza produrre rumore. I primi episodi sono stati segnalati nella piazza, La maggiore, su cui questo bel paese s’avvita. L’unità sanitaria ha indetto la quarantena sulla zona, ma ancora non si ha la più anemica idea di che morbo stia funestando il nostro onesto vivere». La lucida città alta andava desertificando: la popolazione, perlopiù di donne anziane, si radunava a crocicchi sulle cinque scale di ogni casa (chiamata «Beet» nel dialetto elinivo). Ormai, nessuno passeggiava più la borgata antica da cui il contagio era sorto. Fu quando una nota cittadina cadde sul lastricato nero senza fare alcun rumore. Si trascinò appresso, cadendo, il marito mingherlino dal cui braccio non si scioglieva mai. Il loro passeggiare alzava sempre lo sguardo (e il mormorio) di altre signore che, quel mattino, assistettero alla tragedia. Vennero ascoltate in questura, malgrado lo spavento stonasse la loro corale testimonianza. « All’improvviso scrosciò la pioggia o, almeno, se ne sentiva il rumore senza che una sola goccia bagnasse - Si disse così - I due s’accasciarono a terra senza tonfo, dissolvendosi, come se un vento borseggiatore avesse rubato loro l’anima». Quando i casi si moltiplicarono, ogni riservatezza venne scansata. Perquisizioni colpirono le più assolate case del quartiere in collina, di dove pareva venisse la più parte delle vittime. Don Pausania, esorcista di Remour, venne invitato a celebrare presso la fontana vecchia. Le autorità acconsentirono al rito, confidando che avrebbe quantomeno sedato gli spiriti. Le campane, la folla e l’acqua assordavano una normalità pericolante. «Senza annuncio, ricominciò poi quell’asciutto rumore d’acquazzone che aprì a tutti bocche incapaci di urlare – scrisse con mesta retorica l’edizione straordinaria – L’insistere della pioggia, come un graffiare di spilli, si avvertiva all’udito ma non al tatto. E il mutismo prese ostaggi anche i bronzi della torre. Il grido della folla, in fuga per la piazza come acqua, azzittì insieme alle campane che pure muovevano nell’aria. Cosa infine avvenne non è meno spaventoso che facile dire: niente. Tutti rotearono gli occhi all’indietro, rimarginarono le labbra inutili e svanirono senza che un sospiro o un gemito ne firmasse l’agonia. Il silenzio aveva raggiunto i cuori, disinnescandoli». Un simile tacere suscitò per contraccolpo carnevali d’isteria, canzoni spolmonate per le strade. Il tempo era imminenza, da cornicione le sensazioni. L’immobilità dei libri negli scaffali e il familiare tacere dei quadri spinse alcuni alla pazzia. Costosi scienziati tentarono di misurare cadenza, quota, angolatura del rovescio il cui secco rumore pareva azzerare ogni altro suono: fino al battito cardiaco o la peristalsi. Disgraziatamente, anche loro svanirono prima di produrre un rimedio alla piaga, sonoro forse. Alla fine, le porte della città vecchia vennero rinserrate nottetempo: ma con la lentezza dell’irrimediabile quel bussare di pioggia asciutta si propagò comunque. Sullo scrittoio dell’ennesimo sindaco, succeduto a quelli morti di silenzio, i cittadini più benemeriti apparecchiavano le soluzioni meno plausibili. Alcuni dissero che il male veniva dalle periferie, come una maledizione e un puzzo «contro questo giardino di città». Ma, calcandosi le lenti sul naso, avrebbero meglio visto come la malattia procedeva dal centro. Erano le nobildonne con lo stemma sul portone, i notai dal baffo sottile, le ereditiere che annodavano al dito il giro di perle: erano loro gli iettatori. Dirlo avrebbe alzato sopracciglia, avrebbe fatto cadere occhialetti da badessa. E l’unica parola sensata si contorse sul volto di un orologiaio che, ogni mattino alle 7.45, apriva bottega in piazza Duomo. «La musica è finita – disse come chi sa da parecchio cosa dire – Molti di noi sono nati qui, nella città, e non ricordano né di dove vennero i nostri antenati né quanti rintocchi fa successe. Siamo sedentari e decrepiti: stuccati in pose monumentali sulla vetta di una conquista che non abbiamo meritato. I provvedimenti adottati per scongiurare l’epidemia, in verità, la hanno amplificata. Chiudere le porte della città vecchia ci ha reso solo più immobili e simili ai morti che stiamo diventando». Il sindaco lo guardò accuratamente estrarre il suo orologio dalla tasca. «Vede? - proseguì mastro Lancetta - dobbiamo risalire il tempo nello spazio, come fa questo quadrante che cammina al contrario. Dobbiamo partire alla volta della giovinezza perché la musica ricominci». Chi dei due non lo era, riservava un’ammirazione al mestiere dell’orologiaio, così svizzero e devoto. Ma non poteva schiodare le transenne e indire l’esodo solo per questo. Dimostrò la sua benevolenza all’artigiano offrendogli un po’ di ascolto ancora: schiarì la voce senza usarla, e caricò sul grammofono una melodia di Chopin. «Lei ama la musica - sorrise mastro Lancetta sul viso di sabbia notturna - Immagini le ultime note di questo disco, e ci paragoni a loro. Sono suoni in salita, come la nostra città. Si rassegnano al grattare della puntina che, imitando la pioggia, li sbecca sulla rotta circolare; quella che va stringendosi verso il silenzio e il congedo. Bisogna ripartire da lontano perché Chopin non finisca». L’orologiaio s’alzò e, prima che il disco tacesse, ne rimise la testina a inizio vinile. «Qui sta la periferia di Elinìv» disse. Poi riprese il cappello con cui mimare un deciso saluto. Il sindaco aprì la finestra per scorgerlo allontanarsi. Quindi, risolse che sarebbe rimasto in città finché tutti gli altri non fossero salpati per quell’antico futuro. Fece affiggere bandi, armare carovane per i suoi compaesani, che ora riconosceva nella metafora delle note: alcune erano già disposte all’ultima battuta, e sedettero nell’attesa che il silenzio le raccogliesse. Altre indugiarono a ingozzare bauli o abbattendo certi ciliegi, perché nessuno ne godesse dopo di loro. L’epidemia le sottrasse a quella fatica volgare. Ne rimasero poche ma pronte a calzare i sandali e respirare la polvere. «In questa città gli orologi agonizzano e, nelle pendole legate, le lancette sono tutte chiodi. Abbiamo sostato infitti in questa terra tanto a lungo che la morte ci ha scambiato per la sua messe - spiegò l’orologiaio al geografo che apriva il cammino - la vita si riconosce nel gesto, e noi diamo prova così della nostra: scavalcando la parola “fine”. Anche se alcuni di questi passi saranno addii». Le note cittadine partirono a piedi coi superstiti mariti accanto. Incapaci di riconoscerlo, tornavano a quel loro passato che loro non era: stavano rimontando le orme di certi ruvidi avi, giunti alla città molto tempo e altrettanti carillon prima. Alle strade taciturne lasciavano l’arrocco, l’agiatezza, il noto buio di casa e i cimiteri saziati; lasciavano tutto perché quella immobilità di artiglio nella preda era troppo simile alla morte per essere vissuta. Il loro stare a quel modo era una tastiera dalle combinazioni quasi esauste, cibo per il silenzio. Ripensarono quella prigionia di salotti quando fame e sete li risvegliarono in periferia. L’arco delle strade era più vasto. Remoto come un passato o un futuro, l’abitato sulla collina si vedeva solo irrigidendo la destra a visiera sopra gli occhi. Anche qui le case avevano cinque gradini, ma più spigolosi. Accampate là sopra, voci acerbe presentarono la città dalle ampie spirali agli immigrati dell’acropoli. Fu come incontrare i proprio antenati ancora ventenni. Qui non conoscevano la pioggia arida né il silenzio che faceva scalciare al cuore gli ultimi colpi di timpano. I suoni erano a trame sottili ma affollate come seta. C’era una fretta di violino tra i rumori dei cantieri. I pellegrini del centro li accolse una Elinìv ancora in piena musica e si barattarono la meta con gli abitanti dei sobborghi. Questi speravano di arrivare un giorno alla città elevata, tralasciando l’incompiutezza della periferia che stupiva invece i nuovi arrivati. «La musica è tempo, il tempo movimento – spiegò l’orologiaio che divenne sindaco al sindaco che divenne orologiaio – il tacere è dei morti che lo offrono, come fosse un pentagramma, al nostro sonante esistere. A chi vive spetta la parola e il viaggio che le mani dei defunti, immobili e sotterranee, quasi sorreggono. Riprendiamo da qui, dal “noi” a braccia spalancate che stiamo intonando». Il nuovo politico fece colmare di sabbia marina una pubblica clessidra che chiunque poteva ribaltare. Lo fece chi posava la bisaccia da viandante, chi la riempiva o chi (anziché il proprio dove) cambiava mestiere, abitudine. Pettinatura. Gli accordi tra le due genti ammorbidirono la musica della suburra, irresistibilmente speziata all’udito degli ultimi venuti. Da suoni noti se ne dosarono di ignoti. Chopin ricominciò così a inseguire la propria assenza lungo i circolari cammini di Elinìv.

© Cristian Bonomi





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