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Ragazza di O.Henry
traduzione di Anna Paradiso
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In lettere dorate sul vetro smerigliato della porta della stanza 962 erano scritte le parole «Robbins & Hartley, broker». Gli impiegati erano andati via. Erano passate le cinque e, con il passo poderoso di una mandria di percheron, le donne delle pulizie stavano invadendo l’edificio di venti piani, completamente adibito a uffici e dalla cima incappucciata di nuvole. Uno sbuffo d’aria rovente aromatizzata con bucce di limone, carbone dolce e olio di balena entrò dalle finestre aperte per metà. Robbins, cinquant’anni, una sorta di dandy sovrappeso con un debole per le serate mondane e le suite d’albergo, si fingeva invidioso delle gioie da pendolare del socio. «Chissà quante cose da fare stasera in mezzo a tutta quell’umidità» disse. «Voi gente di provincia siete il popolo vero, con le vostre cavallette enormi e il chiaro di luna e i long drink e tutte quelle cose che mettete lì nella veranda sul davanti». Hartley, ventinove anni, serio, magro, di bell’aspetto, teso, sospirò e aggrottò legger-mente la fronte. «Sì,» disse «di notte fa sempre fresco a Floralhurst, soprattutto d’inverno». Un uomo dall’aria misteriosa aprì la porta e si avvicinò a Hartley. «Ho scoperto dove vive» annunciò in quel mezzo sussurro e con quella solennità che rendono il detective al lavoro un essere distinto agli occhi dei suoi simili. Hartley lo guardò con cipiglio, in un silenzio che racchiudeva al contempo apprensione e tranquillità. In quel mentre Robbins aveva preso la canna da passeggio, si era sistemato il fermacravatta proprio come piaceva a lui e, con un cenno garbato del capo, era uscito diretto ai suoi svaghi metropolitani. «Ecco l’indirizzo» disse il detective con un tono di voce normale, essendo rimasto privo di un uditorio da ammaliare. Hartley prese il foglio strappato dal taccuino sudicio del segugio. A matita c’era scritto: «Vivienne Arlington, No. 341 East --th Street, presso Mrs. McComus». «Si è trasferita lì una settimana fa» disse il detective. «Ora, se volete che la pedini, Mr. Hartley, posso farvi un bel lavoretto come non ve lo fa nessuno qui in città. Vi costa solo sette dollari al giorno più le spese. Posso anche mandarvi un resoconto giornaliero scritto a macchina, contentente…». «Non c’è bisogno che continuiate» lo interruppe il broker. «Non è quel genere di caso. Volevo solo l’indirizzo. Quanto vi devo?». «Una giornata di lavoro» disse il segugio. «Dieci verdoni sono sufficienti». Hartley pagò l’uomo e lo mandò via. Poi uscì dall’ufficio e salì su un tram. Giunto alla prima grande arteria intracittadina, ne prese un altro diretto a est che lo lasciò su un viale in decadenza, le cui antiche strutture avevano un tempo custodito l’orgoglio e la gloria della città. Dopo aver attraversato a piedi qualche isolato, arrivò all’edificio che cercava. Era un palazzo nuovo che recava, scolpito sul portale di pietra povera, il nome altisonante di Vallambrosa. Le scale antincendio scendevano a zig zag lungo la facciata – cariche di masserizie, panni stesi ad asciugare e bambini che urlavano a squarciagola costretti fuori casa dalla calura di mezza estate. Qua e là un’esile pianta di caucciù spuntava da quella massa variegata, come chiedendosi a quale regno appartenesse – vegetale, animale o artificiale. Hartley premette il pulsante con il nome McComus. La serratura del portone scric-chiolò in maniera irregolare – ora in maniera ospitale, ora con diffidenza, quasi chiedendosi, incerta, se stesse aprendosi ad amici o creditori. Hartley entrò e iniziò ad arrampicarsi su per le scale nello stesso modo di chi cerca i propri amici all’interno di palazzi cittadini – che è poi il modo in cui il ragazzino si arrampica sul melo fermandosi solo quando, per caso, trova quel che vuole. Al quarto piano vide che Vivienne lo aspettava sull’uscio di un appartamento. Lei lo invitò a entrare con un cenno del capo e un sorriso luminoso e genuino. Mise per lui una sedia accanto alla finestra e si appoggiò con grazia sul bordo di uno di quei mobili in stile Dr.-Jekyll-e-Mr.-Hyde che vengono nascosti e misteriosamente ricoperti, corpi indefiniti di giorno ed eculei inquisitori di notte. Prima di iniziare a parlare, Hartley le gettò un’occhiata rapida, critica e piena d’approvazione e si disse che, quando si era tratto di scegliere, il suo gusto era stato ineccepibile. Vivienne aveva all’incirca ventun’anni. Era della più pura razza sassone. I capelli erano d’oro rosso, ogni filamento di quella massa ordinatamente raccolta rifulgeva di lucentezza propria e di una delicata sfumatura di colore. In perfetta armonia tra loro erano la pelle d’avorio e gli occhi color del mare che si posavano sul mondo con la calma ingenua di una sirena o della ninfa di un torrente montano ancora sconosciuto. La corporatura era sì robusta, ma possedeva grazia e naturalezza assolute. Eppure, nonostante la nitidezza e la franchezza nordica delle linee e dei colori, pareva esserci qualcosa di tropicale in lei – qualcosa di languido nella sua postura, di piacevolmente indolente e ingegnoso nel modo in cui si compiaceva di provare soddisfazione e benessere al solo respirare – qualcosa che pareva rivendicare per lei il diritto, quale opera perfetta della natura, a esistere ed essere ammirata al pari di un fiore raro o di una bella colomba color del latte che primeggia in mezzo ai suoi ben più sobri compagni. Indossava una camicetta bianca e una gonna scura – il discreto travestimento di guardiane d’oche e duchesse. «Vivienne,» le disse Hartley con voce supplichevole «non avete risposto alla mia ultima lettera. È stato solo dopo avervi cercata per quasi una settimana che ho scoperto dove vi siete trasferita. Perché mai mi avete tenuto sulla corda quando sapevate con che trepidazione aspettassi di vedervi e di ricevere vostre notizie?». La ragazza guardò fuori dalla finestra con aria sognante. «Mr. Hartley,» disse con esitazione «non so proprio cosa dirvi. Mi rendo conto dei vantaggi della vostra offerta e sono certa che con voi mi sentirei appagata. Ma, sapete, sono indecisa. Sono sempre stata una ragazza di città e mi fa paura relegarmi in una tranquilla vita di provincia». «Mia cara,» disse Hartley con fervore «non vi ho forse detto che potrete avere tutto quel che il vostro cuore desidera e che è in mio potere darvi? Potrete venire qui in città quando più vi aggrada, per andare a teatro, fare compere, far visita alle amiche. Di me vi fidate, vero?». «Nel modo più assoluto» disse lei con un sorriso, posando su di lui quei begli occhi sinceri. «So che siete un uomo immensamente generoso e che sarà fortunata la ragazza che vi prenderete. Ho imparato tutto su di voi, quando stavo dai Montgomery». «Ah!» esclamò Hartley con una tenera luce negli occhi, mentre già si abbandonava ai ricordi. «Come potrei dimenticare la sera che vi ho vista per la prima volta dai Montgomery? Mrs. Montgomery non ha fatto altro che tessere le vostre lodi. E a stento è riuscita a rendervi giustizia. Non dimenticherò mai quella cena. Su, Vivienne, promettetemelo. Io voglio voi. Non vi pentirete di essere venuta con me. Nessuno vi darà mai una casa così accogliente». La ragazza sospirò, abbassò lo sguardo e prese a torcersi le mani. Un improvviso sospetto, che molto aveva a che fare con la gelosia, s’impossessò di Hartley. «Ditemi, Vivienne,» le disse impaziente «c’è un altro – c’è qualcun altro?». Le gote chiare e il collo della ragazza si colorarono di un lieve rossore. «Non avreste dovuto chiedermelo, Mr. Hartley» disse lei un po’ confusa. «Ma ve lo dirò comunque. C’è un altro, sì – ma non ha alcun diritto – io non gli ho promesso nulla». «Il suo nome?» domandò Hartley con severità. «Townsend». «Rafford Townsend!» esclamò Hartley arcigno in volto, la mascella serrata. «Come ha fatto quell’uomo a sapere di voi? Dopo tutto quello che ho fatto per lui…». «La sua auto si è appena fermata qui sotto» disse Vivienne sporgendosi dal davanzale. «È venuto per avere la risposta. Oh, non so proprio che fare!». Il campanello in cucina ronzò. Vivienne si affrettò a premere il pulsante per aprire il portone. «Rimanete qui» disse Hartley. «Gli andrò incontro per le scale». Townsend, che pareva un Grande di Spagna con quei vestiti di tweed, il panama in testa e i baffi neri arricciati, saliva i gradini a tre a tre. Vedendo Hartley si fermò e parve imbarazzato. «Torna indietro» disse Hartley con decisione, puntando minaccioso l’indice contro di lui. «Salve!» disse Townsend fingendosi sorpreso. «Che succede? Che ci fai qui, vecchio mio?». «Torna indietro» ripeté Hartley inflessibile. «La Legge della Giungla. Vuoi che il Branco ti riduca in poltiglia? La preda è mia». «Sono venuto qui per parlare con un idraulico riguardo a certi tubi del bagno» disse Townsend sprezzante. «Senti un po’» disse Hartley. «Che la calce ti si secchi su quell’animo da traditore che ti ritrovi. Torna indietro». Townsend ridiscese le scale, lasciando che parole feroci si librassero in volo trasportate dagli spifferi dell’androne. Hartley tornò allora al suo corteggiamento. «Vivienne» disse risoluto. «Io devo avervi. Non accetterò più alcun rifiuto né esitazioni». «Per quando mi volete?» chiese lei. «Ora. Non appena sarete pronta». Stava in piedi di fronte a lui e lo guardava dritto negli occhi. «Pensate davvero» disse lei «che metterei piede in casa vostra mentre Héloise è ancora lì?». Hartley indietreggiò come se raggiunto da un colpo inaspettato. Incrociò le braccia e misurò a grandi passi il tappeto, facendo avanti e indietro un paio di volte. «Dovrà andarsene» dichiarò con determinazione, la fronte affollata di goccioline. «Perché dovrei permettere a quella donna di rendermi la vita infelice? Da quando la conosco, non ho mai avuto un giorno di tregua dai problemi che mi causa di continuo. Avete ragione, Vivienne. Héloise deve essere mandata via prima che io vi porti a casa. Dovrà andarsene. Ho deciso. La metterò alla porta». «Quando lo farete?» chiese la ragazza. Hartley serrò i denti e inarcò le sopracciglia. «Stasera» disse risoluto. «La manderò via stasera». «Allora,» disse Vivienne «la mia risposta è sì. Venite a prendermi quando volete». Lo guardò dritto in faccia, una luce dolce e leale s’irradiava dai suoi occhi. Hartley faticava a credere che lei si fosse abbandonata in modo così totale, tanto la sua risposta era stata repentina e sincera. «Promettetemelo,» disse lui con impeto «datemi la vostra parola d’onore». «Avete la mia parola d’onore» disse Vivienne con un filo di voce. Giunto alla porta, si voltò e la fissò felice, ma come se ancora non credesse davvero alle ragioni di quella gioia. «Domani» disse lui, l’indice alzato come a volerle fare memoria. «Domani» ripeté lei con un candido sorriso. Un’ora e quaranta minuti dopo Hartley scese dal treno nella stazione di Floralhurst. A passi svelti percorse i dieci minuti di strada che lo separavano dal cancello di un bel cottage a due piani che si ergeva su un grande prato ben tenuto. Mentre si avvicinava alla casa, una donna dai capelli corvini e con un lungo abito estivo svolazzante gli andò incontro e, apparentemente senza motivo, sembrò quasi strozzarlo. Quando misero piede nell’ingresso, lei disse: «La mamma è qui. L’auto che la riporterà a casa arriverà fra mezz’ora. Era venuta per cena ma non c’è nessuna cena». «Devo dirti una cosa» disse Hartley. «Avevo pensato di parlartene con calma, ma, poiché tua madre è qui, è meglio che non ci giri troppo intorno». Si chinò e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La moglie urlò. Sua madre arrivò correndo. La donna dai capelli corvini urlò di nuovo – l’urlo di gioia delle donne tanto amate e tanto viziate. «Oh, mamma!» gridò estasiata. «hai sentito? Vivienne verrà a cucinare da noi! È la ragazza che è rimasta un anno intero dai Montgomery. E ora, Billy, mio caro,» concluse «va’ subito giù in cucina a licenziare Héloise. È tutto il giorno che è ubriaca».
Titolo originale: "Girl" di O.Henry (1862-1910). Biografia di O.Henry da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/O._Henry
© O.Henry
Traduzione a cura di Anna Paradiso
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