Quattrocento corpi pressati in sedici metri per tre, tanto pressati da non potersi muovere. Il mio vicino ha ricevuto una mail sullo smartphone. Ha inserito la vibrazione ma l'ho sentita anche io. L'aria condizionata dovrebbe prevenire la sudorazione, cerchiamo disperatamente di distinguerci dal bestiame: siamo pendolari noi, carne da lavoro, non da macello.
Se non siete mai stati sulla metro di Tokyo nell'ora di punta avete una ben pallida idea di cosa sia l'insofferenza verso i propri simili. Vista da lontano la miseria umana può essere divertente, intrattenimento in stile Charles Bukowski. Vista da vicino, è intollerabile. Un idiota che starnutisce senza coprirsi la bocca o un vecchio che spinge con la schiena facendo forza sui sostegni di metallo. Vorrà un po' di spazio per la cassa toracica, suppongo. Purtroppo non ce n'è. Siamo un prodigio di efficienza, riempiamo lo spazio al cento per cento. Dietro di me qualcuno sta cercando di raggiungere il centouno infilando la sua borsa nella mia schiena. Il treno cambia binario e l'angolo della borsa mi si conficca violentemente in un rene. Mi sfugge un lamento "Ahia!". Il dolore non passa per la parte razionale del cervello, punta dritto in profondità dove riposano gli istinti. Il dolore lo si prova in lingua madre.
- Scusa.
- Come?
- La borsa.
- Non fa niente, non e colpa tua. Italiana?
- La borsa?
- Tu!
- Sì. La borsa si ritrae dal mio rene, deve averla girata intorno al corpo, chissa come ha fatto. Ora la tiene di fronte a sé. Al posto della borsa, due natiche morbide e calde aderiscono alle mie. La situazione migliora nettamente. Purtroppo non posso girarmi per vedere la mia interlocutrice. Dalla voce dire che si tratta di una donna giovane, dalle natiche che si tratta di una donna magra ma non secca, alta poco meno di me.
- Cosa ci fai qui?
- Vado in centro.
- Andiamo tutti in centro, su questo treno. Intendo cosa fai qui, così lontano dal mondo.
- Scusa, non mi va di parlare di me in mezzo a tutta questa gente.
- E perché? Nessuno ci capisce.
- Già, abbiamo la nostra privacy- ammette.
- Basta non fare caso ai corpi, è una privacy intellettuale, non abbiamo nemmeno bisogno di isolarci. Siamo liberi di essere soli in mezzo a tutti. Questo è un grande potere.
- Siamo speciali. Intendi questo?
- Sì.
Non so se siate mai stati in intimità con una sconosciuta dall'altra parte del mondo, un genere di intimità intellettuale che scaldi il culo e faccia sentire speciale.
A me non era mai capitato prima.
- Allora, chi sei?
- Non puoi fare una domanda del genere!
- Capirei lo sdegno, ma non capisco la risposta - le dico.
- No?
- No. Mi aspettavo qualcosa del tipo: sei un bel tipo, dovresti prima presentarti, no?
- Mi dispiace, non seguo i tuoi programmi. E comunque non si chiede "chi sei" a qualcuno che non si conosce.
- A chi dovrei chiederlo? E poi, perché no?
- Perché è maleducato, specialmente quaggiù.
Specialmente quaggiù. Cerco di girarmi per guardarla in faccia, ma lei mi si schiaccia ancora più addosso. Desisto.
- Ti sembra di essere qualcuno?
- In che senso?
- Essere qualcuno è pericoloso.
- Intendi dire che omologarsi e vantaggioso?
- Sei abbastanza sveglio.
- E tu hai un bel culo.
Non si sposta di un millimetro, non si appoggia a me piu di quanto già non faccia, non si scosta, non dà segni di imbarazzo. Semplicemente, continua a parlare in mezzo a tutta quella gente.
È pericoloso usare la propria personalità. Molto meglio essere dei vasi vuoti, senza desideri. Sarebbe anche meglio desiderare ciò che ci si aspetta da noi.
- Vivere senza personalità significa non essere nessuno. Noi siamo la nostra personalità.
- Non sbracare, significa non fare nulla per distinguersi, essere omologati.
- E la personalità?
- Messa da parte, in naftalina.
- Come un vestito elegante?
- Come l'abito della festa. Da indossare solo nei giorni liberi, quando conviene.
Questa non l'avevo mai sentita. Solo nei giorni di festa.
- Finisce che perdi l'abitudine - le rispondo - e quando infine indossi la tua personalità non ti senti piu a tuo agio.
- Sì, ammetto che possa succedere - dice.
- Quando decidi de essere te stesso finisce che sei un po' rigido, le scarpe ti fanno male, non ti ci trovi. Finisci per non farlo più e diventi nessuno.
- Forse.
- E che vantaggio ne avresti?
- La vita non fa più male. E neanche più paura.
Rimango senza parole, però mi piace il suo sedere morbido. Decido di fare un altro tentativo, forse sta solo mentendo.
- Non mi dici neanche il tuo nome?
- Perché vuoi sapere un nome falso? Scendi senza voltarti, non guardarmi e vattene.
- E tu?
- Io ti guarderò. Se mi piacerai, domani metterò una gonna rossa lunga e tu mi potrai portare a fare colazione in un caffè carino.
- Dove ti aspetto?
- In questo treno, su questa carrozza, a quest'ora. Domani.
- Se scendendo ti guardo?
- Mi perdi per sempre. Potresti non perdere nulla. Magari non ti piaccio.
- Ma se mi piaci...
Mi interrompe - Non guardare. Vattene guardando davanti a te.
Scendo a una stazione che non è nemmeno la mia guardando fisso la nuca di un tale mentre lei, ripartendo, esce dalla mia vita.