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Napoli, 26 novembre del 1968.
Dopo tre giorni tra la vita e la morte, col collo fratturato, potei fornire la mia versione dei fatti al commissario che accanto al letto dell’ospedale dov’ero stato ricoverato, mi ascoltava prendendo appunti. Dissi che l’avevo conosciuta al termine di una delle mie prime lezioni universitarie. Uscito dall’aula e incamminatomi per il corridoio, mentre aprivo la porta dell’istituto, udii una voce femminile che mi chiamava: “Professore, professore Giacinto.” Mi girai. Era giunonica, come piacciono a me. Alta quasi il doppio di me, imponente e bella. Aveva un seno fenomenale e coscie slanciate. Indossava un elegante cappotto ed una gonna di lana a quadroni, attillata da sopra le ginocchia. Era bella, bionda coi capelli raccolti in un toupèe. Gli occhi di un azzurro perlaceo. Avvicinandosi, con un timido sorriso disse: “Professore, sono una sua allieva. Darò l’esame spero, per giugno. Vorrei chiederle…” Aveva abbassato lo guardo vergognosa. Dissi: “Prego.” La sua mole gigantesca mi sovrastava: “Professore, beh, ecco…volevo chiederle se lei fosse disposto a darmi delle lezioni private di anatomia…pagando il disturbo naturalmente.” Una bella ragazza che avevo sperato da sempre di scopare, ma impossibile, vista la differenza di mole. Tranne il corso di lezioni agli studenti, non avevo altri impegni giornalieri. Non ero sposato e vivevo solo. Accettai. Disse che anche lei viveva sola, in una villa di Via Tasso. Undicenne, aveva perso entrambi i genitori. Mi offrii di accompagnarla a casa sua, dove nel pomeriggio le avrei impartito la prima lezione privata di anatomia. Usciti dalla facoltà, c’erano molti studenti che si assemblavano nel cortile, parlando di occupazione e di rivoluzione. Pranzammo dalla parti di Pozzuoli e poi andammo a casa sua. La ragazza sembrava disponibile ed in auto aveva messo in bella mostra le lunghe cosce. Entrati in casa, chiuse la massiccia porta con due mandati di chiave e mettendomi un braccio sulle spalle, m’invitò a salire nei piani superiori. Una vetrata da sopra l’architrave del portone dava luce. Sul ballatoio, disse tutta rossa, anche per il vino tracannato: “Professore, perché non ci riposiamo un poco sul mio letto?” La guardai, pieno di meraviglia. La cosa si metteva bene, oltre le aspettative. Cercai di allungarle la mano sulla faccia. Si fece accarezzare docile e mi sorrise ammiccando. La stanza da letto aveva la balconata che dava sull’antistante golfo. Andò a socchiudere le tende per fare poca luce. Nella penombra, la sua bellezza ambigua era più eccitante. Si spogliò in fretta. Nuda, era come la Venere del Giorgine. Mi spogliai anch’io. Stesa sul letto, disse: “Amore, Non cercare di fuggire. La porta è serrata e buttarsi dal balcone è un suicidio. Inutile è gridare: la villa è isolata dall’abitato.” Forse non avevo inteso bene. Accanto al letto chiesi timoroso: “Perché mi dici questo?” “Amore, tu sei il terzo che cade nella trappola. Se fai come ti dico, ne esci vivo.” Mi tremava la voce. Pensavo che scherzasse. Forse, era un poco strana. Vidi che sul tavolino tra il letto ed il balcone c’era il telefono. Chiesi con angoscia: “Altrimenti?” “Muori.” “Ma…amore.” Cercai di avvicinarmi al letto e di accarezzarla. Da sotto il cuscino, aveva estratto una pistola col silenziatore. Mi puntò l’arma contro il petto. Disse: “Fa come ti dico. Piazzati contro la porta da dove siamo entrati. Io mi girerò di spalle. Ogni tanto ti guarderò ed allora ti devi bloccare come una statua.” “Ma non capisco…” “Mi spiego, caro il mio professore…” Era davvero pazza, una pazza armata e di quella mole. Non ne sarei uscito vivo. Sul materasso e con la schiena sollevata dai cuscini, ma con la pistola che mi puntava, spiegò con calma: “Professore, c’è un tipo di ragno che rischia la vita pur di fottere una femmina del suo rango.” Mi ero piazzato in fondo, vicino alla porta, come mi ordinava. Cercai di farmi tenero: “Amore, scusa, che c’entra la scopata tra i ragni?” “C’è una specie di ragno dove la femmina è molto più grossa del maschio. Spesso, la femmina divora il maschio. Per questo, nell’accoppiamento, il ragno maschio si avvicina a lei con circospezione. Se fa un movimento sbagliato la femmina lo ammazza e se lo mangia. Se tutto va bene, l’accoppiamento riesce. Per evitare di essere aggredito e divorato, il ragno maschio si blocca ogni volta che la femmina si mette ad ispezionare l’ambiente circostante. A volte, il maschio resta immobile in posizioni strane: una zampa in alto…mi capisci amore?” Coi denti stretti, dissi di sì. Continuò a spiegare: “Se il ragno maschio riesce nelle sue manovre di avvicinamento, salterà addosso alla femmina, la scoperà e la feconderà. Capito? Dopo l’accoppiamento il ragno maschio s’allontana e si salva, senza correre altri rischi. Per cui, se mi salti addosso dalle spalle e me lo infili da dietro, il gioco è fatto e tu sei salvo.” Era pazza. Una pazza che poteva uccidermi da un momento all’altro. Non potevo che assecondarla. Dovevo fare come il minuscolo ragno maschio in avvicinamento sulla grossa e pericolosa femmina. Feci finta di stare al gioco. Non dovevo pensare ad altro che a scoparla. C’era il pericolo che il pene si afflosciasse per l’angoscia. Allora fissai le sue nudità, la sua schiena, il deretano e la fessura della vulva, nascosta dalla peluria. Si era girata in giù, ordinando: “Puoi cominciare a muoverti.” Timoroso feci qualche passo e mi bloccai. Dopo un poco, si girò puntandomi decisa la pistola contro. Stavo svenendo. Disse: “Bene, adesso mi rigiro.” Avanzai per altri due passi. Attesi un poco. Nella semiombra, sembrava una montagna di carne. La montagna si scrollò facendo cigolare le molle del letto. Eccola, decisa con l’arma contro di me. Mi sentivo il cuore in gola. Trattenei il fiato: “Bene, così. Hai i riflessi pronti. Hai anche un bel cazzo.” Cercai di schermirmi, ma non c’era da ridere. Dovevo restare immobile. Si rigirò. La montagna carnosa aveva assunto la solita posizione su quattro zampe. Sembrava un rinoceronte. Feci ancora un timido passetto. Si rigirò all’improvviso. Disse: “Coraggio. Ancora un passetto e mi puoi saltare addosso.” Mi sentivo mancare, ma dovevo resistere con l’asta del pene ben tesa. Al lato dal letto, mi decisi al grande salto. Abbrancandola ed accarezzandole il seno, stando in piedi sul materasso, visto che le sue cosce erano molto lunghe, glielo infilai dentro dal di dietro. La sentii grugnire come una scrofa, con la nuca sollevata. Disse: “Sì, amore. Così.” Si era rivoltata di scatto, facendomi cadere. Disse: Adesso, mi metto io sopra. Mi distesi sotto di lei, rassegnato. Si era accovacciata tutta su di me che quasi mi schiacciava. Cominciò a muoversi davanti ed indietro, strofinando l’umidiccia vulva sul pene. Cominciò ad urlare come una lupa. Era al culmine del piacere. Stavo raggiungendo l’orgasmo anch’io, eiaculando in lei. Fu allora che mi afferrò il collo con le potenti mani a tenaglia. Soffocavo. Disperato, avevo avviticchiato le braccia conto le sue. Mentre perdevo i sensi, avevo allargato le braccia, prive di forza. La mia mano destra fece cadere a terra la rivoltella sul comodino, affianco al letto. Partì un colpo che fulminò lei e salvò me. Mi era crollata addosso. Le sgusciai da sotto. Aveva un foro in un occhio e le lenzuola cominciavano a macchiarsi di sangue. Tossicchiando, arrivai fino al tavolo dove c’era un telefono. Feci il 113 e chiesi aiuto, dicendo che mi trovavo in Via Tasso, numero 13. Svenni. Il commissario di polizia chiuse il blocco notes, soddisfatto. Disse: “E’ come se avesse fatto tredici al totocalcio. Un unico tredici in tutta Italia. E’ salvo per miracolo.” Andando via aggiunse: “Stamattina, abbiamo trovato due cadaveri sepolti nel cortile di quella maledetta villa. Erano i poveretti che avevano fatto l’amore con quella pazza prima di lei.”
©
Giuseppe Costantino Budetta
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