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Vampiro
di Giuliano Giachino
Pubblicato su PB20


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Vampiro

"Ehi! Vampiro!".

Un'ombra furtiva. Una macchia indistinta, ancora più scura del buio che la circondava, sotto il porticato sconnesso. E sibilava, di una nota più acuta del vento gelato: "Ehi! Vampiro!".

Ero in piedi nel mezzo di un desolato cortile; davanti a me, una vecchia cascina cadente. Alle mie spalle, le orme si perdevano all'orizzonte in una doppia fila ondulata nella neve sporca che restituiva al cielo il suo colore livido. Gli occhi mi bruciavano, e non riuscivo a scorgere distintamente, con le palpebre incrostate dal gelo; sapevo solo che dall'ombra del porticato qualcuno mi stava chiamando, sussurrando.

Ero stanco. Chiunque fosse quell'ombra, mi avviai verso di lei.

* * *

Fu la litanìa del vento a svegliarmi, infilandosi tra le tavole sconnesse, assieme ad altri mille scricchiolii e lamenti. Faceva freddo e l'oscurità era profonda, ed io pensai che mi ero svegliato troppo presto, che la spossatezza era ancora troppo grande, e che forse non sarei riuscito a recuperare le forze prima dell'alba, quando me ne sarei dovuto andare.

"Puoi dormire qui, Vampiro. Ma vattene prima dell'alba. Prima dell'alba, ricordati!". Si era fermata sulla soglia, prima di andarsene, e l'ultima cosa che avevo visto alla luce della candela erano le sue rughe di vecchia, strisce nere e più chiare come le venature del legno della porta, alle sue spalle. Si era fermata un attimo e mi era parso che volesse aggiungere qualcosa, e le sue labbra non erano dure mentre diceva: "Vattene!". Ed io avevo pensato che stesse per dire: "Vampiro, grazie!".

Era così. Doveva essere così. Lo avevo sempre pensato (o sperato?), tutte le volte. Ma avevo freddo, e la coperta che mi aveva donato la vecchia non bastava a riscaldarmi. Cercai a tentoni di coprirmi meglio, e la mia mano urtò nel buio qualcosa di freddo e metallico che cigolò pietosamente: il casco amplificatore! Avrei potuto abbandonarlo lì, l'indomani: avevo ormai capito che non mi serviva. Aveva avuto ragione Strella, era uno strumento inutile, solamente l'appendice esteriore della mia mente. Tutto quello che ero capace di fare, potevo farlo con la concentrazione, la volontà, aiutandomi al massimo con le mani. Eppure, stringendolo nel pugno, attraverso le sue fibbie metalliche ancora mi giungeva, attenuata ma pulsante, l'eco del dolore e della disperazione che avevo provato poche ore prima.

Mi addormentai lentamente di un sonno convulso e delirante, mentre, in un altro punto della casa, l'uomo a cui avevo succhiato il dolore riposava tranquillo, almeno per un poco.

* * *

Ero partito a piedi da Amsdel sette cicli prima, senza sapere dove andare e con il marchio del Vampiro sulla fronte. Mi ero diretto a Sud semplicemente perché si diceva che a Sud vi fossero ancora luoghi dove non cadeva la neve, e dove talvolta si poteva scorgere il sole. Me lo aveva anche gridato dietro sghignazzando Rikim, il Terzo Originario di Amsdel, mentre io oltrepassavo con precauzione la barriera di rottami taglienti, per uscire dalla Cittadella: "Vai, Vampiro! Vai in giro per il mondo in cerca del sole, se vuoi! E divertiti! Vai a Sud! Mischiati con quelli che sono ancora più diversi di te! Tornerai indietro, dagli Originari, e ci implorerai di tornare ad essere nostro schiavo!".

Ma davanti a me c'era solo più la neve ed il vento, e la sua voce mi giungeva ormai attutita, alle mie spalle, attraverso la catasta metallica arrugginita che avevo oltrepassato lentamente seguendo passaggi e cunicoli tortuosi.

Mi ero incamminato così nell'immensa pianura bianca, allontanandomi dalla Cittadella, da quello che era stato sino ad allora il mio mondo, ed era appena l'inizio del ciclo più freddo, e non sapevo assolutamente dove andare.

* * *

Per parecchi giorni non incontrai nessuno. Davanti a me, solo neve e vento.

Il mondo mi pareva veramente deserto ad abbandonato dagli uomini, e la paura cominciava a farsi strada dentro di me, mentre consumavo con parsimonia le misere provviste che mi era stato consentito portare via, lasciando Amsdel. Avevo oltrepassato lande desolate, valicato colline coperte di neve e di muschio, attraversato larghi fiumi ricoperti di ghiaccio, nelle spaccature del quale si intravedevano le acque turbinanti; avevo scorto talvolta il movimento furtivo di qualche animale, che la pelliccia bianca e grigia mimetizzava con il paesaggio, ed una notte avevo udito, portato dal vento, un ululato lontano. Ma non avevo trovato tracce di vita umana.

Fu quindi quasi con sorpresa che una sera, dopo che avevo già estratto il sacco a pelo dallo zaino per prepararmi ad un altro gelido sonno, scorsi la fioca luce di un fuoco, in lontananza, mentre già le ombre della notte si andavano infittendo.

Mi avvicinai alla sorgente di luce, adagio, furtivamente: volevo assicurarmi con chi avessi a che fare, prima di mostrarmi apertamente. In fondo, era quella la prima volta che incontravo dei diversi, dei mutati, se si eccettuavano le rare occasioni in cui alcuni di essi erano stati introdotti dagli Originari nella loro Cittadella, generalmente come ribelli prigionieri destinati a punizioni crudeli.

Il fuoco era quello di un bivacco, e accanto ad esso sedevano due uomini; nella penombra, al lato opposto del cerchio di luce, si disegnava la sagoma di un carro di legno, e più in là ancora, nell'oscurità fitta, mi pareva di scorgere un movimento ritmico e silenzioso: dei cavalli. L'uomo che sedeva di fronte a me, dall'altra parte del fuoco, non poteva vedermi perché rimanevo nel buio, e perché aveva le fiamme davanti al viso, ed esse danzavano davanti a lui dandogli un aspetto sinistro. Quando si mosse per prendere un ramo, posato per terra accanto a sé, e gettarlo nel fuoco, potei scorgere le membrane verdastre che univano tra di loro le dita delle sue mani.

L'altro uomo mi voltava le spalle, ed appariva particolarmente piccolo e basso: vedevo la sua schiena curva e nera davanti a me, e c'era qualcosa di assurdo nel suo aspetto, nel modo in cui era seduto sul terreno. Doveva essere molto vecchio. Mi ero avvicinato al punto di udire il fuoco scoppiettare, e delle brevi ondate di calore giungevano sino a me, portate dal vento.

Avevo molto freddo, ma non osavo avvicinarmi. Passò così un tempo che mi parve lunghissimo. Ad un tratto, improvvisamente, l'uomo vecchio parlò senza voltarsi, e la sua voce emanava una calma infinita: "Vieni avanti, Vampiro, non ti faremo del male".

* * * 

I cavalli correvano sotto le frustate di Khar, e le frustate erano uno schiocco ritmico che spezzava il monotono rullìo del carro, ed il viso di Khar era quello di un bambino crudele.

La stessa espressione della prima notte, quando, alla voce di Semil, era balzato in piedi guardandosi intorno e domandando con odio: "Chi é? Dove si trova?". Lo stesso sguardo freddo che mi aveva incontrato, ai limiti della luce, quando Semil aveva risposto senza voltarsi: "Dietro di me. E' disarmato. Lo prendiamo con noi".

Ed ora il carro correva nella distesa gelata e Semil si riposava al suo interno, al riparo dal vento, ed io ero con loro. Passavano i giorni, e percorrevamo tundre e pianure circondate da foreste di pini innevati e silenziosi, accampandoci alla sera in qualche radura, e riprendendo il cammino la mattina successiva, per visitare gli sparuti villaggi, le cascine isolate, gli accampamenti di nomadi sparsi nel silenzio, e barattare utensili, vendere spezie e radici, scambiare pelli ed arnesi d'osso intagliato, in brevi ore di confusione e di grida, per poi rimetterci in viaggio.

Ed ove era il dolore, io lo succhiavo. Ove qualcuno soffriva e moriva, io lenivo per pochi momenti le sofferenze e le prendevo per me, caricandomi come sotto un fardello di tutto il dolore del mondo. Era il mio marchio, l'unica cosa che sapessi fare, e che avevo sempre fatto, dapprima come schiavo, presso i Signori Originari, ed ora libero, in mezzo ai reietti. Ed io ero uno di loro, ed il loro dolore mi sembrava più vero, più mio, non come un'imposizione, un peso, un insulto, ma come un dono sublime e terribile. Io ero uno di loro, benché non avessi le mani palmate, od un colore abnorme della pelle, o delle ventose nelle mani e nei piedi; il mio aspetto era quello originario, pelle bianca, mani e piedi con cinque dita, un naso, un volto, una lingua: ma il potere di far mia la sofferenza altrui rappresentava una diversità ben più profonda e lacerante.

Alla sera, aiutavo Khar a preparare il bivacco, e mi alternavo con lui nei turni di veglia notturni, mentre Semil, povero vecchio corpo incompleto e sublime, dormiva.

Semil si svegliava assai presto, allo spuntare dell'alba; guardava il cielo e pronunciava poche parole, in cui era scritta la nostra giornata ed il nostro destino: una tormenta, un guado pericoloso, un baratto favorevole, un contratto lucroso. Altre volte, dopo essere rimasto a lungo in meditazione, dava un ordine secco con la sua voce roca, e Khar mutava percorso e destinazione, ed il villaggio a cui eravamo diretti veniva tagliato fuori dal nostro cammino. L'aria di mistero che circondava quest'uomo, che doveva essere, almeno apparentemente, vecchissimo, mi turbava ed affascinava assieme; e viceversa mi pareva che egli mostrasse, in qualche modo, una certa predilezione per me, sin dal momento in cui mi aveva voluto con loro, quella notte, senza motivo.

I cavalli correvano sotto le frustate di Khar.

* * *

Ad un richiamo di Semil, Khar trattenne i cavalli ed il carro si arrestò rumorosamente in una radura, tra gli alberi, mentre la luce del giorno andava ormai declinando tra i rami. Khar scese e legò i cavalli, in silenzio. Poi accatastò alcuni pezzi di legno al centro della radura e stese per terra attorno ad essi alcune coperte, ed io lo aiutai.

Poi, mentre lui accendeva il fuoco, trasportai Semil giù dal carro, posandolo sul terreno, vicino al calore ed al fumo che cominciavano a levarsi. C'era un grande silenzio.

Le prime fiamme scoppiettarono, ed i riflessi rossastri davano alla figura di Semil, al suo piccolo corpo privo di arti inferiori, l'aspetto di uno spirito dei boschi, di uno gnomo. Consumammo il nostro pasto frugale, mentre l'oscurità si faceva più fitta. Alla fine, Semil si rivolse a me, e disse: "Io ti incuto timore, Vampiro. O forse é per il mio aspetto deforme". E dopo un attimo: "E pensare che dovrei essere io ad avere timore di te!".

Il silenzio della notte era rotto dal sibilare di qualche folata di vento improvvisa. Non sapevo cosa rispondere, perché non avevo afferrato tutto il senso delle sue parole. Come sempre, lui lo seppe immediatamente: "Sento che non hai compreso: ma é naturale, é troppo presto. Comprenderai più avanti, quando saranno accadute molte altre cose, e sarai solo".

Khar si intromise bruscamente nel discorso, e la sua voce gracchiante ed ostile fu come lo schiantarsi di una tavola di legno secco nella morsa del fuoco: "Neppure io capisco, Semil. Questo uomo ci é ignoto, é un servo dei Signori, non é abile in alcun lavoro manuale. E' un peso. Perché lo abbiamo preso con noi?".

Nella voce di Semil c'era la rassegnazione di chi sa che le proprie parole non potranno essere comprese: "Non lo so esattamente, Khar. Tu sai che le mie sono sensazioni, intuizioni, più che visioni vere e proprie. Ho sentito che quest'uomo é diverso dagli altri Vampiri come lui, che é importante, e che non dovevo lasciarlo morire assiderato nella pianura. E' importante per tutti, per il mondo intiero, e......... per me, per il vecchio Semil dalle visioni premonitrici. Io vedo in lui un dono per me, un dono di pace e di riposo. Ed io sono molto vecchio e stanco, ed ho bisogno di queste cose".

Khar sputò con rabbia nel fuoco, e lo attizzò nervosamente con un lungo ramo attorno al quale la sua mano palmata si avvinghiò come una guaina senza forma: "Te l'ho già detto. E' un servo dei Signori. Guarda il marchio che gli hanno lasciato sulla fronte!".

Semil scosse la testa e rispose, guardandomi: "Lo é stato. Ma non lo é più. Quando era un servo dei Signori non aveva mai visto il mondo, e non lo conosceva. E' venuto via, ed ora é qui. E' uno dei nostri, Ezra Khar. Anche lui é un mutato, un uomo nuovo. Le tue mani palmate, Khar, i moncherini delle mie gambe, la mia capacità di intravedere il futuro, il suo potere di succhiare il dolore altrui, che gli ha guadagnato il nome di Vampiro, sono i marchi di questa differenza, che paghiamo con la schiavitù. Ma essi non sono una menomazione, sono in realtà un dono......... Il mondo non sarà sempre così.......... Gli Originari hanno il potere, ma la loro razza é rimasta indietro. Il domani é di quelli come noi. E quest'uomo é importante per questo".

Io non avevo ancora parlato, ma le parole del vecchio mi turbarono, ed aprii la bocca per dire qualcosa: era la prima volta nella mia vita che qualcuno mi manifestava interesse ed amicizia. Ma un gesto del vecchio mi trattenne: "No, non parlare, Vampiro. Il tuo dono per me é sublime, ma terribile, e tu non lo conosci ancora. Ti chiedo questo: non dimenticarmi, e tieni in serbo il tuo dono anche per altri, dopo di me. Ed ora, addio. L'alba non é lontana. Dormiamo".

Dormimmo, ed io sognai.

* * *

Ero nuovamente ad Amsdel, e volevo lasciarla per vedere il mondo.

Le cupe torri rossicce della Cittadella mi circondavano levandosi verso il cielo grigio come le dita adunche di una mano ossuta. Ed io ero nel palmo di questa mano.

La piazza era silenziosa e lungo il suo perimetro le sagome scure degli Originari mi circondavano mute, avvolte nei loro mantelli, mentre il vento gelato mi frustava la faccia. Una voce aspra dal nulla: "Afferma di aver perduto i propri poteri, di non saper più succhiare il dolore. Avete verificato se mente?". Un'altra voce, meno arrogante: "Abbiamo verificato, Signore. Lo abbiamo sottoposto alla tortura, senza esito. Non mente. E se anche mentisse, ciò significa che é dotato di un grado di sopportazione e di volontà che lo rende inutile per noi. O non può, o non vuole. Ma a questo punto non fa differenza".

Bruciore di ferite e di umiliazioni, ed odio nel mio cuore: tutto questo mi riportava il sogno, ed io lo vivevo per una seconda volta. Dal fondo della piazza, ancora la voce aspra di una figura immobile, ed una domanda: "La morte o il bando?". Dalle mie spalle, la risposta: "Il bando, mio Signore, ma dopo quaranta frustate. Questo Vampiro mi appartiene, e proverò piacere a salutarlo......... a mio modo!".

Dolore urente che piove sulla mia schiena e sul mio corpo, ed odio sempre più grande che cresce nel mio cuore: e ad un tratto il sogno cominciò a deformarsi, le figure a farsi annebbiate ed indistinte, ed io ebbi la certezza di trovarmi in realtà nel carro di Semil e Khar, e di dibattermi per svegliarmi, gridando.

Gridai, e gridai, e mi parve che il dolore che provavo, che avevo provato, uscisse improvvisamente da me e si spandesse tutto intorno come un'ondata di marea, lasciandomi sveglio, cosciente, perfettamente vigile ed all'erta. Il carro era fiocamente illuminato da una lampada ad olio, ed il suo raggio rischiarava direttamente il viso di Semil, coricato accanto a me, che sorrideva stranamente nel sonno. Non avevo mai visto il suo viso così disteso, così sereno: quella era l'espressione di pace e di sogno che aveva egli stesso evocata la sera prima, parlando del mio dono per lui.

Lo toccai meccanicamente: era freddo. Fuori dal carro, sentivo già Khar, svegliato dalle mie grida, che arrancava nel buio, per accorrere.

Ebbi paura: sgattaiolai fuori dall'estremità opposta del carro e fuggii nella notte. Dentro di me provavo la certezza, gelida ed inattaccabile, di essere stato io ad uccidere il vecchio. 

* * *

Ero partito da Amsdel da circa tre cicli, quando venni travolto dalla slavina.

Era una mattina di un freddo intensissimo, e stranamente luminosa. Luminosa nel senso che un bagliore bianco filtrava da ogni direzione attraverso le nubi più sottili del solito, e benché, come sempre, il sole non fosse visibile, un riverbero accecante inondava ogni cosa. Mi trovavo sull'orlo di una specie di grandioso gradino naturale, e circa duecento metri sotto di me si stendeva all'infinito la pianura chiazzata di neve e di terra scura, e cosparsa di radi alberi, in lontananza. La luce che mi accecava e che mi feriva gli occhi arrossati fece si che valutassi male la pendenza, mentre cominciavo a scendere lungo il ripido pendio, verso la pianura.

Ben presto mi accorsi che il declivio andava trasformandosi rapidamente in un canalone innevato troppo verticale per essere percorso, e tentai di risalire, ma mi fu impossibile: la neve si staccava intorno a me ad ogni mio passo, precipitando a valle in piccoli rivoli che si ingrossavano sempre più. Tentai di tagliare il pendio diagonalmente, e fu il mio errore. Con un rumore sordo, una spaccatura nera orizzontale apparve nella neve, cinque o sei metri sopra di me, ed il terreno mi mancò sotto i piedi. Cominciai a precipitare. Non so dire quanto durasse la mia caduta. Minuti, secondi, od ore? So che lottai con tutte le mie forze, dapprima in superficie, poi affondando sempre di più nella marea bianca in movimento, finché sentii come se le mie membra venissero sottoposte a trazioni spaventose in tutte le direzioni, e sprofondai in un fragore assordante e nel buio, perdendo i sensi.

Quando rinvenni, ero sepolto nella neve. Io ero il gelo, ed il gelo era me. Le uniche cose vive in me erano il cuore, che batteva all'impazzata, ed il cervello. Tentai di muovermi, ma non potei. Respiravo a fatica, grazie ad una piccola nicchia che il mio fiato aveva scavato nella neve, davanti alla mia bocca. Rimasi a lungo in questa assoluta impotenza; poi, quando le speranze e le forze stavano per venirmi definitivamente meno, percepii un sottile raspare sopra di me, sempre più forte, affannoso e vicino. Alla fine la neve venne scossa via dal mio volto, ed una mano afferrò la mia.

Gelo, dolore, ed ancora gelo.

E subito un grido: "Non ci vedo! Sono cieco!".

"Si, non vedi. Il ghiaccio ti ha congelato gli occhi".

"Non ci vedo!".

"Non ci vedi ora, ma fra qualche giorno tornerai a vedere. Non sono gravemente lesi: vedrai di nuovo, presto".

"Vedrò di nuovo? Vedrò di nuovo?".

"Si, Vampiro, vedrai di nuovo. Stai calmo ora, e bevi. Poi ti aiuterò a salire sul mio carro. Per fortuna non hai nulla di rotto, ma ora devi riposare".

Un liquido forte e bollente che viene spinto quasi a forza tra le mie labbra e che mi ridona lentamente vita e speranza. Ed ancora quella voce: "Va meglio, ora?".

Una voce femminile! Una donna!: "Tu sei una donna! Chi sei? Come ti chiami?".

"Sono una donna del ghiaccio. Una cacciatrice. Non ne hai mai sentito parlare? Devi venire da molto lontano, Vampiro. Mi chiamo Strella. Ero in fondo alla pianura, andavo a vendere le pelli di Scur al mercato dei Villaggi Occidentali. Ti ho visto lassù in cima al pendio, mentre cominciavi quella pazza discesa. Ti ho visto cadere sotto la slavina. Sei stato doppiamente fortunato, Vampiro. A non morire subito, e poi a trovare me sulla tua strada. Adesso vieni, ti guiderò. Andiamo".

Al primo passo un dolore lancinante ad una gamba. Delle mani mi sorreggono e la voce acquista un'ombra di ironia, o di amarezza: "Questa volta soffri per te stesso, Vampiro. Non c'é nessun altro a prendersi il tuo dolore per sé".

Così cominciò il mio viaggio con Strella.

* * *

La voce di Strella era calda, e un po' roca. Le sue mani forti. La sua personalità decisa, ma dolce. Nei primi giorni restai completamente cieco, ed essa si prese cura di me, guidandomi, incoraggiandomi, descrivendomi ciò che ci circondava. Non mi chiese nulla di me. Guidava il carro, che mi disse trainato da due cavalli nani, mentre io rimanevo al suo interno, al riparo. Ero ancora troppo debole.

Durante il giorno, lei partiva per la caccia allo Scur, e restava via per molte ore di seguito, e quando tornava la sentivo scaricare il suo fardello sul fondo del carro, commentando i risultati della sua fatica. Doveva essere abile, perché raramente ritornava a mani vuote. Il terzo giorno, udii i passi di Strella, che era tornata prima del solito. Il suo respiro era affannoso. La sentii venire vicino a me ed afferrarmi una mano, quasi con rudezza: "Vampiro, ora tocca a te. Prendi il mio dolore. Sono ferita".

La sua mano era già nelle mie, ed attraverso ad esse il dolore aveva già cominciato a fluire verso la mia mente. Il suo dolore divenne il mio. Sentii su di me le fitte lancinanti del suo braccio ed il bruciore urente della sua ferita. Contai uno per uno i fori lasciati nella sua carne dai denti dello Scur morente, che divennero miei, come se a me fossero stati inferti. Sentii la sua mano rilassarsi tra le mie: "Grazie, sto meglio. Come vanno i tuoi occhi, Vampiro?".

"Comincio a scorgere qualche ombra. Sto migliorando, lentamente".

"Vampiro, da dove vieni?".

"Dal Nord. Da Amsdel".

Una vibrazione di odio nella sua voce: "Da Amsdel? Sei un servo degli Originari, allora. Non sei libero. Perché ti hanno lasciato andare?".

"Mi é costato molto venire via, Strella. Ho dovuto fingere di aver perduto i miei poteri. Ho rischiato molto, mi hanno sottoposto ad ogni sorta di prova, hanno cercato di cogliermi in fallo in ogni modo, ma sono riuscito ad ingannarli. Ero ormai inutile per loro, e mi hanno lasciato andare".

"Sei stato coraggioso. Ma se le cose stanno così, ora sei doppiamente in pericolo. Ti si legge in fronte, per via del marchio, che sei un Vampiro, e servirà a poco cambiare gli abiti che hai addosso. Dovrai nascondere la tua natura. Stiamo per giungere ai Villaggi Occidentali, ed é facile che vi si trovino emissari degli Originari".

Una pausa. Poi, su di un tono più basso: "Mi dispiacerebbe che ti uccidessero, o ti riportassero ad Amsdel".

Alla cieca, la cercai, e la mia mano trovò il suo viso, ma lei si ritrasse bruscamente, come impaurita. Allora, io non ne capii il perché.

* * *

Il quinto giorno mi svegliai con la luce che penetrava attraverso l'apertura del tendone del carro, e feriva i miei occhi, ed io ci vedevo.

Strella era seduta sul bordo del carro, al centro del semicerchio luminoso, e mi voltava le spalle, armeggiando con qualcosa all'esterno, ed io la vedevo per la prima volta.

Era bella. I capelli neri e lunghi ricadevano sulle spalle di una figura eretta, forte ma snella. Restai a guardarla a lungo, in silenzio; poi allungai una mano fuori dal mio sacco a pelo e la presi per un braccio.

Lei girò di scatto la testa verso di me, in silenzio, ed io la ebbi di fronte, ma senza poterne ancora scorgere il viso, perché la luce alle sue spalle creava su di lei una zona di oscurità.

Un soffio: "Tu ci vedi ora, Vampiro. Ed i tuoi occhi sono umidi per lo sforzo. Tu puoi piangere. Anch'io desidererei piangere, talvolta".

La mia mano salì verso di lei e le mie dita sentirono di posarsi su di un viso dolcissimo, su labbra tremanti e tiepide, su guance lisce e rese bollenti dal gelo, e poi più su, sopra due incavi lisci dove la pelle sottile si continuava direttamente dagli zigomi alla fronte, sotto due lievi sopracciglia che non circondavano nulla.

Fu così, stringendola con forza a me, che conobbi le donne dei ghiacci, le donne cacciatrici, che vedono senza occhi e che dagli Originari vengono chiamate sprezzantemente "Pipistrelle".

* * *

Le nubi si erano aperte e, per la prima volta, vedevo il sole.

Stavo con il viso rivoltò all'insù e, costretto dalla luce a chiudere gli occhi, lasciavo che la luminosità filtrasse attraverso le fessure tra le palpebre, beandomi dell'alone dorato che essa creava nel mio cervello. Strella era accanto a me, e sotto di noi il pendio declinava in una distesa di neve costellata da minutissimi diamanti di gelo, che baluginavano e mutavano posizione ad ogni mio più lieve movimento.

"Ti piace il sole, Vampiro?".

Non risposi, e lei continuò: "Io lo sento come una sfera d'energia, di calore intensissimo. Come lo vedi tu........., con gli occhi?".

"Come qualcosa di meraviglioso, di grande, di cui non si può sostenere la vista".

Strella annuì, rimettendosi in cammino: "Si. Dev'essere così.......".

Feci pochi passi dietro di lei, ma inciampai in una radice, e, barcollando per mantenermi in equilibrio, lasciai cadere lo zaino, che si aprì spargendo il suo contenuto sulla neve. Sotto il sole, luccicavano le fibbie metalliche del casco amplificatore. Strella rise di una risata argentina come il ghiaccio, vedendomi affannato nel tentativo di recuperarlo e riporlo nello zaino: "A che ti serve? Gettalo via!".

Rimasi perplesso: "L'amplificatore....... mi serve per il mio lavoro. Per succhiare il dolore altrui. Amplifica le sensazioni, le rende percepibili più facilmente".

Strella tornò indietro di alcuni passi e mi si avvicinò, posandomi una mano sulla spalla, e sorrise: "Vampiro! Sei anche superstizioso! Gli Originari ti hanno fatto credere che quel casco metallico posto sul capo possa esaltare la tua sensibilità. Ma non é così. La sensibilità è nella tua mente, e soltanto lì. Come la mia capacità di vedere senza occhi. Quando lo Scur mi ha morso, hai ben succhiato il mio dolore senza l'aiuto di quell'apparecchio. Abbi più fiducia in te stesso".

Il sole splendeva, e Strella mi precedeva lungo un sentiero di ghiaccio scintillante. Io la seguivo, e cominciavo ad amarla.

* * *

Il villaggio era caldo ed animato, ed il fuoco - un grosso falò - ardeva nello spiazzo tra le misere case. Per la prima volta dall'inizio del mio viaggio non sentivo il morso del freddo, ed il mio animo era sereno, e sedevo vicino al fuoco assieme a Strella e la luce della fiamma illuminava il suo volto in mille giuochi di luci e di ombre. Pareva quasi, in quel momento, che avesse due occhi grandi, scuri e profondissimi.

Al calore del fuoco si aggiungeva quello del Kir, che ci era stato offerto in piccole ciotole rotonde, e che saliva dolce dall'interno, mentre tutt'intorno figure confuse danzavano e cantavano.

Un uomo ed una donna mi sfiorarono nella danza, passando vicino a me. Lei aveva la pelle di un verde pallido, che si notava solo quando si allontanava dal riverbero, e le dava, per quanto fosse giovane e bellissima, un aspetto spettrale; lui aveva gli occhi rossi, non solamente nell'iride, ma anche nelle sclere.

"E' la festa di fine inverno. Stanotte in ogni villaggio si canta e si balla sino all'alba. Non che l'estate sarà molto meno fredda, ma parte della neve si scioglierà e riusciranno a coltivare qualcosa, ed a viverne. Se gli Originari non glielo porteranno via".

Sapevo che ciò che Strella stava dicendo era vero, ma ne volevo una conferma: "Dici che gli Originari potrebbero impadronirsi dei beni di questa gente?".

Strella mi guardò, con quella incredibile vista senza sguardo, ma anche così nella sua espressione vi fu un velo di tristezza, o di ira repressa: "Circa ogni due cicli i loro emissari fanno il giro dei villaggi e razziano tutto ciò che trovano. Impongono balzelli. E uccidono chi non li rispetta".

"E costoro non si difendono?".

"Non hanno i mezzi per farlo. Sono sparsi, troppo occupati a sopravvivere per organizzarsi. E poi gli Originari, tu lo sai bene, posseggono le armi, le armi antiche, di cui sono i soli a conservare il segreto".

Era vero. Mi ricordavo di altre notti, ad Amsdel, quando avevo visto gli Originari uccidere dei prigionieri con la fiamma che uccide di lontano. Uomini e donne portati là dai villaggi della pianura, come quello dove mi trovavo, colpevoli di non avere pagato il loro tributo, ma soprattutto colpevoli di essere diversi, di avere la pelle di un colore insolito, o un numero diverso di dita nelle mani o nei piedi, colpevoli di non adeguarsi al modello Originario, lo stesso che aveva portato il mondo alla miseria in cui si trovava.

"Una volta non era così, affermano le leggende", dissi attizzando il fuoco davanti a me. "La storia, non le leggende", ribatté Strella con forza: "Il mondo non è stato sempre così. Esistono le prove di questo. Basta cercarle, e se ne trovano più di quante tu possa immaginare".

Il mio sguardo interrogativo la spinse a continuare: "Certe volte, nelle estati un po' meno fredde, il ghiaccio si spacca e nella pianura si aprono profondi crepacci. Coraggiosi che si sono avventurati al loro interno hanno potuto talvolta scorgere i resti di quel mondo passato: rovine di edifici imponenti, macchine e congegni metallici, resti di larghe strade. Tutto ciò è ancora sotto di noi, sepolto sotto parecchi metri di ghiaccio e di neve".

"Le leggende dicono che vi fu un cambiamento del clima, dopo una guerra disastrosa".

"Si, - rispose Strella, e questa volta c'era l'odio nella sua voce - una guerra voluta e combattuta tra di loro dagli Originari, che allora erano gli unici abitanti della Terra. E da quella guerra siamo nati noi, i diversi, ed abbiamo avuto in eredità questo mondo ostile".

Le fiamme del fuoco si stavano ormai spegnendo, e l'oscurità avanzava di nuovo. Strella ed io ci guardavamo in silenzio, ed il freddo aveva ricominciato a farsi sentire.

 * * * 

Me li trovai di fronte all'improvviso, in una chiara mattina, mentre ero alla guida del carro ed aggiravo una bassa collina a Sud dell'ultimo villaggio. Alti, sprezzanti, in groppa a due veri cavalli: due uomini veri, due Originari.

"Vampiro, tu vieni con noi. Svelto, scendi dal carro".

La voce era di chi é abituato a comandare ed a farsi servire, il tono non ammetteva replica, ed io rimanevo fermo con le briglie in mano, pensando a Strella ancora addormentata all'interno del carro ed al nostro viaggio comune, che stava per finire così presto. Non avevo ancora fatto un gesto, quando una frustata mi colpì in pieno viso. Semplicemente, senza un lamento, scesi dal carro e mi avvicinai, sperando che non si accorgessero di Strella e, portandomi via, abbandonassero il carro al suo destino; uno dei due scese a sua volta da cavallo e cominciò a legarmi i polsi tra di loro con una corda che terminava attorno al pomo della sella, dicendo: "Sei stato notato, l'altra sera, vicino al fuoco. Avevi un bel nascondere il tuo marchio sotto il berretto. Abbiamo cento occhi, e ti abbiamo seguito. Dove credevi di andare, Vampiro? Il tuo destino è quello di renderti utile ai tuoi padroni, succhiando il loro dolore, non quello di questi miserabili semiumani come te!".

Vidi la freccia scagliata da Strella già conficcata nella sua gola, mentre lui cadeva davanti a me, in silenzio. Nello stesso istante una luce bianca partiva dall'arma che il secondo aveva estratta, e Strella rotolava giù dal carro nella neve, rimanendo immobile. In un attimo, tutto era già finito. Come in un sogno, vidi l'uomo scendere a sua volta da cavallo, imprecando: "Maledetta Pipistrella!".

Non ho un'esatta percezione di cosa accadde in seguito. So solo che dovetti rimanere immobile per un certo numero di secondi, senza rendermi conto di quanto stava accadendo: ricordo infatti l'immagine dell'uomo davanti a me, e dei rumori confusi che dovevano essere le sue grida di furore, ed un dolore lancinante alla tempia, e penso che dovette in qualche modo colpirmi per sfogare la sua ira. So solo che una disperazione immensa crebbe dentro di me e si trasformò ben presto in un'ira impotente che ribolliva come una marea, e non era più possibile trattenere. Qualcosa di molto simile a ciò che avevo già provato in sogno, nel carro di Khar, la notte in cui morì il vecchio Semil, solo immensamente più grande, più potente, più lacerante.

Mi riscossi perché strattonato attraverso la corda dall'uomo, che era risalito a cavallo e mi stava trascinando via. Ed in quel momento il dolore racchiuso nel mio essere uscì da me liberamente, come un fiume, come un lampo, come una folgore che scarica in un attimo tutta l'energia accumulata nel tempo, seminando la distruzione al suo passaggio.

L'uomo si volse a dall'alto a guardarmi, e sul suo viso erano scolpiti i segni di un dolore fisico intollerabile e, assieme ad esso, un muto interrogativo; poi, semplicemente, precipitò rigido giù dal cavallo con la faccia nella neve.

Il cavallo fece due o tre passi come per fuggire, e si accasciò anch'esso; dietro di me, l'altro cavallo ed i due animali nani del nostro carro erano già a terra. Come mi resi conto in seguito, ogni forma di vita animale si era spenta attorno a me nel raggio di centinaia di metri.

Solo Strella respirava ancora, pur non potendo più parlare. La strinsi a me, e succhiai il suo dolore, per ore ed ore, goccia dopo goccia, istante dopo istante, finché non ne vidi il fondo, e in fondo c'era solo più silenzio, e buio, ed un freddo invincibile.

Dopo, mi parve di scorgere l'ombra di un sorriso nel bianco del suo volto.

* * *

Dopo la morte di Strella, vagai senza meta per alcuni giorni, senza mangiare, quasi senza dormire. Probabilmente non camminai in linea retta, ma dovetti compiere una serie di cerchi concentrici, perché mi parve di passare più volte negli stessi luoghi, e due volte mi imbattei nel cadavere di uno Scur, immobile nella neve e senza segni di ferite. Non mi rimane, di quei giorni, un'esatta nozione del tempo trascorso; i miei ricordi sono un susseguirsi di immagini sfuocate e confuse, una serie interminabile di visioni rese ondeggianti dai miei passi malfermi: neve e ghiaccio, e la foresta, e poi ancora neve e freddo e solitudine. Mi nutrii di bacche selvatiche e bevvi l'acqua ghiacciata che scorreva sotto la crosta di ruscelli gelati in superficie, e dormii all'addiaccio in notti piene di silenzio e di buio.

E pensai. Pensai al mondo com'è, semidesertico, freddo, nemico ed ostile, ed a come le leggende narrano sia stato, fertile, popoloso, ospitale, illuminato dal sole.

Cercai di immaginarmi la catastrofe che dovette mutarlo, due o tre secoli or sono, senza riuscirvi: solo gli Originari, i non-mutati, i Signori, ricordano ciò che accadde, e forse neppure loro. Il timore, la paura che essi mi avevano sempre ispirati si sciolsero pian piano dentro di me, lasciando posto ad una consapevolezza e ad una determinazione lucide e dure come il ghiaccio che andava incrostando i miei gambali e le mie vesti, e che mi stringeva come una morsa dolorosa.

Io ne avevo ucciso uno! Senza armi, senza la fiamma che uccide da lontano, senza neppure un arco ed una freccia, ma solo con la mia disperazione, il mio dolore e la mia volontà. Li vidi allora sotto un aspetto diverso da quello sotto cui mi erano sempre apparsi: non più potenti, non più Signori, non più modelli della perfezione umana, ma come bambini che si trastullano stolidamente con i cocci dei giocattoli da loro stessi distrutti, con i rimasugli di una scienza ormai sterile perché da essi stessi in gran parte dimenticata, forti solo del loro sconfinato orgoglio e dell'errata convinzione di essere superiori. Vidi quanto fragile ed ingiusto fosse il loro dominio, e sognai.

Sognai di un Vampiro lacero ed affamato, che ritorna lentamente e faticosamente da dove è partito, e che umilmente si prostra ai piedi dei suoi Signori, implorandoli di riprenderlo con loro, nel solo luogo della Terra ove valga la pena di vivere, ove il vento é meno intenso ed il freddo meno feroce, ove gli esseri umani non sono deformi, strani, diversi, mutati, ma perfetti, come nel lontano passato. Sognai, ed udii nella mia mente le risa di scherno, i lazzi; sentii il dolore urente delle frustate, colsi nei loro occhi l'orgoglio e la condiscendenza.

Ma poi vidi l'uomo così percosso e deriso rizzarsi improvvisamente in mezzo a loro con lo sguardo pieno di ghiaccio e di odio. Sentii il dolore che egli aveva raccolto in sé giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, spasimo dopo spasimo, riversarsi all'esterno, attorno a lui, seminando la morte. Perché i suoi poteri andavano al di là del poter far proprio il dolore altrui, ma comprendevano la capacità, come quella di una molla troppo a lungo compressa, di restituirlo. Così avevo ucciso anche Semil, involontariamente.

Sognai tutto questo, mentre vagavo senza meta e senza speranza.

E sognai anche di un mondo miserabile, oppresso, che si rimetteva faticosamente in cammino.

Stava per cadere la sera, e senza rendermene conto, ero giunto barcollando in un vecchio e desolato cortile. Davanti a me, un porticato oscuro ed una cascina cadente.

Dall'ombra, una voce mi stava chiamando, sussurrando.

* * *

Il vento é cessato, e tra le assi della cascina comincia a filtrare della luce. E' l'alba, e me ne devo andare.

Sotto la vecchia coperta si é raccolto un po' di calore e sarebbe dolce rimanere, coricato in un angolo, nella penombra, senza soffrire.

Ma questa volta é diverso. Non é un risveglio come gli altri, con un po' più di dolore e di morte addosso, e davanti un peregrinare senza meta, senza scopo, affamato di dolore per un tozzo di pane. Questa volta la strada è quella del ritorno, verso Nord, verso Amsdel, verso la Cittadella degli Originari, i perfetti, gli integri, i Signori.

Il viaggio sarà nuovamente lungo e faticoso, ma lo compierò. Devo ritornare dagli Originari, ho in serbo un dono per loro.

Devo portar loro in regalo tutto il mondo ed il suo dolore, che ho immagazzinato dentro di me, e che ribolle e cresce e mi vuole sfuggire. Loro si sono isolati, esclusi, separati dagli altri, dal mondo, ed io questo mondo lo porterò tra di loro, tutto in una volta, in un solo momento, in un solo grido, in un solo schianto di morte.

Mi alzo faticosamente e raccolgo adagio i miei stracci. Quando l'apro, la porta mi sputa in faccia il gelo del mattino. La lascio richiudersi dietro di me.

Mi incammino lentamente verso l'orizzonte lontano, sulla neve.

Ho freddo, e sono ancora molto stanco, ma, per la prima volta, so perfettamente dove andare.

Racconto vincitore del V° Premio "Mary Shelley" ,1979
Pubblicato nel 1979 sulla rivista "The Time Machine".
Pubblicato nel 1980 sulla rivista "Cosmo Informatore", Edizioni Nord, Milano.
Pubblicato sulla rivista n° 25, Bari 1998.
Reperibile sul sito Internet:
https://www.futureshock-online.info/pubblicati/fsk25/html/vampiro.htm 

© Giuliano Giachino





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