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Nota critica a Jean Paul
di Francesca Trapé
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Nota critica a Jean Paul

Pur essendo agli esordi del fenomeno nichilista, e quindi in mancanza di una riflessione sistematica e compiuta dello stesso, l’interpretazione jeanpauliana costituisce la prima trattazione esplicita del tema. Sicuramente la visione di Jean Paul muove da considerazioni non prettamente filosofiche, ma non per questo, tali considerazioni appaiono meno razionali o autorevoli. Anzi, si può riscontrare una vicinanza con il pensiero di Nietzsche, non solo, banalmente, per la simile costruzione letteraria della messa in scena dell’assenza di Dio, ma soprattutto per il riconoscimento di un momento nichilista altro da quello esclusivamente decostruttivo. In particolare, emerge chiaramente il tentativo di affrontare la questione con l’intento di trovare alla nostra esperienza sulla terra, un significato che vada oltre la mera critica esistenziale o il semplice appiglio fatalista al carpe diem. Certamente quello che si prefigge Jean Paul è un compito ambizioso, specialmente se si considera che la sua forza interpretativa risieda nell’esercizio della scrittura e nella riflessione letteraria, appunto non filosofica. Eppure, il suo pensiero giunge compiutamente a una conclusione la cui concretezza appare fuori dal tempo, nel senso che riesce a interpellare anche noi contemporanei.

La ragione biografica

La ricerca espressiva di Jean Paul si carica di una riflessione a sfondo filosofico di fronte alla perdita di senso insinuata da una serie di eventi tragici che segnano la sua vita. Proprio il dolore diventa motivo di indagine, e permette la traduzione degli interrogativi più profondi sotto forma di una trattazione più lucida. Infatti, l’insensatezza dell’esistenza umana si propone allo scrittore con un’urgenza tale da rendere vano anche il tentativo di trovare conforto nella fede. Appare legittima, dunque, l’idea per cui le trasposizioni letterarie di Jean Paul trovino radicamento nella sua esperienza soggettiva, e di conseguenza occorre riconoscere il fatto che la sua vicenda personale sia stata il motivo fondante per lo sviluppo di temi che lo rendono anticipatore del nichilismo otto- novecentesco.

Del resto anche Debenedetti riconosce l’esistenza di un rapporto diretto tra biografia e letteratura, arrivando ad elaborare la figura del personaggio-uomo propria ai romanzi moderni. Questo stesso personaggio, in quanto alter-ego, nemico o vicario, non rappresenta un modello, un esempio dell’esito di quel processo di ricostituzione dell’identità ormai dissolta. Al contrario, interrogandoci e sollecitandoci, anch’egli non è in grado di darci risposte.

La funzione della scrittura

Da una prima lettura sembrerebbe scontato considerare il tentativo letterario di Jean Paul come un modo per trovare conforto, e riuscire a dare voce a quel dolore tanto profondo quanto incomprensibile. La scrittura in apparenza assurge al duro compito dello scavo interiore e della pratica terapeutica. Eppure, il testo de Il Discorso del Cristo morto, apice di quel percorso espressivo che si inquadra nel fenomeno del primo nichilismo, si presenta scevro del tipico tono ironico proprio dell’opera jeanpauliana, a dimostrazione del fatto che l’urgenza della scrittura non può essere considerata semplicemente come sintomo di un bisogno di sfogo e consolazione. La manifestazione linguistica attraverso lo scritto, specialmente quando non rimane confinata all’interno della dimensione individuale, diventa strumento di espressione e interpretazione della condizione umana.

Attribuire un valore interpretativo alla letteratura, però, non significa poter garantire il raggiungimento della Verità. La scrittura, dunque, orienta il pensiero, dà fondamento alla riflessione e, indirettamente, illumina significati rimasti nascosti di fronte all’assurdità del vuoto esistenziale. L’argomentazione letteraria, a differenza di quella filosofica, non ha luogo per dimostrare una tesi, ma piuttosto produce un attestato di esistenza là dove il dolore sembra aver spazzato via tutto. In sostanza non si tratta meramente di fotografare il mondo così com’è e di prenderne atto, ma di riconoscere il limite della propria capacità di penetrare la realtà, senza per questo dover rinunciare a interrogarsi sul senso ultimo della vita.

La rivelazione del sogno

Nelle opere di Jean Paul il sogno non rappresenta semplicemente un artificio espressivo funzionale alla resa letteraria, in grado di trasporre l’azione su un piano irrazionale, utopico o in generale altro rispetto a quello della realtà; e non costituisce neppure, come nei primi quaderni dello scrittore, il rifugio consolatorio in cui è possibile allontanare le difficoltà quotidiane. Il sogno diviene un autentico strumento conoscitivo.

Nonostante egli non arrivi a formulare una vera e propria teoria onirica, è possibile individuare due caratteristiche essenziali e ricorrenti di questo suo espediente compositivo, rintracciabili già all’interno dei tre brevi testi nichilisti. In primo luogo il sogno, soprattutto nella fase di assopimento iniziale, in cui l’immagine interna che si viene a formare non è ancora del tutto inconscia e priva di punti di riferimento concreti, è assimilabile al processo di creazione estetica.

In secondo luogo il sogno è sempre in stretta relazione con la realtà vissuta, in un processo di superamento della stessa e, contemporaneamente, di approdo a una dimensione in cui l’io raggiunge una prospettiva distaccata su di sé e su ciò che lo circonda. In questo modo lo sguardo da lontano permette una visione generale del proprio agire, pur mantenendosi in un contesto quasi illusorio.

La dimensione onirica, infatti, sembra in grado di riprodurre la realtà, ma al contempo ne fa parte, producendo nell’essere umano una condizione di dubbio esistenziale e di insensatezza, come già esprimeva più di un secolo prima Calderón de la Barca nella sua opera teatrale. Il dramma spagnolo, però, avvalora una visione del mondo un po’ troppo ingenua, in cui l’uomo alla fine riesce ad affermare il proprio volere sulla forza cieca della predestinazione, pur rimanendo vincolato alle leggi morali e religiose nell’esercizio del libero arbitrio. Il pensiero di Jean Paul, invece, è vicino al disincanto nietzschiano quando riconosce non solo l’insensatezza della vita umana, ma soprattutto accetta l’impossibilità di uscire dalla condizione di immanenza a cui l’uomo non può sottrarsi.

La questione, però, va affrontata senza indugi, e per Richter l’unico modo per farlo compiutamente è porre la riflessione sul piano del sentire, che trova piena espressione nell’atmosfera onirica. Nel continuo gioco di rimandi, che funge da ambientazione alla relazione dell’io con se stesso, il sogno è manifestazione e luogo dello sdoppiamento proprio di ciascun individuo, e consente all’uomo non solo un cambio di visione prospettica sulla propria vita, ma soprattutto un addentrarsi nell’io più profondo, fino all’apparente possesso di sé. Apparente perché, se da un lato solo nella relazione con l’altro balena la possibilità di cogliere il fondamento del proprio io, dall’altro si manifesta l’inconsistenza di questa alterità, la cui dimostrazione concreta è data dall’annuncio dell’assenza di Dio. È come se, specchiandosi, ciascun uomo vedesse il riflesso di un riflesso e non un’immagine stabile di sé, né tantomeno trovasse conforto negli occhi vuoti di Dio.

Infatti, proprio perché rende possibile l’esperienza di sdoppiamento, il sogno assume come compito quello di veicolare la rivelazione della vanità di ogni cosa, e la conseguente inutilità delle azioni umane. Si tratta di un movimento riflessivo in grado di ricreare l’incessante conflitto del reale e l’instabilità data dalla frammentazione dell’io. Inesorabilmente, ha come culmine la dissoluzione, in Jean Paul orizzonte estremo sia del sogno, sia, metaforicamente, dell’esistenza umana.

Dal tema del doppio al principio di immortalità

Il rischio di dissoluzione, dunque, fa da sfondo ai personaggi delle opere jeanpauliane, che per questo motivo si trovano agli antipodi dei coevi protagonisti della corrente del Bildungsroman. Infatti, più che un processo di maturazione, i soggetti descritti affrontano un cammino di ricomposizione il cui esito non sarà mai il raggiungimento di un’identità compiuta. Da qui emerge la crisi della coscienza, non solo in quanto principio unitario, ma come fondamento assoluto del sapere. Come afferma Giacomo Debenedetti, è come se l’uomo soffrisse di «una perdita della capacità di presa sulle cose» e indirettamente su se stesso, tanto da essere costretto ad ammettere il proprio fallimento conoscitivo. Viene meno, così, il principio fichtiano che garantisce l’unità dell’io e la sua attività produttiva, fino ad arrivare all’insorgere di un’instabilità esistenziale che prelude, inevitabilmente, all’incontro con il proprio doppio.

La figura del sosia, non più considerabile come una proiezione del soggetto, spesso differisce dall’autentico perfino nelle sembianze, fino addirittura ad assumere qui la forma del Cristo morto. La prospettiva nichilista, dunque, capovolge il rapporto di somiglianza tra l’uomo e Dio espresso nel racconto della Genesi: non è più l’uomo a costituire il duplicato del suo Creatore, ma è Cristo che diventa il “doppio” dell’uomo.

Nel momento in cui la parola di Cristo in realtà torna all’io, e si verifica quello scambio di ruoli per cui viene rovesciata la dottrina della creazione, l’uomo riconosce la coincidenza disillusa tra vita terrena e vita ultraterrena, scoprendo la definitiva identificazione degli opposti. Da questa forma di ateismo sorge l’affermazione di un principio di immortalità non più basato su ragioni salvifiche, ma connaturato alla natura umana, e quindi, come riconosce lo stesso Jean Paul nel Proemio de Il Discorso del Cristo morto, necessario.

In termini sicuramente più poetici, si tratta di una conclusione molto simile a quella di Nietzsche riguardo alla dottrina dell’eterno ritorno. In entrambe la visioni si riconosce la mancanza eterna del senso, che comporta l’affermazione di una temporalità non più distesa linearmente verso un fine e un finale. Questa concezione dello scorrere del tempo in modo circolare è evidente, in maniera simbolica, dalla costruzione stessa dell’ambientazione in cui si svolge la scena: l’articolazione a cerchi concentrici arriva a coinvolgere l’intero cosmo, non lasciando  spazio alla possibilità di

sfuggire all’insensatezza eterna. Ecco perché con la negazione di un principio divino ci si riscopre immortali ma si perde il presente, restando immersi nella solitudine, e avvertendo il senso di lutto dovuto alla scomparsa del proprio padre.

La risposta definitiva

La messa in scena dell’annuncio di Cristo in Il Discorso del Cristo morto, assume la forma di una rivelazione biblica al contrario, proprio perché, anziché predicare la presenza di Dio, si comunica la sua tragica assenza. Fabris sottolinea, quindi, come si vengano a scontrare due prospettive opposte, ma accomunate dalla stessa «possente fattualità».

L’unico modo per poter affrontare la questione, ancora una volta, è spostarsi sul piano dell’intuizione. Non è possibile, infatti, raggiungere un grado di consapevolezza così profondo passando per le vie della dimostrazione razionale, specialmente tenendo conto del fatto che di fronte alla sofferenza non ci sono ragioni che possano restituire un senso di giustizia conforme alle esigenze umane. La presa di coscienza riguardo alla perdita di Dio, infatti, non può essere assunta come motivo di emancipazione da parte dell’uomo, perché significherebbe ammettere il superamento della condizione di ambivalenza che abbiamo detto essere congenita e non emendabile.

Quindi, «se la ragione non può che prendere atto della morte del padre, il sentimento si rivolge dal canto suo all’altra figura fondamentale dell’infanzia dell’uomo, la figura della madre». Solo attraverso l’amore l’uomo non si lascia precipitare nell’abisso della disperazione, e recupera quella dimensione di senso che gli restituisce dignità e spirito vitale. È ciò che si rivela a Jack O’Brien, protagonista del film The Tree of Life di Terrence Malick, quando riesce ad assumere su di sé l’esperienza del male e della morte, riconciliandosi con se stesso e con la propria famiglia.

Ruolo fondamentale è quello, appunto, offerto dalla mediazione della figura materna, in quanto manifestazione concreta dell’amore. In questo senso, appare eloquente la composizione XV dei Canti spirituali di Novalis: «Ti vedo in mille immagini,/Maria, amabilmente figurata,/ma nessuna può rappresentarti/quale la mia anima ti ha veduta./So solo che il tumulto del mondo/da allora mi è svanito come un sogno,/e un cielo d’indicibile dolcezza/mi sarà nell’animo per sempre.».

Dunque, non si tratta meramente, di fare affidamento sulle ragioni del cuore, o piuttosto di compiere un processo di sintesi. Per poter rispondere all’insensatezza dell’esistenza umana, occorre penetrare fino in fondo la dimensione del nichilismo, per arrivare a riscoprire la consistenza data dalle esperienze di amore, prima fra tutte quella materna.

BIBLIOGRAFIA

-   BATTISTI DIANA, Estetica della dissonanza e filosofia del doppio: Carlo Dossi e Jean Paul, Firenze, Firenze University Press, 2012, < https://media.fupress.com/files/pdf/24/2500/5658>.

-    DEBENEDETTI GIACOMO, Il personaggio-uomo. Prefazione di Raffaele Manica, Milano, Il Saggiatore, 2016.

-  NIETZSCHE FRIEDRICH, La gaia scienza e idilli di Messina. Nota introduttiva di Giorgio Colli. Versione di Ferruccio Masini. Nuova edizione riveduta, Milano, Adelphi Edizioni, 2001.

-   NIETZSCHE FRIEDRICH, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide. A cura di Giuliano Campioni, Milano, Adelphi Edizioni, 2006.

-   NOVALIS, Inni alla notte. Canti spirituali. Traduzione e cura di Susanna Mati. Testo originale a fronte, Milano, Feltrinelli, 2012.

-   PAUL JEAN, Tre scritti sul nichilismo, a cura di Adriano Fabris, Brescia, Editrice Morcelliana, 2019.

A cura di Francesca Trapé



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