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Cimitero di Poggioreale. Napoli, 1982. Pensai a un vecchio film in bianco e nero dove un giovane di nome Orfeo perdeva l’amata Euridice durante il carnevale di Rio. Euridice era stata uccisa, ed il suo amante la cercò per tutta la città finché non ne trovò il corpo. Secondo i poeti dell’antichità, è possibile cercare l’amore e si può amare anche all’inferno. L’amore che tutto vince deve poter vincere in qualche modo l’inferno medesimo. Orfeo va a cercare Euridice all’inferno. Pensai: il mito di vincere la morte con la forza dell’amore è commisto alla natura dell’uomo. Il funerale di Marina si tenne il sabato diciannove febbraio del 1982 alle 11,00 del mattino. Era deceduta il pomeriggio di venerdì. Dopo il funerale, senza farmi la barba mi ero messo a camminare per le strade di Napoli. Camminare, camminare e camminare come uno schizofrenico, uno sbandato senza meta. Feci a piedi tutta Via Roma, da Piazza Dante fino a Piazza Plebiscito che per il cattivo tempo, era semi deserta. Attraversai la Galleria Umberto I, scesi per Piazza Municipio e mi diressi per il Corso. Pensai alla morte. Nel policlinico di Roma, mi capitava di osservare persone colpite da gravi patologie spegnersi senza che nessuno potesse farci niente. Marina era precipitata nel lago della morte. Sicuramente il suo cervello, aveva cercato di aggrapparsi alla vita. Lottò contro l’inesorabile fine. Si sforzò d’invocare aiuto, ma non poté gridare. Cercò di muoversi, ma non ne ebbe la forza. Le acque del lago oscuro, si chiusero sopra di lei...Infarto miocardio acuto fu l’infausta diagnosi. Ero già nei pressi della Stazione Centrale gremita di gente con le valigie piene: partire è come morire. Dalla Stazione Centrale, tornai in albergo. Erano quasi le 14. Non avevo fame, né sonno: steso sul letto, col cappotto addosso. Dovevo rivederla. Era morta mentre stavo a Roma per lavoro. Tutto era precipitato all’improvviso. Ero stato avvertito il giorno dopo e quel sabato mattina avevo fatto appena in tempo ad assistere al suo funerale nella Chiesa di Santa Chiara a Napoli. Mi decisi. Dovevo mantenere la promessa. Avevo in tasca l’anello compratole per il nostro fidanzamento ufficiale. Avevo prelevato parte dei miei risparmi. Dovevo dare minimo un milione di lire al becchino. Gli avrei firmato un assegno. Alle 16 del pomeriggio stavo davanti al cimitero di Poggioreale. Parlai con uno di loro, scelto tra i più adescabili. In realtà, erano tutti corrotti e molti, o tutti affiliati alla camorra. Mi avvicinai ad uno macilento, pallido come la morte, con faccia scavata e spalle curve. Il becchino mi condusse in un posto appartato. Mi fissò con occhi da fare pietà, si fece ripetere quello che avevo intenzione di fare. Confessai che volevo vedere per l’ultima volta la mia amica il cui feretro era stato portato in cimitero quella mattina. Mi mostrai prostrato e distrutto dal dolore. Lo ero veramente, ma accentuai la gravità delle emozioni e dei sentimenti. Dissi che per il servizio gli davo un milione di lire. Disse: “E’ un lavoro un poco difficile. Voglio un milione e mezzo di lire. E’ pericoloso...” “Va bene. Pagherò tramite assegni bancari. Non ho contanti addosso.” “Non voglio sapere niente. Metà della cifra con un assegno bancario e metà in contanti. A me servono i soldi subito.” Pensai di fare bancomat. Addosso avevo un bel po’ di soldi. Avrei pagato l’albergo con la carta di credito. Dissi di sì. “Vediamoci stasera alle nove e mezza. Portate con voi i soldi se no non si fa niente.” La sera ci vedemmo davanti al cancello del cimitero. Faceva freddo. Era il diciannove di febbraio e cominciava a salire la nebbia. Davanti al cimitero, rare macchine passavano diretta verso Granturco o verso la Stazione Centrale. A tratti piovigginava. Il custode, o il becchino era lì che aspettava con un cappottone nero, le mani in tasca, una sciapa ed il collo tirato nel bavero sollevato. Mi condusse alla cappella di famiglia dov’era stata deposta la bara di Marina. Era buio e dovevo fare attenzione a non scivolare sulla terra fangosa e grassa. Il cielo coperto da uno strato uniforme di nuvole cineree e nella cappella mancavano finestre. Luce irreale veniva dai candelabri intorno alla bara poggiata sul pavimento. Mazzi di fiori e corone intorno al feretro. Nelle pareti laterali coperte di lastre di marmo, c’erano i loculi degli antenati Ruggiero. Una delle pareti era stata coperta di corone fresche. Il becchino disse che si doveva far presto. Doveva porre la bare nel suo loculo, dietro la lastra di marmo e sigillarla col cemento a presa rapida. Disse che non voleva rischiare. C’era da schiodare una bara e se lo avessero visto, sarebbe finito diritto in galera, oppure sparato da un camorrista. Disse: “Sono cose delicate. Adesso in giro non c’è nessuno. Dobbiamo fare presto.” Gli diedi mezzo milione di lire come anticipo. Il resto lo avrebbe avuto al termine dell’operazione. Disse tossendo: “Oggi è arrivata parecchia gente a portare i fiori sulla bara della defunta che voi desiderate vedere. Sapete, ho tenuto d’occhio tutta quella gente per capire se c’era tra loro qualche delinquente, invece era tutta gente per bene. Questo è positivo perché nessuno di quei signori controllerà il mio lavoro. Non è che quando lavoro sto sotto sorveglianza, ma se si tratta di persone per bene, tutto è più facile e meno rischioso. Se invece si tratta di un camorrista, mi mettono sempre nei fianchi qualcuno, oppure arrivano i muratori appositamente pagati.” Cambiando tono, disse: “Dobbiamo fare presto. Però mi dovete dare tutta la somma pattuita.” “Si, ma dovete finire il lavoro che vi ho chiesto. Pagherò dopo che avrete schiodato la bara.” Disse di aspettarlo per alcuni minuti perché doveva andare a prendere in ufficio gli attrezzi e la chiave. Ricomparve come aveva promesso dopo poco, come un fantasma senza fare rumore. In una mano stringeva una spranga di ferro che era un piede di porco, nell’altra un martello e dei chiodi. Non perse tempo. Spostò alcune corone che potevano dargli fastidio e alla luce dei ceri, con la spranga assestò alcuni colpi ai lati della bara. Alla fine, fece leva col piede di bue e il legno del coperchio cedette scricchiolando. Il becchino poggiò il coperchio alla parete. Disse: “Adesso dovete darmi la somma pattuita.” “Vorrei restare alcuni minuti da solo.” “Prima i soldi.” Era nervoso, si stava spazientendo e ansimava. Cacciai fuori il libretto degli assegni, ne firmai uno che riportava la somma pattuita. Glielo diedi. Andò a controllare al lume di una candela. Disse: “Banca di Roma. Bene. Mi sembra buono. Se non è buono passerete dei guai.” Sorrise soddisfatto, mostrando la fila dei denti tarlata. Invece di andare via si avvicinò alla morta. Con un gesto rapido sollevò la gonna e tirandola in su, mise in bella mostra le rigide cosce del cadavere fino alle mutande. Disse: “Roba buona, eh?” “Ma che fate. Mettete giù subito.” Ubbidì tirandosi il collo nel bavero del cappotto come una tartaruga impaurita. Disse solo: “Pensavo che foste uno che voleva guardare la morta com’era fatta sotto e farsi una sega davanti al cadavere. Scusate l’errore!” “Sentite. Adesso voglio essere lasciato solo. Voglio vedere la morta per l’ultima volta e pregare per la sua benedetta anima. Ho dentro un rimorso che solo qui, davanti alla morta mi posso togliere. Me l’ha imposto San Gennaro in sogno.” “Ah! Va bene. Se è così fate pure”. Il becchino che forse non era becchino, ma uno dei custodi del cimitero, capì che non ero un depravato, di quelli che pagano per fare oscenità sul corpo delle giovani defunte. Con alzata di mani di chi fa intendere di volersi scusare, disse: “ Torno tra dieci minuti. Vanno bene dieci minuti?” “…Facciamo un quarto d’ora.” Il suo cadavere ai miei piedi nella luce fioca. Aveva la gonna nera fino agli stinchi. Sembrava una scolaretta che posa rigida davanti alla macchina fotografica insieme con le amichette. Invece stava sola, fredda e immobile, nell’attesa che le carni divorate dai microbi, scomparissero, polvere nella polvere. Nebbia evanescente, la sua esistenza era immersa nei veli del tempo transeunte e s’inabissava sempre di più, di giorno in giorno. Il rigido corpo insensibile al mio disperato richiamo. Restava il ricordo di lei congiunto al passato. Il suo aspetto era stranamente ancora bello, incontaminato e dolce, nonostante il biancore di morta. E, c’era la mia angoscia ostinata. Si può violare ciò che la morte suggella per sempre? Sotto il velo nero intravidi gli occhi che sembravano dormire. Le guance s’erano un po’ ritratte e la faccia aveva assunto aspetto inconsueto. M’inginocchiai su di lei, le scostai il velo fin sulla fronte e le diedi l’ultimo bacio sulle labbra. Sotto l’attenzione dei miei occhi, il suo viso s’affilava. M’illusi di cogliervi un sorriso: ciò che noi definiamo anima, m’aveva aspettato prima di spiccare il volo. Piansi. Le lacrime fecero improvvisa irruzione. Stavo dimenticando il motivo per cui ero lì. Prima che il becchino facesse ritorno da un momento all’altro, sfilai uno dei guanti dalla mano della morta infilandole l’anello. Dissi: “Marina, c’è un indelebile legame tra noi. Questo anello e’ il sigillo del nostro amore eterno.” Cominciò a girarmi la testa. Mi stava venendo un attacco di panico. Lo stress, la tensione nervosa, la presenza del suo corpo ancora così bello... Mi appoggiai con le spalle e le mani alla parete di marmo. Il pavimento cominciò ad ondeggiare e con esso la bara ed il cadavere. Mi parve che la morta aprisse gli occhi e mi fissasse in un’espressione stupita. Volevo gridare. Mi mancò il fiato. Ebbi uno strattone al cappotto. Sobbalzai. Era il becchino. “Vi sentite bene? Che avete? Sembrate impaurito.” Quelle parole mi riportarono alla realtà. “Mi girava un po’ la testa. Adesso sto meglio”. “Meno male! Ci mancava che foste morto anche voi per l’emozione.” Accennai ad una preghiera davanti alla defunta. Il becchino afferrò il coperchio e lo inchiodò alla meglio sulla bara. “Adesso dovete aiutarmi a sollevare la bara per disporla in quel loculo.” Sollevammo la bara e la sistemammo in un loculo vuoto a circa un metro da terra. Il becchino aveva con sé una scopa. Pulì il pavimento di marmo nero, evitando di lasciare tracce di schegge legnose ed andò a buttare la spazzatura in un posto lontano dalla cappella. Ritornò e disse: “Adesso dovete andarvene. Io resterò qui a murare la bara. Ho di là mattoni e la calce. Per domani mattina sarà tutto a posto e nessuno avrà sospetti… Vi accompagno all’uscita del cimitero.” Davanti al cancello disse: “Giuratemi di non dire niente a nessuno. Giuratemelo su San Gennaro.” “Lo giuro.” “Dovete dire: lo giuro su San Gennaro” “Lo giuro su San Gennaro.” Mi salutò e si dileguò nel buio del cimitero. Notte buia, fredda e nebbiosa. Davanti a me l’immagine di Marina nella bara resisteva a dileguarsi, o era il mio amore di nuovo rinfocolato a desiderarla. Da un telefono pubblico, chiamai un taxi e mi feci portare alla Stazione Centrale. Presi il treno delle 22.00 e arrivai alla stazione Termini di Roma, all’una di notte. A casa, presi sonno subito, un sonno profondo, come la morte. Quella notte la sognai: mi sorrise e mi salutò con la mano. Al dito splendeva l’anello che le avevo donato.
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Giuseppe Costantino Budetta
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