La morte di Ivan Il’ič
Insieme a Memorie di un pazzo (1884, incompiute), a Padrone e bracciante (1895), La morte di Ivan Il’ič (1884-1886) costituisce una sorta di trilogia nella narrativa di Lev Tolstoj sul tema della vita e della morte, tuttavia in questo mio scritto non parlerò né dell’una né dell’altra. Il tema che svilupperò in queste pagine riguarderà ciò che va sotto il nome di “relazione d’aiuto”, analizzata attraverso due dinamiche contrapposte: il risentimento e il rancore. Nel breve racconto di Tolstoj troviamo, infatti, esposto in maniera magistrale questi due “sentimenti” dell’animo umano. La morte di Ivan Il’ič narra la condizione di malato nella quale precipita a quarantacinque anni, in seguito a un banale incidente, il consigliere di Corte d’Appello Ivan Il’ič. La presenza della malattia cambia tutti i rapporti che il protagonista intratteneva con la sua cerchia familiare ed amicale, e innesca tra di loro dinamiche nuove che assumeranno presto la forma del rancore e del risentimento. Nella nuova circostanza in cui il consigliere viene a trovarsi, i suoi familiari e i suoi amici gli offrono una “relazione d’aiuto” che, anziché “aiutare” il malato a sopportare e ad accettare dignitosamente la sua dolorosa condizione, finisce con aggravare ancor di più il senso di solitudine entro il quale Ivan Il’ič si vede ogni giorno precipitare. Soltanto con il giovane mužìk addetto alla cucina, Gerasim, un ragazzo semplice dal viso illuminato, il malato riesce a instaurare una relazione d’aiuto positiva.
Rancore e risentimento: spesso accade che questi due termini siano usati quasi fossero sinonimi, come termini equivalenti. In realtà, sono termini che descrivono dinamiche interattive completamente diverse e opposte. Anzitutto, essi richiamano rapporti tra agenti non equivalenti o asimmetrici. Affinché s’inneschino queste dinamiche i rapporti tra gli agenti non possono essere pari, cioè la distribuzione dei loro atti non può disporsi sullo stesso piano. Tra i due devono sussistere rapporti complementari, del tipo di cura/assistenza, oppure di protezione/obbedienza. Chi offre cura e assistenza o chi dà protezione s’aspetta poi una forma di riconoscimento, che concretamente assume quella della "gratitudine" o dell’"obbedienza". La gratitudine ha la funzione d’accrescere il prestigio di chi offre cura/assistenza come l’obbedienza quella d’accrescere l’autorità di chi offre protezione. La mancanza di questo riconoscimento atteso, secondo la mia prospettiva, genera risentimento, voglio dire, colui che ha ricevuto un beneficio o è stato oggetto di protezione se non si dà seguito a un segno di riconoscenza genera in chi ha dato un beneficio o fornito una protezione risentimento. Il rancore si pone invece su un versante opposto: colui che è stato costretto ad accettare un beneficio o una protezione (non importa se a causa della sue condizioni o di circostanze imposte) nutre rancore.
In sostanza, quando qualcuno si vede imporre determinate cose o quando qualcuno è costretto ad accettare determinati benefici, nutre nei confronti di chi li offre rancore. Quando invece chi impone la sua protezione o chi offre i suoi benefici non vede ricevere in cambio riconoscimento comincia a nutrire nei confronti dell’altro risentimento. Insomma, il risentimento è sintomo di una mancanza, mentre il rancore è sintomo di una presenza; oppure, il risentimento in chi lo prova denota un vuoto non compensato, invece, il rancore denota un pieno ricevuto. Ma se scaviamo più a fondo scopriamo altre dinamiche: chi offre un beneficio rivela a chi lo riceve un “eccesso”; e chi lo riceve rivela a chi lo offre una “carenza”.
Dopo questa precisazione sulle dinamiche che il rancore e il risentimento suscita nell’animo dei soggetti, passiamo ad analizzare il racconto di Tolstòj, e chiediamoci perché Ivan Il’ič s’irrita quando, durante una partita al tavolo da gioco, vede che il suo partner, Michaìl Michàjlovič, «batteva sul tavolo la sua mano sanguigna e con cortese condiscendenza si tratteneva dal rilevare le prese, spingendole verso Ivan Il’ič, per lasciargli il piacere di raccoglierle, senza allungare il braccio, senza affaticarsi, senza allungare il braccio»? «Cosa crede», pensa Ivan Il’ič , «che non ho neanche la forza di allungare il braccio?». Michaìl Michàjlovič s’aspetterebbe un gesto di cortesia da parte di Ivan Il’ič per la premura che dimostra nei suoi confronti, e, invece, il suo gesto cortese non fa che irritare l’amico. Perché Ivan Il’ič prova irritazione anziché riconoscenza? Oppure, perché prova rancore, potremmo dire? Perché il giudice, nella nuova situazione di uomo malato, prende consapevolezza che all’amico non importa granché della sua malattia o del fatto che egli soffra. Ciò che davvero gli sta a cuore è il fatto che a causa di quella malattia egli rischia di perdere la partita a carte. Lo stesso atteggiamento gli riservano la moglie e la figlia: la malattia per loro diventa uno scandalo – un ostacolo - che impedisce alla famiglia di avere i “normali” e regolari rapporti che avevano in precedenza. La loro preoccupazione o il loro “fastidio” deriva dal fatto che quella malattia viene a sconvolgere la loro quotidiana esistenza. Insomma, Ivan Il’ič s’accorge che tutto il sistema di relazioni nel quale la sua esistenza si trova immersa vede la malattia, ma non vede la sua condizione di malato, cioè tutte le persone che stanno intorno al malato, compresi i medici che lo hanno in cura, si preoccupano della sua malattia, ma trascurano completamente la sua condizione di uomo ammalato. L’hanno astratta dal suo essere uomo ammalato e sofferente, e ora la valutano soltanto per gli effetti che essa provoca nella esistenza di ciascuno di loro. Insomma, hanno perso di vista il malato e la sua condizione.
Diverso è, invece, il rapporto che Ivan Il’ič intrattiene con il giovane servitore Gerasim. Ivan Il’ič si rende conto che «Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri, semplicemente», con una soavità che intenerisce il suo “padrone”. Gerasim non s’aspetta alcuna ricompensa per l’assistenza che offre a Ivan Il’ič. Egli lo fa semplicemente perché, secondo il servitore, assistere il prossimo quando si trova in difficoltà è nell’ordine delle cose. Da parte sua, Ivan Il’ič accetta soltanto l’assistenza del servitore proprio perché si rende conto che essa è offerta senza alcuna forma di riconoscimento. Se chi offre il suo aiuto dice o fa intendere a chi lo riceve che ciò che fa non lo fa perché sei “tu”, ma perché ti sei trovato in quella condizione, ecco che chi si trovi in quella condizione di sofferenza accetta l’aiuto di chi lo offre senza sentirsi umiliato. Questa è la situazione che si trovano a vivere Gerasim e Ivan Il’ič. Gerasim non offre il suo aiuto a Ivan Il’ič perché è Ivan Il’ič, egli lo offre perché Ivan Il’ič è un uomo malato. Il giudice comprende che ciò che Gerasim fa per lui lo farebbe comunque anche se al suo posto ci fosse una qualsiasi altra persona. Quindi lo aiuta perché vede un uomo in difficoltà, perché l’uomo è un uomo malato. Punto. Ecco perché Gerasim non s‘aspetta alcuna forma di gratitudine, e quindi non può provare nessun risentimento nei confronti di chi offre il suo aiuto. Gerasim, in altri termini, è l’unico a non vedere la malattia dell’uomo e a vedere semplicemente la sua condizione di uomo malato e quindi bisognoso d’aiuto. Tutti gli altri, invece, offrono il loro aiuto perché s’aspettano poi una forma di riconoscenza. Il loro aiuto non mai rivolto all’uomo malato, ma al marito, al padre, all’amico, ecc., ecco perché il loro aiuto non è mai gratuito, ma è sempre dettato da un calcolato tornaconto.
Anche coloro che dicono di fare del bene perché domani (o nell’al di là) si vedano riconosciuti i propri meriti, lo fanno per un loro particolare tornaconto. La gratitudine per Gerasim è una ricompensa già compresa nella sua stessa relazione d’aiuto: Gerasim si sente grato di poter aiutare il prossimo, perciò non ha bisogno della gratitudine del giudice. Ivan Il’ič si rende conto della differenza che corre tra la relazione d’aiuto offerta dal suo servitore e quella, invece, dato dai suoi famigliari. La moglie e i figli fanno finta di non vedere la condizione di Ivan Il’ič. La moglie prova risentimento nei confronti del marito, in quanto non si vede riconoscere i “sacrifici” che fa per lui; e il marito, invece, nutre soltanto rancore nei suoi confronti. L’irritazione che il marito manifesta nei confronti della sua cerchia familiare viene attribuita dalla moglie al suo "terribile carattere"; e quando il marito "dopo un’ennesima scenataccia", confessa di essere irascibile a causa della sua malattia, la moglie gli ribatte che se lui era malato bisogna curarsi. E se non guarisce è perché si cura male o non abbastanza. Quindi, se Ivan Il’ič non guarisce è colpa sua: "Egli si accorgeva che le persone di casa, soprattutto la moglie e la figlia che si trovavano nel pieno di una fertile attività di visite mondane, non capivano niente ed erano seccate con lui per il suo umore così tetro ed esigente, come se fosse colpa sua".
Sacrificarsi vuol dire rinunciare a qualcosa in cambio di una ricompensa. La ricompensa che s’attende chi ha compiuto una rinuncia è quella della “gratitudine”. Chi deve mostrasi grato, per la rinuncia che l’altro ha effettuato, ha a disposizione diverse modalità per farlo. In ogni caso, la forma della ricompensa attesa dipende dalla forma di rinuncia effettuata. Tuttavia, affinché si possa nutrire del risentimento (o del rancore) nei confronti dell’altro, tra i due agenti deve sussistere uno scambio interazionale di lunga durata, ossia deve sussistere una relazione duratura. Il rancore e il risentimento non sono mai il prodotto di un unico scambio interazionale. Se aiuto uno sconosciuto in difficoltà ad attraversare la strada, m’aspetto che poi costui mi dica almeno “grazie” per il gesto compiuto. La mancata manifestazione di gratitudine non genera in me risentimento nei suoi confronti (tutt’al più può generarlo in astratto nei confronti del genere umano: “vai a fare del bene al prossimo!” – potrei dire a me stesso, ma si tratta di un risentimento “generalizzato” – cioè di una forma di risentimento riguardante una categoria astratta di persone), in quanto non ci saranno ulteriori occasioni di interagire; oppure, se si ripresentasse, mi guarderei bene dal rifarlo. Per nutrire risentimento o rancore nei confronti di qualcuno occorre che ci sia una condivisione di scambi prolungata nel tempo. Per provare un “sentimento” positivo o negativo è indispensabile che tra i due agenti intercorra una reciproca frequenza.
La mancata dimostrazione di gratitudine verrà percepita da chi ha compiuto il gesto benevole come “fastidio”, cioè il fatto che chi ha ricevuto un beneficio non si mostri grato viene inteso come se il proprio gesto, anziché essere apprezzato (come ci s’aspetterebbe, e quindi essere ricompensato), fosse vissuto come qualcosa di fastidioso. Il fastidio, come dicevo sopra, può essere provato in ragione del fatto che il gesto benevole compiuto vuole (o può) mettere in risalto una deficienza o una carenza che l’altro voleva tenere “nascosta”; oppure, mettere in evidenza – non importa se lo si fa in modo intenzionale o intenzionale, che, da questo punto di vista può essere percepito soltanto come un’aggravante – una carenza o una deficienza di cui l’altro non vuole pienamente prendere consapevolezza, o che non riesce ad accettare. Chi vede il proprio gesto benevole vissuto con fastidio, anziché essere apprezzato, non può fare a meno che nutrire, nei confronti di chi lo ha ricevuto, “disprezzo”. Il fastidio percepito da chi ha offerto il suo aiuto è inteso come un disconoscimento della propria opera, e, indirettamente, diventa un’offesa al proprio Sé. È un’offesa diversa di chi si vede rifiutata la propria opera. Un conto è vedersi rifiutare il proprio aiuto offerto, un conto è vederlo accettare senza che l’altro si mostri gratitudine. Nel primo caso si vuole sottolineare che non si ha bisogno dell’aiuto altrui oppure sottolineare che non si vogliono contrarre debiti di riconoscenza. Nel secondo caso, vuol dire non saper apprezzare nella maniera adeguata la propria offerta. In realtà, chi la accetta lo fa perché è nella condizione di non poterla rifiutare, e ciò mette in evidenza la propria condizione indigente. Chi si vede dunque nella condizione di dover accettare l’offerta dell’altro si sente umiliato da quel gesto. Ogniqualvolta l’offerta è reiterata, viene reiterato anche il proprio senso di umiliazione. E la reiterazione dell’umiliazione non può che alimentare irritazione nei confronti di chi offre il proprio aiuto, come se visto nel caso di Michaìl Michàjlovič. E l’irritazione passo dopo passo alla fine conduce all’odio. Alla fine di questo percorso non può che provare compassione per la moglie, per i figli e per amici, una compassione che nasce dalla consapevolezza che i rapporti umani sono spesso intrecciati da una rete di reciproci inganni, quella stessa che Ivan Il’ič metteva in atto nei confronti degli altri quando svolgeva il suo lavoro di giudice, e che soltanto ora nella sua condizione di uomo morente riesce a vedere e a dissipare, e quindi riesce ad essere “illuminato”.
Le citazioni sono tratte dall’edizione Garzanti, Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, trad. it. di G. Buttafava.