Da piccolo lo chiamavano Fagiolo. O Centino. Giéch Fagiolo o Giéch Centino. Ma di solito Fagiolo o Centino. Per via dell'altezza, naturalmente.
E Giéch Fagiolo, o Giéch Centino, era figlio di un prodigio. Dell'amore vissuto ai confini delle grandezze.
L'amore.
Minuscolo e infinito.
Di un nano e di una gigantessa.
Due persone che avevano scoperto che l'amore non si misura in altezza, ma in profondità. E che si può stare in un nido in mani grandi quanto una monetina, o addormentare tra due seni enormi come un passero sui rami. La gigantessa e il mezzo uomo, scoprirono che un universo può stare sulla punta delle labbra e che un granello di sabbia può esser grande quanto Dio. E che Dio, i suoi granelli preferiti, li trasforma in perle.
Inutile dire che quella volta, la perla nacque minuscola.
Giéch Fagiolo, o Giéch Centino, lo chiamavano. Per via dell'altezza, naturalmente.
Ma non sempre, una perla sa di esserlo, e può fare scelte sbagliate. Come rotolare via sul pavimento inclinato della vita.
Ché quella che era stata una benedizione, per i suoi genitori, per lui, di maledizione aveva preso il nome, nella smisurata piccolezza dell'incomprensione di quell'amore.
Capì. Poi capì. Perché si finisce sempre, presto o tardi, col capire. Ma avvenne quando il suo nome era già cambiato, quando nel sottomondo della malavita lo chiamavano già Giéch Mutanda. Perché quando lo incontri, le mutande che porti non avrai più tempo di cambiarle, così dicevano nel sottomondo della malavita. E ve ne sarebbero tante da raccontare, su Giéch Mutanda, tante da sbancalare gli archivi delle polizie di mezzo mondo. Ma questa, come dicono in certi romanzi, è un'altra storia, e a noi interessa solo il sacro principio del Tao. Che il bene e il male sono concetti del tutto arbitrari. In campo bianco un puntino nero, in campo nero, un puntino bianco. Una piccola perla.
Che capì. Di essere quello che era. E quello che era, era il frutto sproporzionato di un amore vissuto ai confini delle grandezze.
Per questo, avvenne quello che avvenne.
Lo spettacolo non si concluse, perché fosse finito il numero. Se così fosse stato, legittimo il diritto d'urlare "alle barricate" e pretendere a pieno il risarcimento del biglietto, anche a costo di dar fuoco al tendone e far mangiare i leoni dai cristiani.
Eppure, il fatto comunque rimaneva. Nella sua completa ed unica drammaticità, lo spettacolo si era appena concluso con l'elefante stramazzato a terra. Morto stecchito di vecchiaia.
Forse l'ultima immagine della sua proverbiale memoria fu di quando rubava frutti alle piante con destrezza pachidermica del suo proboscitino da cucciolo sotto lo sguardo benevolo di mammaelefanta. Ma non sapremo mai con certezza.
Ciò che invece la certezza, spietatamente, sbatteva sotto il naso, era un promontorio grigio da massiccio centrale, zampe all'aria, nel centro della pista, che intristiva pesantemente il già magramente allegro spettacolo.
Nel silenzio, senza manco un requiem travestito da marcettina d'organetto, cinque clown affaticati, scivolarono geriatrici a valle delle rotondità elefantesche, qui, si misero a spingere la defuntanza da dietro al culone, sprofondandovi nel de profundis assai unto d'imprecazioni.
Dei sei spettatori, uno batticchiò le mani imbarazzato per coprire il disagio. Uno mangiò una nocciolina. Uno cambiò posizione per riconciliarsi col sonno. Tre rimasero silenziosi negli ultimi posti a sedere. Dei tre silenziosi, uno era triste, uno era medio, uno mangiava una banana.
"Madonna che tristezza...!", disse quello triste.
"Mhà, mica poi tanto...", rispose quello medio.
L'adepto alle banane non si pronunciò. S'infilò un casco di banane in bocca e cominciò a triturarle.
Lo spettatore triste sospirò, scosse la testa disperato,infine s'adeguò alla decisione che in cuor suo avea già presa.
Si rivolse allo scagnozzone indrappato in un doppiopetto color carota che ruminava banane in qualcuno dei suoi molteplici stomaci. Si rivolse e gli disse:
"Ursus, voglio vedere il proprietario del circo."
"Oui."
"Che cazzo dici?"
"Sto studiando spagnolo."
"Ah."
"..."
"..."
"..."
"Perché?"
"La mia ragazza è di Lisbona."
"Ah."
"E' uno sfacelo!" piagnucolava il proprietario del circo, scoccodrillando di lacrime una tuba sfondata e rabberciata, ed una tanica di olio d'olivia rimodellata ad altoparlante ammaccato.
"E' uno sfacelo! unosfacelo unosfacelo unosfacelo...come potrebbe andar peggio?"
Uno scheletrico Tarzan settantaduenne dalla crapa pelata si avvicinò e disse:
"C'è il direttore della banca di là. Vuole parlare con te."
Il proprietario del circo, pianse più forte.
Coi pugni serrati sui fianchi in ducesca postura ed il piede che s'allenava a rullare di grancassa, il direttore della banca stava attendendo visibilmente spazientito, circondato dalle ansie degli artisti.
"Sembrano scappati da un circo", pensò guardando con alterigia la carovana di miseria umana che lo attorniava con la reverenza che si usa alla statua della Sacra Vergine. Finalmente il grande Boudinì, un tempo ammaliatore di platee, oggigiorno proprietario di una trappola su carrozzoni messa in ginocchio dall'estro della modernità d'emozioni che non concedono l'onore delle armi, fece il suo ingresso con due occhi arrossati come quelli di una civetta con la congiuntivite.
"Alla buon'ora!", sbottò il banchiere sistemandosi due telescopi ad alta definizione che usava come occhiali.
"Sono costernatissimo di averLa fatta attendere, sua Eminenza...", tentò di ammansirlo il buon Boudinì.
"Mi ci pulisco le scarpe, con le sue scuse- fu il tonfo del tentativo andato a vuoto-. Il tempo è denaro, il denaro è potere, il potere dà le donne. Ed io ne ho un paio che mi aspettano!"
"Lo sospettavo che questo fosse uno di quelli che le deve pagare, le donne, perché ci vadano insieme...", pensò Boudinì.
Ma si limitò a sorridere agrodolcemente.
Con quella profonda malinconia, che solo gli uomini del circo, hanno in fondo agli occhi.
"D'altronde- continuò tignoso il direttore di banca ferendo con uno sguardo la donna barbuta- vedo che ognuno ha quel che si merita..."
"Signor direttore...", osò Boudinì.
"Signor direttore! Signor direttore! Io non ho tempo da perdere dietro alle vostre moine", e si sistemò un riporto lungo come una liana che fece sospirare di nostalgia il Tarzan in pensione. "Qui: o pagate, o raccattate i vostri quattro stracci e vi cercate un ponte sotto il quale andare ad abitare."
Quindi poggiò la valigetta sopra un tavolo. Guardò l'orologio, attese sei secondi, che l'ora fosse in coincidenza con l'apertura del caveau della filiale di Brisbane, quindi rotellò la combinazione sino a comporre un numero pressoché sconosciuto a fisici e matematici composto da 25 cifre, si lasciò pungere i polpastrelli da microaghi imbevuti nel curaro cui lui, da lungo tempo era ormai immune, e quindi, dopo dieci secondi, la serratura s'aprì con uno scatto decompressurizzante che immise nell'atmosfera, un potentissimo gas paralizzante. Al quale, ovviamente, manco a dirlo, lui era immune.
In effetti, una volta usava gas venefico, ma dopo aver per sbaglio annientato l'intero consiglio d'amministrazione d'una prestigiosa società, solo aprendo sovrapensiero la valigetta per prendersi una mentina, ritenne più consono ridimensionare leggermente il sistema di sicurezza.
Comunque, nei minuti che seguirono, mentre la corte dei miracoli del circo si statuò d'irrigiditezza da baccalà, il direttore estrasse dalla valigetta una cartellina, dalla cartellina un faldone, dal faldone una pratica, dalla pratica un foglio, dal foglio una firma. Che sventolò sotto il naso inerme del proprietario del circo.
"Dunque...secondo i calcoli della nostra sezione "estorsione&raggiri"...tra gli interessi appena sotto il tasso d'usura- che per inciso stabiliamo noi- i costi della pratica, l'iter d'instaurazione e/o rescissione delle spettanze contrattuali di cui sopra non menzionato, al netto del prodotto interno lordo diviso per il raggio della terra...ah, certo, più ovviamente il prestito...lei ci deve una bella sommetta" e mostrò il risultato di un conto leviatanico sulla calcolatrice, alla pupilla vitrea dello scultureo Boudinì. La pupilla, in lenta fase deparalizzante, contò una serie di zeri che pensava solo il ministro del tesoro avesse mai visto nel disavanzo di bilancio. L'occhio destro, che stava ritornando alla vita, si mise a piangere, come solo un ministro del tesoro si credeva fosse in grado di fare.
"Non tenti di intenerirmi!" ringhiò il direttore di banca, schiaffeggiando l'immobile Boudinì con il foglio dell'ipoteca "Con me non attacca!"
Quando apparve Ursus, Boudinì gnagnolava in ginocchioni sgorghellando lacrimenti.
"La prego di venirci incontro! Stiamo facendo il possibile per onorare il nostro debito. Abbiamo già impegnato il cannone e adesso l'uomo missile lo tiriamo a mano. I leoni avevano i denti ridotti talmente male che gli abbiamo dovuto mettere su una dentiera e ogni tanto se la perdono durante gli spettacoli! Maciste, l'uomo più forte del mondo, son due mesi che non mangia, ed ora è la controfigura d'un filo d'erba. Gli acrobati sono a terra, i clown così depressi che mi hanno già tentato il suicidio sette volte. E una volta hanno pure tentato di suicidare me. La prego, cerchi di venirci incontro."
Accanto a Ursus, se ne stava Taurus.
"Le uniche cose che vi potranno venire incontro saranno le ruspe. La prossima settimana iniziamo i lavori. Demoliremo questo accampamento da profughi e faremo sorgere un'aiuola di casettine a schiera allegre e sorridenti per la gente per bene."
"Signor direttore, non è giusto, lei ci tratta come criminali!..."
"La povertà è il peggior reato." Tagliò corto il direttore di banca riaggiustandosi i telescopi.
"Mi permetta di dissentire", fece una voce affossata tra le alture di Ursus e Taurus, come un fiume che s'insinui nel fondovalle. "Ci sono reati che lei non può nemmeno immaginare. E tanti, e tali modi di commetterli, che potrei elencargliene per giorni. Vorrei ricordarLe che ha di fronte il Grande Boudinì, se fossi in Lei tratterei con un po' più di rispetto, quell'uomo."
"E tu chi sei? Il nano del circo?"
Lo spettatore triste annusò il garofano nel taschino e sorrise.
"Lasci che Le presenti, Signor Direttore, questi miei due amici. Taurus...", e il molosso in completo color limoncello digrignò i denti facendosi saltare due premolari "...ed Ursus..."
"Enchanté..." si prodigò Ursus.
"Eeeeh?!" fece il direttore colto alla sorpresa.
"E' spagnolo, 'gnorante!" e gli rifilò un cazzotto in bocca.
"Il nostro Ursus ha la ragazza di Lisbona..." spiegò Giéch al direttore rintronato per terra, che stavolta per veder le stelle non aveva bisogno dei suoi telescopi.
"...Vede- proseguì la voce stazionaria sul metro e 23-...Taurus non è un astrofisico nucleare e non ha la crapa di un premio nobel, ma..." e Taurus digrignò di nuovo i denti facendosi saltare altri due premolari e un'otturazione in tungsteno "...ma è uno specialista in reimpianti ipnotici della personalità...quindi La lascio alle gentili attenzioni dei miei ragazzi..."
Il doppiopetto color carota e il completo color limoncello si chinarono a tenaglia sul direttore di banca.
"Adieu", fece Ursus acchiappandolo per il colletto e porgendolo al compagno. Taurus gli abbatté sul riporto un martellata pneumatica che lo accorciò di dieci centimetri e fece partire la sua coscienza per spazi siderali infiniti.
"Bene. Da oggi tu sei Tarcisio Lustrafondo. Sei addetto alle pulizie dei cessi della stazione centrale. Abiti in un sottotetto che condividerai con i pinguini d'inverno e con le zanzare d'estate. Guadagni un po' meno del minimo sindacale, ma tutto sommato hai già un lavoro, il che non è male, al giorno d'oggi. Hai un debito in banca, ed un direttore carogna che ti perseguita tramite fattucchiera. Non mi resta che augurarti buona fortuna", raccontò Giéch Mutanda al corpo esanime dell'ex banchiere mentre gli spiumava il portafoglio e provvedeva a sostituire i documenti con le sue nuove generalità.
"Ah. Ti piace il circo e lasci sempre delle generose mance quando vai."
Poi si rivolse a Carota e Limoncello: "Portatelo nella nuova casa. Se al risveglio dovesse avere ancora qualche dubbio, ripetete il trattamento..."
"Sì", fece Taurus perdendo un canino.
"Oui", spagnoleggiò Ursus con un colpo di nacchere che erano le ossa di Tarcisio Lustrafondo.
I circhici circensi avevano assistito all'intera scena dello spettacolo con l'umore alle stelle di un trapezista euforico che si lancia nel cielo tra Sirio ed Orione.
Giéch si avvicinò a Boudinì, e sotto le froge del suo naso, diede fuoco all'ipoteca che si trasformò in una farfalla ardente; con le ali in fiamme, si spense in cenere la breve vita del suo volo.
Poi estrasse dal cilindro un coniglio a valigetta: "Credo che questi dovrebbero essere abbastanza per permettervi una pensione serena. E per i leoni, questo è l'indirizzo del mio dentista"
Boudinì scavò lo sguardo su Giéch per cercare una risposta.
Ma lo spettatore annusò il garofano nel taschino, sorrise, e si allontanò fischiettando. Non proprio triste, in effetti, a guardarlo bene, ma con quell'espressione in fondo un po' malinconica, che solo gli uomini del circo hanno, appesa in fondo agli occhi.
E a Boudinì, parve in un attimo di rivedere, un amore. Un amore di tanto tempo fa, quand'era ragazzo. Un amore speciale, vissuto ai margini delle grandezze.
Come l'universo in un granello di sabbia, l'amore di un nano e di una gigantessa.