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Andavo a cento all’ora perché c’era l’autovelox (storia di un amore metropolitano senza biglietto)
di Emma Santo
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Il giorno in cui FulVia incontrò il grande amore della sua vita ultras-terrena, fu l’unico giorno che andò allo stadio. Il cielo era di un blu esclamativo, il mare una tavola imbandita di pesci pascià: il più grande si chiamava Omar, senza l’apostrofo napoletano, un generale ottomano antenato dell’octopus, sebbene Omar non avesse mai avuto un brufolo, figuriamoci otto. LudoVico era l’uomo della svolta e FulVia mutò d’accento ma non di pensier, facendolo saltare sulla i perché era più che certa che come FulVìa, insieme a LudoVico, avrebbe imboccato la strada giusta. Il giorno che si incontrarono lo ricordava come se fosse ieri, sebbene non ricordasse affatto ieri che giorno fosse. Fu un incrocio di sguardi al semaforo delle emozioni segnaletiche che correvano oltre il limite consentito da chi vigila sull’andamento dei sensi unici, ausiliario del traffico di parole che invadono la corsia di un sentimento preferenziale, guardia giurata, senza dire lo giuro, del cuore che attraversa senza guardare un’arteria stradale nata ai bordi di periferia, come l’eros che canta ma non usa le frecce quando deve fare una manovra Hazzard. Fu amore che non si arresta davanti allo stop della ragione, perché chi si frena è perduto e amare significa non dover mai dire: “Mi dispiace, ma avevo visto quel divieto”. FulVìa aveva guardato LudoVico dritto nei bublè oculari, musica per le cornee che gli aveva messo una vista infedele, e aveva aspettato che la raccogliesse sulla ciglia del raccordo sopracciliare per dirle che sarebbe stata la luce dei suoi occhi, finché non avesse comprato loro una lampadina.
Erano diventati come il pane e il burro, ma mancava il coltello e così si lasciarono senza aver mai consumato la passione che li faceva ardere perché non avevano neanche un focolare addomesticato che raccontasse loro una storia davanti al fuoco, come quelle che finiscono con un “e vissero tutti felici e contenti” senza mai specificare tutti “chi”. FulVìa capì che era ora di voltare pagina, ma aveva già finito il libro, così si alzò, fece per aprire la porta ma quel fece per la bloccò. Si voltò a guardare LudoVico con lo sguardo perso nel nuoto che davano in tv, e capì che una parte di lei lo avrebbe amato per sempre, sebbene non avesse la minima idea di quale parte si trattasse. Poi imboccò la strada che non aveva fame, regalò il suo accento ad uno gnu, al quale avrebbe regalato volentieri anche una consonante in più se solo gliene fosse avanzata una, e girò il mondo gambe in spalla e zaino in mano, ché la diritta via era smarrita e ora cominciavano le curve.
©
Emma Santo
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