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La corsa del bosco
di Enrico Meloni
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Oposnjan, 12 maggio 1951


Ritornare a quei giorni di festa è divenuto un'abitudine, oggi che la mia scorza s'è fatta dura per provare emozioni nuove e il peso dei miei ottantasette anni mi induce all'ozio. Del resto il sole che si affaccia dalle lunghe notti d'inverno è sempre quello, le prime erbe che rompono la neve a primavera sempre loro, e la forza che spinge gli animali ad unirsi e generare non è forse la stessa da che Dio ha creato il mondo?
Alleggerito dal tempo trascorso, reputo le emozioni che possono cogliere un uomo nell'arco della sua vita un numero limitato, verosimilmente minore di quanto siamo portati a immaginare. Potrebbe anche essere un'emozione soltanto quella che accompagna in modo significativo la nostra esistenza: l'abbiamo provata nel corso dei primi anni e ci ha marchiato per sempre; e tutta la nostra vita niente altro che un continuo inseguimento senza mai raggiungerla a pieno e senza mai restarne pienamente appagati.
Levko aveva lavorato sodo quella mattina, senza risparmiarsi, come smemorato dell'impegno che lo attendeva solo poche ore più tardi. A guardarlo più che la persona fisica ti restava negli occhi, oltre alla luce dei capelli chiari, la sua inesauribile energia; era tanto magro quanto pieno di vigore. Il cielo era limpido, e l'aria, che ancora portava con sé residui pungenti della furia invernale, si divertiva a schiaffeggiare le gote arrossate dei contadini e dei mandriani all'opera. Tra il bosco e i campi, i floridi germogli di un fronte di betulle salutavano lo sciogliersi dell'ultima neve. Sul prato i cavalli più giovani giocavano a rincorrersi dando sfogo al bisogno di vita reso impellente dalla costrizione di un inverno trascorso al chiuso delle stalle. Nei villaggi i bambini, quasi a voler raggiungere le prime rondini, si arrampicavano sui muri, sugli alberi, sui tetti delle case, e cantavano in cori di tre o quattro, brevi filastrocche propiziatorie in omaggio alla buona stagione alle porte. Mentre nelle case le donne modellavano con cura la pasta per ricavarne dolci a forma di piccoli uccelli, che dovevano esser pronti prima di sera.
Oggi si celebrava il primo giorno di pascolo del bestiame, e come ogni altro giorno di festa, in preda all'euforia, tutti sembravano accantonare le asprezze e gli stenti della vita quotidiana. E il piccolo padre era troppo distante dagli sperduti, insignificanti villaggi ucraini per occuparsi dei nostri guai. Tanto valeva divertirsi e non pensare ad altro che non fosse la Corsa del bosco o che in qualche maniera si richiamava ad essa.
La Corsa si perpetuava ogni anno da un tempo indefinito, perso nella memoria degli antenati. Coinvolgeva tre villaggi e i contendenti dovevano attraversare il bosco per un tratto di circa sette verste. Venivamo trasportati sopra un barroccio nel cuore della foresta, e quando il sole era ormai prossimo al crepuscolo, uno dei tre giudici (uno per ciascun villaggio), sorteggiato, dava inizio alla gara. Il traguardo era la piazza del borgo centrale, il più vicino al bosco; il nemico più insidioso era il buio, che verso la fine della gara avvolgeva ogni cosa, e potevamo dirci fortunati quando, come oggi, era presente un quarto di luna a rasserenare la via.
Volendo, noi corridori potevamo commettere scorrettezze d'ogni sorta per danneggiare gli avversari, dato che subito dopo il via, i tre giudici partivano al galoppo verso l'arrivo e nessuno poteva più controllarci. Ma una sorta di mano invisibile, ultraterrena, impediva il verificarsi di ogni slealtà, anche la più innocente. In ogni cosacco della zona era radicato il timore degli spiriti del bosco. Essi avrebbero colpito puntualmente chiunque si fosse macchiato di qualsivoglia azione fraudolenta. Al riguardo se ne raccontavano tante: vincitori sgozzati nel proprio letto o divorati dal fuoco, altri, provetti nuotatori, misteriosamente annegati nel torrente, e qualcuno inghiottito nel nulla e mai più ritrovato. Se invece un corridore cadeva vittima di un incidente casuale, i rivali non erano tenuti a soccorrerlo. Chi lo avesse aiutato lo avrebbe fatto soltanto in ossequio al suo onore di cosacco, in caso contrario: nulla da temere dagli spiriti.
Il pranzo che si consumò quel giorno, non fu molto più abbondante degli altri giorni di festa, ma nei boccali dei cosacchi si vedevano scorrere fiumi di vino rosso. Sulle tavolate di ogni villaggio i discorsi finivano per convergere su un comune argomento: la Corsa. Non rappresentava soltanto una competizione, molti valori erano contenuti in quell'evento di inizio primavera. Non è facile spiegare il lato irrazionale dell'uomo che trova modo di esprimersi attraverso le regole, almeno all'apparenza, logiche, di un gioco. E, ad ogni modo, non bisogna dimenticare il vitello grasso destinato al vincitore, e il diritto riservato ai suoi compaesani di sbeffeggiare impunemente per un intero anno gli abitanti degli altri due villaggi, senza che questi avessero, almeno sulla carta, la possibilità di ribattere alcunché. Regola che nei fatti veniva spesso disattesa, ed anzi, talvolta capitava che lo sbeffeggiato non si limitasse a rispondere soltanto con la lingua.
Ogni paesino aveva il suo "eroe". Alla gara partecipava un esponente di ciascun villaggio più il vincitore dell'anno prima: quattro in tutto. Nel nostro borgo, quello centrale, si faceva un gran parlare di Levko, il biondo vincitore dell'anno precedente. Ma non mancavano simpatizzanti dell'altro corridore, Igor, più vecchio, dai capelli grigi; alle spalle numerose gare. Era falegname, e dalla morte dello zio paterno, Stepan Nazarovic, che lo era stato per quarant’anni, anche maestro di scuola. Questo ero io.
Secondo la consuetudine avevamo trascorso entrambi la mattinata lavorando sodo, proprio come un giorno qualsiasi, mostrando di non badare all'impegno che ci attendeva. Levko fra le sue vacche ed io nella mia bottega di falegname, dacché oggi a scuola era vacanza. Quando si approssimò l'ora della sfida, freschi come germogli di betulla, eccoci nella piazza dell'arrivo ad accogliere gli altri due cosacchi giunti dai villaggi laterali. Non mancavano i loro sostenitori, numerosi, esuberanti, euforici come sempre. Chiunque avesse vinto, avrebbero trascorso lì la notte, fra canti, balli e dispute, che non eccezionalmente degeneravano in risse, quasi sempre circoscritte e presto placate dall'intervento dei più savi. Alle prime luci dell'alba avrebbero intrapreso la strada di casa assieme ai loro campioni.
Confusamente ma in breve tempo, come obbedendo ad una regia latente, il gregge degli spettatori si dispose ai margini della piazza in modo da non intralciare le operazioni successive. Finché alle loro grida non si sostituì il suono cantilenato delle campane e fu il momento del pope con la benedizione rituale. Una sorta di esorcismo nei confronti della festa che affondava le sue radici in epoche sicuramente pre-cristiane. Le autorità ecclesiastiche, pur subodorando qualche residuo di paganesimo, non avendo avuto nel corso dei secoli forza sufficiente a proibirla (tanto era radicata fra la gente) avevano finito per parteciparvi e in qualche modo riassorbirla nel proprio seno. Lo starosta più anziano alzò le braccia al cielo: i concorrenti salirono sul carro e i giudici sui loro cavalli li seguirono.
I volti sul barroccio muti e arrossati dagli ultimi bagliori, apparivano imperscrutabili agli occhi di un profano. Ma io, che avevo percorso quel tragitto già tante volte, sapevo anche senza guardare. La paura, nelle sue varie forme, era di certo la sensazione predominante. E ognuno dava importanza alla sua. Paura della notte, degli avversari, paura di non farcela, degli spiriti, paura del torrente, della sua furia. Per me i demoni del bosco non costituivano un problema. Ad essere sinceri non credevo granché alla loro esistenza, e comunque sia reputavo la mia coscienza sufficientemente a posto da non temere nulla da quel lato lì. Piuttosto quello che mi tormentava era il tempo. Quello trascorso, e il mio secondo me non era poco; e quello della corsa, che naturalmente doveva essere inferiore al tempo degli altri tre per consentirmi di vincere.
Non conoscevo i nomi degli sfidanti degli altri villaggi, o forse non li rammento. Dal colore dei capelli li chiamavo il Rosso e il Bruno. Ricordo che una sottile occhiata d'intesa unì come un lampo i loro sguardi, ma non so dire se fu soltanto un'impressione. La mia attenzione si concentrava su Levko. Era fiero e sicuro di sé. Pensare che quando disputai la prima corsa era poco più di un cucciolo; fu anche l'unica volta che vinsi.
"Siamo onesti cosacco" pensai "non hai che una possibilità su cento di arrivare in piazza prima di lui. Anche se le insidie che il bosco nasconde sono molteplici e impreviste, anche se non conta solo il vigore per vincere, non ti rimane che una possibilità su cento."
Tuttavia ero pervaso da una forza interiore che m'induceva a sfidarlo, una forza che sfuggiva alla mia volontà, che sublimava la paura della sconfitta, anzi, starei per dire che la rendeva dolce, quasi auspicabile ... Che stessi diventando pazzo?
- E allora, cosacchi, chi arriverà primo quest'anno? - Irruppe profanando la quiete il vecchio carrettiere, inebetito dal vino e dal silenzio. Nessuno rispose. E d'altronde il risultato non sarebbe stato diverso se avessimo risposto tutti, giacché ognuno di noi avrebbe assicurato che sarebbe stato lui stesso a vincere. Ma nonostante la sua fosse una domanda tanto inutile quanto inopportuna, nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa. Non era la prima volta che si prestava a trasportare i corridori, solo per il gusto di viaggiare con noi, o per sentirsi in qualche modo vivo ed utile alla comunità. Lavoro ingrato, perché lui sarebbe stato l'unico a non vedere l'arrivo della gara, dato che la strada sterrata era più lunga del sentiero nel bosco e il carro più lento dei corridori. Forse per questo ogni volta domandava in anticipo chi avrebbe vinto, e anche perché al ritorno avrebbe avuto tutto il tempo di starsene solo e muto.
Nel silenzio procedemmo come di rito a sfilarci le casacche che appoggiammo sul carro. Una volta scesi, i giudici ci avvisarono di un particolare che conoscevamo bene:
- Il ponte è fuori uso. Perciò dovrete guadare dove l'acqua del torrente ve lo consentirà.
Il ponte che avevamo oltrepassato con il barroccio non faceva parte del sentiero della gara e dunque non ci era consentito utilizzarlo. Significava allungare il percorso di almeno due o tre verste, e un'insidia in più; giacché si può bene immaginare quanto sia complicato al buio trovare il punto meno lontano dove guadare il torrente senza rischiare di restarci per sempre.
Non appena uno dei giudici con un colpo di fucile in aria diede inizio alla corsa, s'udì lo scalpitio dei loro cavalli spronati con foga verso l'arrivo, quasi fossero loro i contendenti. Da parte nostra prendemmo a correre nella penombra sgomitandoci senza convenevoli per aprirci un varco nel sentiero reso angusto da una fitta vegetazione. Ci rincorrevamo in fila indiana a distanza tanto ravvicinata che ognuno poteva sentire il fiato del diretto inseguitore. Tutti tranne me. Buon ultimo, controllavo le intenzioni degli altri, e soprattutto avevo esperienza del moltiplicarsi delle insidie dopo la prima versta: la piana s'interrompeva e subentravano curve a gomito a secondare un'altura. Era facile in quei tratti di terreno sassoso precipitare nel dirupo e cadere preda delle fiere.
Fu Levko a prendere il comando della corsa, l'unico ad avere i capelli così chiari; inconfondibile pure nella luce sempre più tenue. Dietro di lui, appaiati gli sfidanti dei villaggi laterali. Gli strigiformi emettevano il loro cupo e profondo bubbolio intercalato da frequenti stridii piuttosto acuti, che s'infrangevano nel freddo silenzio della foresta. Forse avveniva un po' prima del consueto e questo poteva essere interpretato di cattivo auspicio, ma non da me che ero concentrato nella gara e che la malasorte ero portato a vederla più dentro me stesso che nei segnali esterni. Percepii un drappello di corvi nel loro ultimo vagabondare della giornata. Dalla testa s'udì un lamento secco e trattenuto che si impose al sottofondo naturale. "Vedrai che Levko non s'è accorto di qualche ostacolo", pensai. Essere primi implicava il rischio di cadere nelle piccole insidie non prevedibili e di evitarle agli inseguitori, ma, buon per lui, stavolta ne era uscito senza danni seri. La sua generosità agonistica confinava con l'incoscienza; sono certo che fosse consapevole dei pericoli che avrebbe corso portandosi al comando fin dall'inizio, ma la sua tempra e la fiducia nelle proprie forze non gli consentivano un atteggiamento diverso.
Senza troppi ostacoli raggiungemmo il torrente e qui ci affidammo alla luna per trovare la via più adatta a superarlo. Levko non si avventurò a cercare scorciatoie e fece assegnamento sulla sua energica falcata per guadagnare ancora vantaggio. Il Rosso e il Bruno invece rallentarono appena, e dai loro movimenti mi parve di capire che avevano fiutato un punto buono prima del previsto. Sarebbe stato un bene anche per me che li seguivo dappresso e avrei potuto avvantaggiarmi della loro scoperta. Ecco che il Rosso si avventura in una piccola ansa del torrente dove le acque danno l'impressione di rallentare. Anche io mi preparo a seguirli. Ma un tonfo sordo nell'acqua mi blocca; seguono concitate imprecazioni urlate con rabbia e intravedo il Rosso aggrapparsi al Bruno che stenta a trascinarlo fuori dalla corrente. Non era un punto buono. Sono frazioni di tempo preziose. Riesco a superare i due che adesso sono fuori pericolo ma, oramai, salvo sorprese, fuori anche da ogni possibilità di vittoria. Mi getto all'inseguimento di Levko riscosso da quella sorta di abulia che mi aveva colto prima della gara. In me si stava risvegliando l'istinto della competizione. Avrei dato una lezione di umiltà a quello sprovveduto che da troppo ormai si pavoneggiava in testa alla corsa.
"Fra breve il sentiero si restringe" pensavo "ecco, è ora, prima della grande quercia. Mi sembra di recuperare lo svantaggio, magari solo di un palmo ma ho la sensazione netta di essergli più vicino, e quei due alle mie spalle non li sento più, devo averli distanziati ancora. Vedrai che alla strettoia rallenta, le curve aumentano e anche le buche, io invece lo conosco bene quel tratto, e inoltre c'è il torrente..."
In realtà Levko, salvo una lieve incertezza nei pressi della quercia, non perse terreno. E il torrente fu in grado di superarlo nel punto migliore senza concedermi alcun vantaggio. La distanza che ci divideva restava invariata o era diminuita di poco, malgrado io gettassi nel fuoco dell'agone tutte le mie risorse. Caddi in preda allo sconforto che in breve divenne disperazione rabbiosa e sconnessa. Mi diedi a maledire la mia irresolutezza che gli aveva consentito di guadagnare un vantaggio divenuto insormontabile, e se non fosse stato per il fiato grosso avrei voluto imprecare ad alta voce. Quella forza interiore che mi aveva colto sul carro e che m'avrebbe persino reso gradita la sconfitta, in quel momento era divenuta estranea. Ma tutto avveniva dentro al mio cuore affannato, impercettibilmente, avvolto nell'oscurità e nei suoni limpidi e lontani della foresta.
"Perdio che succede..." pensavo ansimando "si allontana di nuovo... le mie gambe non girano più e saremo a meno di due verste dal villaggio... Già s'intravvedono i fuochi. Maledette gambe di pasta frolla non lasciatemi adesso..."
Il dolore al fegato che mi aveva colto verso la metà della gara non lo sentivo più, soffocato dalla fatica e dalla respirazione che aveva preso il ritmo di una vecchia locomotiva a stantuffi lanciata nella piana sterminata. Solo una forza sovrumana poteva soccorrermi. Dio in persona, che ora chiamavo in causa quasi ad ogni passo, o magari i geni del bosco, sui quali peraltro non riponevo grande fiducia.
"Dio delle foreste, è un cosacco o un demonio?... Sia l'uno o l'altro non devo arrendermi adesso. C'è ancora speranza..." Era comunque uno spettacolo assistere alla sua corsa, anche se ora il buio era tale che si poteva soltanto intuire, immaginare. I suoi passi erano continui, cadenzati, esuberanti come il torrente in piena; li sentivo dentro di me più netti delle mie pulsazioni.
"Coraggio cosacco devi mettercela tutta!" Ripetevo a me stesso "Devi raggiungerlo, devi vincere!"
Già, vincere. Sarebbe stato come appropriarsi per un istante, l'attimo della vittoria, dell'armonia della sua corsa, del suo vigore; e... guardando in faccia la realtà, quella sarebbe stata la mia ultima occasione. Lo scorso anno mi ero ritirato prima di raggiungere il torrente. Avevo dato la colpa alla radice sporgente di un albero, ma la verità era che stavo diventando vecchio. Tuttavia allora non rimuginai queste cose, e fu meglio così. Pensa solo a quello che fai se vuoi farlo bene, ripeteva il povero maestro Nazarovic; e io in quel momento badavo soltanto a correre, correre più forte delle forze che mi rimanevano.
Un rumore improvviso e un grido ruppero la mia concentrazione a meno di una versta dalla fine. Trasecolai dinanzi alla sagoma di un uomo capovolto. Aveva la testa in giù e le gambe in aria. Stavo per ricredermi sui poteri degli spiriti. Avvicinandomi riconobbi Levko divincolarsi con una gamba bloccata da un laccio, il capo era appena sospeso da terra. Era preda di una trappola, lasciata così vicina al villaggio da qualche cacciatore sprovveduto.
La fortuna giocava a favorirmi. Il primo, annientato da una beffa della sorte senza che io avessi mosso un dito e senza obbligo alcuno da parte mia di prestargli soccorso, e gli inseguitori troppo lontani per raggiungermi. Neppure la mia coscienza di cosacco avrebbe avuto nulla da rimproverarsi: Levko era in una posizione scomoda ma non correva pericoli, appena arrivato avrei mandato qualcuno a liberarlo. Tuttavia non mi sentivo per niente appagato. Avvertivo a pieno i suoi lamenti stizzosi e i vani tentativi di liberarsi dal cappio, tanto che per qualche lungo istante sembrò come se la sua anima fosse penetrata in me. E fu una sensazione niente affatto piacevole perché la disperata sorpresa del giovane cosacco era diventata la mia sorpresa, e così il suo dolore, la rabbia, la paura, il senso di una sconfitta immeritata. Le cose non stavano seguendo il giusto ordine, e anche se all'apparenza andavano a mio favore, ero io il primo a soffrirne. La necessità di rimediare all'ingiustizia si palesò con urgenza; non erano ammesse esitazione che avrebbero fatto il gioco degli inseguitori; la stanchezza premeva affinché arrivassi al più presto, e pur non essendo del tutto convinto mi avvicinai e Levko, senza che dicessi nulla, si aggrappò alle mie gambe sollevandosi appena. Così potei più facilmente allentare il cappio e liberarlo. Con un balzo si ritrovò in piedi e pronunziò un grugnito incomprensibile che mi parve carico di riconoscenza. Indugiò prima di ripartire. "E' dolorante" pensai, "oppure vuole avvantaggiarmi."
Ero stremato e aspettavo da un momento all'altro di venire raggiunto da qualcuno. Gli acuti delle civette si affievolivano mentre il bagliore dei fuochi sulla piazza diveniva sempre più nitido. "Cosa fa... non mi supera ancora?" Mi domandavo "Forse è ferito... Ma no, i suoi passi li sento bene... forti e regolari come sempre. Vuole farmi vincere... vuoi vedere che per ringraziarmi vuole farmi vincere. Non è giusto così non è vincere..."
In prossimità dell'arrivo quando la presenza dei paesani si manifestava nella baraonda della festa e nelle urla di incitamento, mi voltai a guardare il mio avversario. Non vidi molto perché incespicai in una buca caracollando in avanti per qualche passo verso il traguardo, e quando forse Levko mi aveva riagguantato stramazzai al suolo. Ero sfinito per rendermi conto di quanto avveniva, e la caduta mi fece perdere i sensi. Fui probabilmente l'unico partecipante nella atavica storia della Corsa del bosco a condividere la sorte del carrettiere: non assistere all'arrivo.
Quando rinvenni, ero lucido abbastanza da chiedere alle persone che trovai accanto a me di non rivelarmi né ora né mai il nome del vincitore. In caso di vittoria mi dichiaravo pronto a rinunciare al vitello grasso che avrei offerto in beneficenza ai bambini più poveri del villaggio. Vincitore o sconfitto, ne avrei parimenti sofferto. Dimenticare tutto: ecco la soluzione ideale; nondimeno subentrava un'emozione imponderabile che m'introduceva in una sorta di eccitamento vitale che avevo già conosciuto. Qualcosa che giungeva da lontano, dagli albori della vita, ma non soltanto dalla mia, dall'infanzia primeva dell'intera umanità. Malgrado ciò non avrei mai voluto sapere come fosse finita quella gara. Com'era prevedibile il segreto non durò a lungo, soltanto i giorni trascorsi in casa per riprendermi dalla caduta. Circa una settimana più tardi alcuni scolari parlando fra di loro, senza volerlo mi rivelarono che nonostante tutto, nonostante me stesso, ero arrivato primo.

© Enrico Meloni





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