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L'anacronismo del possibile, dalla fantascienza alle pratiche radicali
di Antonio Caronia
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L'anacronismo del possibile, dalla fantascienza alle pratiche radicali

Di fronte a un libro che raccoglie vecchi articoli e saggi, può venire il dubbio che si tratti di un libro eterogeneo, un mosaico di testi dalle tessere non connesse, un vestito d’Arlecchino che non ha giustificazioni se non nell’egocentrismo e nella smania di protagonismo dell’autore. Non sarò certo io a negare questa possibilità. E tuttavia credo che ci sia una logica, tanto nella scelta di ripubblicare questi scritti, non più in circolazione da tempo, quanto nella connessione fra i temi delle tre parti di questa raccolta.

I testi qui compresi sono stati scritti e pubblicati la prima volta fra il 1981 e il 2005, e nessuno di essi è stato ripresentato al pubblico da quel momento. Certo, molti dei concetti e dei contenuti che vi si trovano sono stati da me riutilizzati nei vari libri che ho scritto da allora, da Il cyborg (uscito per la prima volta nel 1985 e ripubblicato altre due volte dalla ShaKe edizioni nel 2001 e nel 2008), a Il corpo virtuale (Muzzio 1996), ai due libri scritti con Domenico Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del cyberpunk (Baldini & Castoldi 1997) e Philip K. Dick. La macchina della paranoia (X book 2006). Alcuni spunti, però (se non parecchi) non sono stati più ripresi, e meritavano forse di essere riproposti al pubblico, fosse anche solo per verificarne l’obsolescenza o l’infondatezza. Inoltre, può avere un qualche interesse ripercorrere l’evoluzione (e magari anche il cambiamento del punto di vista) di alcune elaborazioni. Nessuno dei testi qui presenti, voglio precisare, è compreso nell’altra raccolta di articoli e saggi che ho pubblicato in Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi (ombrecorte 2001).

 

Ma perché riproporre proprio adesso un discorso sulla fantascienza, e cioè su un genere letterario che sembra arrivato alla fine della sua parabola, all’esaurimento della sua spinta vitale? Sto scrivendo queste pagine introduttive a pochissimi giorni di distanza dalla morte di James G. Ballard, e pochi mesi dopo aver finito di tradurre la sua ultima opera, l’autobiografia I miracoli della vita, pubblicata in Inghilterra nel 2008. Anche in questo libro Ballard conferma l’opinione già espressa negli anni sessanta, cioè che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura:

 

Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato.(1)

 

Le ragioni di questo giudizio, che a me pare molto condivisibile, sono varie, ma la più importante è probabilmente che la fantascienza, quando nacque come fenomeno dell’industria culturale agli inizi del Novecento, non partiva, come l’utopia, da una idea originaria e ideale di natura, ma dalla natura come era stata trasformata nella fase espansiva del capitalismo. Era, insomma, il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società industriale. L’immaginario della fantascienza dagli anni dieci ai sessanta del Novecento era collegato al sogno di un’espansione illimitata della produzione, costruendo una saga dell’energia che si autoriproduceva, un inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità. E questo era fortemente in sintonia con le tendenze del secolo. Certo, lo stesso Ballard, all’inizio degli anni sessanta, proponeva un’altra visione e un’altra pratica della fantascienza, un’esplorazione dello “spazio interno„ invece che dello spazio esterno: egli stesso era interessato a narrare i processi individuali e sociali che “trascrivevano„ nella mente umana e nello stesso sistema nervoso le costellazioni dell’immaginario della breve e intensa “era spaziale„. La fantascienza di Ballard, come quella di Dick e di Vonnegut, come quella ancora più visionaria ed eterodossa di William Burroughs, preparava insomma la via alla svolta degli anni settanta, quando la fantascienza avrebbe accompagnato la trasformazione dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario: le tematiche dell’equilibrio ecologico del pianeta scosso e minacciato, la contaminazione delle tecnologie coi corpi, come si sarebbe espressa negli anni ottanta nel movimento cyberpunk (che della fantascienza fu in effetti il canto del cigno).

Questo fu l’uso della fantascienza che proposero, alla fine degli anni settanta, tanto la cultura underground quanto alcuni filosofi visionari e radicali come Baudrillard (2). Era un lavoro sull’immaginario sociale, che, in sintonia con le tendenze emerse in Italia nel movimento del 77, utilizzava la fantascienza non solo e non tanto per le sue qualità letterarie, ma al contrario per la capacità che essa aveva di esprimere (con la necessaria ambivalenza) un modello sociale in ascesa e, all’interno di esso, le faglie e i punti di crisi che si andavano preparando. Questo, io credo, fu il significato dello slogan radicale che Un’ambigua utopia lanciò sin dal suo primo numero nel dicembre 1977: “Distruggere la fantascienza” (3): utilizzare l’immaginario fantascientifico per nutrire l’immaginario sociale, organizzare la migrazione delle figure, delle situazioni, delle alterità, dalle pagine dei romanzi e dagli schermi dei cinema alla vita reale. “Praticare l’utopia” Questo fu il “programma” con il quale Un’ambigua utopia si presentò negli anni in cui sviluppò la propria esperienza, e questa fu la proposta che io cercai di portare, per tutti gli anni 1980 e i primi 1990, nella mia attività giornalistica come è documentata in queste pagine.

Certo, la “distruzione” della fantascienza poi ci fu, ma in un senso un po’ diverso da quello che noi propugnavamo nei primi anni ottanta. Era evidente che la fantascienza non poteva sopravvivere, né nella sua forma “ottimista” né in quella di “testimonianza” della crisi, all’avvento della nuova fase del capitalismo iniziata sin dalla metà degli anni settanta. I generi della letteratura popolare sono, più di altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi sociali. La fantascienza come genere letterario è morta, quindi, nel momento in cui la società non riusciva più a “progettare il proprio futuro”, nel momento in cui l’emergere di un’economia del segno, del simbolico (già presagita da Baudrillard nel pieno degli anni 1970) accelerava e ristrutturava i processi sociali dilatando l’attimo singolare in una dimensione estesa e onnicomprensiva, sino a inglobare passato e futuro in un “eterno presente”. Una letteratura pensata e declinata al futuro non ha più nulla da dire, e quindi impallidisce e si stempera, nella società del “tempo reale”.

Si potrebbe pensare, allora, che la fantascienza di quegli anni rivesta al massimo un valore documentario, e che rileggerla oggi abbia un interesse limitato, “archeologico” in senso tradizionale. Essa sarebbe stata “contemporanea” nel momento in cui venne scritta, e sarebbe oggi irrimediabilmente datata. Certo, è evidente che essa testimonia di una congiuntura culturale, politica e sociale che non è quella di oggi. Ma noi sappiamo che la nozione di “contemporaneità” non è così semplice e linearmente definita come il termine farebbe supporre, che la relazione di persone, azioni, eventi, col proprio tempo è più complessa e problematica:

 

Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. (…) La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo.(4)

 

Il fatto che in campo letterario la fantascienza sia tramontata, non significa affatto che essa non sia più “attuale„: tanto è vero che i suoi temi, le sue strategie narrative, le sue modalità discorsive stanno migrando già in questi anni nelle produzioni della nuova industria culturale, nei nuovi generi che si preparano e già vivono nella narrativa, nel cinema, nei videogiochi, dal fantasy al noir. Ma non solo. Lo sguardo della fantascienza critica è quello che seppe percepire “il buio del suo tempo”, che seppe “neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci” (5). Se la fantascienza di Dick, Ballard e Burroughs ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo” (6), fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla.

Il valore della fantascienza, a ben vedere (soprattutto e con maggiore consapevolezza il valore della fantascienza radicale), stava in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – e a volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà”, metteva in dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente, reintroduceva a vele spiegate (talvolta con irritante ingenuità, è vero, ma spesso invece con irresistibile acutezza e sagacia) il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale. Realizzava insomma, all’interno dell’industria culturale, quella rivalutazione del “senso della possibilità„ sostenuta negli anni 1930 da Robert Musil:

 

Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è.(...)

 

Il possibile però non comprende soltanto i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio. Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito o un’invenzione. (7)

 

In secondo luogo, la fantascienza traduceva in termini molto accessibili la crisi del soggetto narrante impersonale e onnisciente su cui si basava il romanzo realistico ottocentesco. Introducendo nella narrazione il punto di vista del futuro (o del passato, o del presente alternativo), contribuiva a mettere in discussione la neutralità della narrazione, e mostrava più in generale che ogni discorso viene enunciato da un luogo preciso, da un tempo determinato, da un corpo concreto. E che quindi è illusorio – e quasi sempre mistificante, e prevaricante – assegnare a certi racconti, a certi saperi, a certe enunciazioni, un valore assoluto e universale, svincolato dalle condizioni storiche e contingenti delle narrazioni, dei saperi, delle enunciazioni. Che ogni sapere ha (per usare il termine di Foucalt) un’epistéme (8), che ogni discorso è prodotto da una “formazione discorsiva”. Che ogni conoscenza è “situata„. Le stesse cose che, più o meno negli stessi anni, andava scoprendo il pensiero femminista, per rivelare le mistificate radici maschili e fallocentriche del pensiero occidentale (9).

Ecco che cosa lega la fantascienza (nella sua accezione più radicale e davvero immaginativa) alla critica corrosiva del fake, alle identità immaginarie e collettive, alla guerriglia mediatica. Che è quella che praticò per breve tempo il movimento studentesco del ‘68 a Parigi come a Roma e a Berlino (prima di finire frantumato e immiserito nella diaspora dei presuntuosi e impotenti gruppetti della sinistra sedicente “rivoluzionaria”), quella che continuò a vivere con l’endemica rivolta dei giovani operai italiani ed europei per tutti gli anni settanta – nella quotidiana ricerca di invenzioni per realizzare il rifiuto del lavoro, quella che deflagrò come pratica condivisa e unica forma possibile di insurrezione a Bologna fra la fine del 1976 e il marzo del 77. E che riemerse negli anni novanta, dopo una maturazione carsica di oltre un decennio, nelle nuove forme di dètournement, nelle pratiche della net art e delle “zone temporaneamente autonome”, nel cyberpunk sociale e nelle identità fittizie e collettive. A partire da Luther Blissett (10). Per arrivare all’Onda Anomala e ad Anna Adamolo (11).

Quando l’“era della comunicazione” sembrava aver sconfitto – con un appiattimento generale dei media, dei partiti, addirittura del “senso comune”, su una nuova specie di “pensiero unico” – ogni progetto sociale alternativo, ogni pratica anormale, ogni comportamento sovversivo, proprio allora, a oltre dieci anni da Radio Alice, a oltre vent'anni dal maggio francese, riemergeva l'esigenza di una politica radicale, di una politica “di base” attenta quanto quella ufficiale alla sintassi e alla pragmatica della comunicazione, ma capace di rovesciare specularmente il linguaggio del potere e del conformismo sociale. Détournement, guerriglia comunicativa, falsi, subvertising, erano tutte tattiche che non si limitavano (come la vecchia controinformazione) a smascherare l'uso ideologico e mistificato della comunicazione ufficiale, ma agivano direttamente come costruzione di pratiche sociali, di nuove relazioni:

 

La comunicazione comprende molti più processi di quanto faccia supporre una diffusa visione tecnicistica: essa non si limita ai mass media o a tecnologie come fax, cellulari, computer e modem; queste cianfrusaglie, se da un lato possono tornare utili, dall'altro vengono enormemente sopravvalutate. Almeno altrettanto importanti delle tecnologie di comunicazione sono le forme di comunicazione quotidiana faccia a faccia, e le strutture sociali di comunicazione, nelle quali i rapporti di forza vengono continuamente prodotti e riprodotti. Agire diversamente dal previsto all'interno di queste strutture, sotttarsi a determinate forme della comunicazione e del dialogo, può rivelarsi una chiara ed efficace critica a poteri presuntamente “naturali” e dati per scontati (…) Il come si critica è altrettanto se non più importante del cosa si critica. (12)

 

Luther Blissett, che tanto interessato scandalo suscitò nei media italiani fra il 1993 e il 1997, ebbe il merito di fornire ottimi esempi di come costruire pratiche di questo genere, ricollegandosi a tutta una tradizione di movimenti culturali di opposizione alla società e all'arte ufficiali (13): e aprì così la strada a tutta una serie di pratiche, espresse limitatamente nel movimento antiliberista detto “no global” che ebbe inizio a Seattle nel 1999, e molto più ampiamente nei movimenti dei lavoratori precari e cognitivi (Chainworkers, con San Precario e Serpica Naro), per arrivare alla recentissima “Onda Anomala”.

Questo libro intende, quindi, solo documentare il piccolo contributo di una specifica e non determinante soggettività a tutto questo lavoro culturale e politico. Perché di attività politica (in senso lato) si è trattato, almeno nelle intenzioni dell’autore di questi scritti. E l’autore li affida al lettore sperando che essi abbiano ancora qualcosa da dire anche a chi è nato dopo che tutte quelle esperienze si sono consumate: che essi possano mostrare che ribellarsi è giusto, che ribellarsi è possibile, ma che la radicalità della ribellione non esclude né l’eleganza dell’azione né il divertimento nel prepararla e nel compierla.

 

 

 

NOTE

 

(1) James G. Ballard, I miracoli della vita, trad. it. di A. Caronia, Feltrinelli, Milano 2009, p. 162.

(2) Jean Baudrillard elaborò nel 1978 alcune osservazioni su Dick e Ballard contenute nel suo Lo scambio simbolico e la morte (pubblicato nel 1976) in una relazione presentata al convegno di Palermo (“Simulacri e fantascienza” in La fantascienza e la critica. Testi del Convegno internazionale di Palermo, Introduzione e cura di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 52-57). Io curai la traduzione di quello e di altri saggi del volume, e ne fui fortemente influenzato.

(3) Un’ambigua utopia uscì tra il 1977 e il 1982, e fu l’esperienza più nota tra quelle che realizzarono, in quegli anni, una lettura radicale “da sinistra” della fantascienza. L’edizione integrale dei nove numeri della rivista, con nuovi commenti e materiale iconografico, è in preparazione presso le edizioni Mimesis di Milano. Tuttavia essa non fu l’unica, e fu influenzata da tutto un clima italiano e internazionale. Citiamo, per il nostro paese, la breve esperienza della rivista Robota nervoso e il volume di Diego Gabutti Fantascienza e comunismo, La Salamandra, Milano 1979, e a livello internazionale, naturalmente il Manifesto cyborg di Donna Haraway uscito nel 1985.

(4) Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-9.

(5) Ivi, p. 14.

(6) Ivi, p. 15.

(7) Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino ???, pp. 13/14.

(8) Per la nozione di epistéme si vedano principalmente, di Michel Foucault, Le parole e le cose (ed. it. Rizzoli, Milano 1967) e L’archeologia del sapere (Rizzoli, Milano 1971).

(9) Per un’introduzione alla tematica dei “saperi situati„ da un punto di vista femminista, si può vedere “Saperi situati: la questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale”, in Donna Haraway Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995.

(10) L’esperienza del “nome collettivo” o “condividuo” Luther Blissett è riassunta nei volumi Mind invaders. Come fottere i media: manuale di guerriglia e sabotaggio culturale, Castelvecchi, Roma 1995, e Totò, Peppino e la guerra psichica. Materiali dal Luther Blisset Project, AAA edizioni, Bertiolo 1996. Alcuni componenti del gruppo bolognese di Luther Blissett, dopo aver pubblicato con quel nome il romanzo Q (Einaudi, Torino 1999) hanno dato vita al gruppo letterario Wu Ming.

( 11) Anna Adamolo è un nome collettivo nato nel novembre 2008 all’interno del movimento dell’“Onda anomala„ (le lotte di studenti, insegnanti, precari e genitori contro i tagli all’istruzione decisi dal governo Berlusconi e applicati dal ministro Gelmini). Vedi i siti www.ministeroistruzione.net e https://annaadamolo.noblogs.org, oltre al volume Sono Anna Adamolo. Voci e racconti dall’Onda Anomala, NdA Press, Santa Giustina 2009.

(12) autonome a.f.r.i.k.a. Gruppe, Luther Blisett, Sonja Brünzels, Comunicazione-guerriglia. Tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all'oppressione [1997], DeriveApprodi, Roma 2001, p. 17.

(13) Un storia sintetica ma ben documentata (e con uno sguardo opportunamente “partigiano”) di questa tradizione è il libro di Stewart Home, Assalto alla cultura. Correnti utopistiche dal Lettrismo a Class War [1988], AAA edizioni, Bertiolo 1996.

 

Antonio Caronia
Universi quasi paralleli. Dalla fantascienza alla guerriglia mediatica
Cut-up edizioni, Roma 2009, pp. 208, € 13

Ufficio stampa: tel. 3293234068

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