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Elisa
di Maria cristina Piazza
Pubblicato su PBSA2021


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Quante storie conosce il mare! Se ti siedi sulla riva e ascolti in silenzio lo sciabordio dell’acqua sulla riva, lo sgranellare dei ciottoli …forse, sentirai la voce del mare che racconta.

L’alba incominciava ad illuminare le viuzze del paese ancora assonnato, una porta si aprì e, insieme agli odori della notte, uscì una ragazzetta scalza, con una grossa conca per l’acqua in perfetto equilibrio sulla testa; appena più avanti le si affiancò un’altra figuretta snella, anche lei diretta alla fonte comunale. La nuova arrivata, Elisa, aveva lunghi capelli biondi, raccolti in due trecce arrotolate sulla nuca, gli occhi verdi e un portamento elegante, in contrasto con il modesto abbigliamento da popolana. Le due giovani amiche si misero in attesa del loro turno, tra le altre donne, chiacchierando allegramente. Quando ebbero riempito i loro recipienti, lentamente, per non perdere nemmeno una goccia del prezioso liquido, a una a una le donne si allontanarono da quella fonte che assicurava l’acqua al paese, ciascuna rivolta col pensiero alla propria casa e alle occupazioni di ogni giorno. Elisa, preparò in fretta il cesto con il pasto che suo padre e i suoi fratelli maggiori avrebbero consumato a mezzogiorno, nella piccola masseria appena fuori del paese, avvolse in un panno logoro ma fresco di bucato le puccette con le olive, che a suo padre piacevano tanto, un po’ di cicoria e un orcio di vino, l’acqua fresca l’avrebbero attinta ad una fonte vicina. Quando gli uomini furono usciti, la ragazza indossò un grembiule e si dedicò alle consuete faccende domestiche. La sua era una delle famiglie più modeste del paese ma Elisa curava instancabilmente la piccola casa e si dedicava ai suoi uomini, come avrebbe fatto sua madre, se non fosse morta mettendola al mondo, diciassette anni prima. Nelle prime ore del pomeriggio, quando ebbe terminato di preparare la cena, si sedette, stanca, aspettando l’ora della messa; quando la campana della parrocchia cominciò a suonare, la ragazza si mise sulla testa uno scialle nero e si incamminò verso la chiesa. Lei e la sua amica Venerina si sedettero di lato all’altare, nel gruppo del coro accanto all’organo. La funzione ebbe inizio ma quel giorno, la bella voce da contralto di Elisa, solitamente guida e sostegno del gruppo, sembrava tenue, quasi impercettibile, sovrastata com’era da un potente baritono. Elisa si guardò intorno sorpresa da quella novità, cercando di individuare la provenienza di quella voce e rimase esterrefatta, quando si accorse che emanava dalla bocca del “Bracco”, il barone del paese, un bell’uomo sui quarant’anni, impettito ed elegante, col cappello, gli stivali e il bastone da passeggio nel banco della sua famiglia, accanto alla moglie, donna Camilla, una donna magra, con i capelli raccolti in una retina, un nastrino di velluto nero intorno al collo, piccolina e sparuta accanto a quell’omone. Elisa osservava quella coppia così male assortita, quando, imprevedibilmente, lo sguardo del barone si posò su di lei; imbarazzata, la ragazza abbassò subito lo sguardo, continuando a cantare; indispettita e arrabbiata con sé stessa, si accorse di essere arrossita. Durante la funzione religiosa, sentì continuamente gli occhi del barone su di lei e ciò la confuse; smise perfino di cantare, tanto era frastornata: era abituata alle occhiate e ai complimenti dei suoi coetanei, al massimo dei compaesani adulti, ma era la prima volta che le capitava di suscitare l’interesse di un signore, quel signore, il barone, la persona più potente e in vista, non solo del paese ma di tutta la provincia, davanti al quale uomini e donne abbassavano la testa in segno di rispetto. Elisa non conosceva di persona il barone e la sua famiglia, li aveva sempre visti da lontano, come chiusi in una bolla d’aria che li isolava dal resto dell’umanità, aveva tante volte sentito suo padre parlare con rispetto di quella gente e, in particolare del vecchio “Bracco”, ormai morto da anni, un signore all’antica, giusto, che nel suo testamento aveva assegnato dei lasciti a tutti i suoi servi più fedeli, tra i quali il nonno di Elisa e la piccola masseria che dava loro da vivere, testimoniava proprio quella magnanimità. Dopo la benedizione, Elisa si mescolò alle altre donne e uscì in fretta dalla chiesa, con gli occhi bassi, per paura di incontrare quello sguardo che l’aveva agitata durante tutta la funzione religiosa. Il giorno seguente, in chiesa, la voce del barone di nuovo dominò incontrastata tutte le altre, mentre i suoi occhi fissavano costantemente Elisa e così avvenne nei giorni successivi; lei, dal canto suo, era ossessionata da quell’interesse che non riusciva a spiegarsi, era diventato un chiodo fisso, un segreto che teneva chiuso dentro di sé, non lo aveva confidato a nessuno, nemmeno alla sua cara amica, aveva paura, non sapeva nemmeno lei di che cosa, come se qualcosa di terribile incombesse su di lei. Dopo qualche giorno, all’improvviso, le finestre del grande palazzo baronale al centro del paese, furono serrate: la famiglia si era trasferta nella residenza di città, a Lecce, come ogni anno in autunno. Elisa sentiva il vuoto intorno a sé, ripeteva i gesti di ogni giorno per necessità, per abitudine, le sembrava di aver perso qualcosa di essenziale, insostituibile. Una sera, qualche tempo dopo, al ritorno dalla campagna, il padre disse ad Elisa che doveva parlarle, il barone era venuto quella mattina alla masseria e gli aveva fatto una proposta: voleva prendere a servizio nella sua casa Elisa, come bambinaia; sarebbe venuto quella sera stessa per avere una risposta. Infatti, nel silenzio interrotto dal crepitio del focolare, rimbombarono dei colpi decisi alla porta. Elisa, sconvolta, non riusciva nemmeno a guardare in faccia l’uomo imponente che riempiva con la sua figura la cucina e a malapena riuscì a rispondere al saluto e a introdurre l’illustre ospite. Suo padre, emozionato dalla presenza di un tale personaggio nella sua modesta casa, rinnovò al barone la dedizione sua e della sua famiglia; don Vito rispose che alcuni conoscenti gli avevano parlato bene di Elisa, della sua serietà e così aveva deciso di assumerla. Quando il barone se ne andò, la ragazza rimase turbata, le sembrava di aver sognato; non aveva mai pensato di lasciare la sua famiglia, come avrebbero fatto senza di lei? Avrebbe vissuto in città e per lunghi periodi non avrebbe rivisto il padre e i fratelli. Non riusciva a immaginarsi in una casa sconosciuta, ricca, a contatto con gente estranea, altolocata, non sapeva se sarebbe stata all’altezza di ciò che si aspettavano da lei. Suo padre la rassicurò: era brava, intelligente, avrebbe imparato in fretta e, grazie a lei, loro avrebbero avuto una vita migliore, i suoi fratelli avrebbero potuto comprare un pezzo di terra ciascuno e sposarsi. Così Elisa si trasferì nel palazzo baronale; era sempre indaffarata, i bambini erano capricciosi, viziati, abituati a fare come volevano, erano cresciuti senza una guida, dal momento che la baronessa era quasi sempre chiusa nella sua stanza, alle prese con qualche malanno da curare con pillole, salassi e sciroppi. Il barone Vito era spesso fuori, anche per vari giorni, nelle vaste proprietà di famiglia, a seguire i lavori agricoli, riscuotere gli affitti, controllare i magazzini; qualche volta, arrivava carico di cacciagione: starne, quaglie, tortore, che poggiava sul grande tavolo di marmo della cucina, incaricando Elisa di cucinarle; lei lo accontentava, felice di fare qualcosa proprio per lui, che gli facesse piacere, aveva capito che era un uomo solo, sposato come allora accadeva nelle famiglie nobili, per convenienza, a una donna ricca e aristocratica come lui, con la quale aveva in comune interessi economici e due figli. La baronessa soffriva di cuore. Una sera ebbe un malore: quando il medico arrivò, la situazione era precipitata e urgentemente fu chiamato il sacerdote. Morì durante la notte, impercettibilmente come era vissuta, lasciando un ricordo labile perfino nella memoria dei suoi figli, che erano stati cresciuti dalle governanti ed avevano sentito appena la presenza della loro madre. Sei mesi dopo la morte della moglie, il barone chiamò Elisa e le confermò ciò che lei da tempo aveva intuito: le voleva bene da quel giorno in chiesa; l’avrebbe tenuta sempre con sé ma non l’avrebbe mai sposata, motivi di opportunità sociale glielo impedivano, come lei poteva facilmente immaginare. Elisa era perfettamente consapevole della distanza che li separava, lui era il barone, don Vito “il Bracco”, lei soltanto Elisa, la figlia di Eliseo, un contadino. Comunque, quelle parole furono per lei un dolore, la fine di un sogno. La loro vita non ebbe sostanziali cambiamenti: lui continuò ad occuparsi delle proprietà, lasciando a lei la cura dei ragazzi e dell’organizzazione domestica, a Lecce in inverno, nel grande palazzo di Presicce nella bella stagione. La servitù cominciò a chiamarla Donna Elisa. Qualche mese dopo, lei entrò nello studio e chiese al barone di parlargli: vergognosa, a testa bassa, gli disse di aspettare un figlio da lui; don Vito la guardò severo, come se volesse rimproverarla, poi però, sorridendo, la rassicurò, le disse di non preoccuparsi, avrebbe pensato lui a tutto. Qualche giorno dopo la mandò in una masseria distante da Lecce, con una vecchia serva, che era da molti anni al suo servizio. In campagna Elisa visse la gravidanza, fantasticando sul futuro di suo figlio e sulla sua vita da mamma. Arrivò il momento del parto: la vecchia domestica aiutò il bambino a nascere, poi, scomparve con lui. Elisa si disperò, supplicò il barone di restituirle suo figlio, lei se ne sarebbe andata, non gli avrebbe creato problemi, nessuno avrebbe saputo più niente di lei. Lui fu irremovibile, le rispose di non pensare più al bambino, che sarebbe stato cresciuto in una buona famiglia, dove avrebbe avuto una madre e un padre e una piccola masseria. Elisa soffrì molto per questo distacco ma non ottenne nulla, era impossibile opporsi alla decisione di don Vito: lui era pur sempre il padrone e lei la serva, l’aveva accolta nella sua casa, aveva tolto dalla miseria la sua famiglia, che altro poteva pretendere? Un anno dopo, quando nacque una bambina, la volle chiamare Maggiorana, come sua madre; sperò che questa volta quella piccolina, bionda come lei, potesse commuovere suo padre; Elisa pianse davanti al barone, gli confessò la sua pena al pensiero di perdere anche questa figlia, di non vederla crescere, della sua maternità negata. Per un attimo le sembrò di vedere pietà, commozione negli occhi di lui, mentre le rispondeva che doveva essere ragionevole, buona, come sempre; sapeva bene che non era possibile lasciarle tenere la bambina; cosa avrebbe detto la gente? E i figli della sua defunta moglie? Voleva farli vergognare del loro padre? E di lei, cosa avrebbero pensato? Elisa lo ascoltava in silenzio, mentre le lacrime le scorrevano sul viso. Così, anche la bambina le fu tolta dalla vecchia serva e data a balia, con una cospicua dote. Elisa tornò alla vita di sempre: curava la casa, assisteva i figli di don Vito, ormai giovanotti, dirigeva la servitù, preparava i piatti preferiti del barone, con la solita premura, l’equilibrio, la dolcezza che aveva manifestato fin da bambina. Eppure, era cambiata, soprattutto nei confronti di don Vito: lo evitava, quando lui era in casa cercava mille scuse per uscire, magari andava da suo padre, ormai vecchio poveretto, o nella casa dei suoi fratelli, dove le voci dei nipoti la emozionavano, la sconvolgevano. Lui, il barone, si era accorto del cambiamento di Elisa ma non se ne preoccupava, sapeva a che cosa era dovuto: “debolezze di donne”, pensava, col tempo avrebbe dimenticato, avrebbe capito che lui voleva il suo, il loro bene e sarebbe tornata quella di una volta. Per farla contenta, le disse che l’avrebbe portata in vacanza, a vedere il mare, a Santa Maria di Leuca, dove sarebbero stati finalmente soli, loro due, per la prima volta in tanti anni, come due sposi. Si sarebbero fermati qualche giorno in un casino da caccia di sua proprietà, a pochi metri dalla spiaggia: avrebbe visto il sole sorgere dal mare, un’immensa distesa d’acqua, tanto limpida da far venire voglia di berla; le avrebbe insegnato a immergersi in quella meraviglia azzurra, poi si sarebbe stesa sulla sabbia calda, dove il sole l’avrebbe asciugata e avrebbe reso dorata la sua pelle. Elisa cercava di immaginare quello che lui le descriveva; avrebbe voluto provare la riconoscenza, l’entusiasmo che lui si aspettava ma dentro di sé trovava solo vuoto, freddo. Don Vito le ordinò di preparare il necessario, sarebbero partiti la mattina successiva, all’alba, in modo di arrivare verso mezzogiorno, l’ora migliore per fare il primo bagno in mare. Elisa, come sempre, obbedì: organizzò ogni cosa, indumenti, provviste, pensò perfino al berretto da notte per lui e, quando cominciò a fare giorno, erano già in carrozza, sulla strada per Leuca. Faceva caldo, l’estate era in anticipo quell’anno; don Vito smaniava, incitava continuamente il cocchiere a fare presto; era impaziente di arrivare, di fare un bagno, per togliersi tutto quel sudore addosso. Quando i cavalli finalmente si fermarono nell’aia, davanti alla solida casa rurale, saltò giù dalla carrozza e si avviò a piedi scalzi verso la spiaggia, incurante degli sterpi che lo graffiavano, si tolse i pantaloni e corse verso la riva, gridando a Elisa di sbrigarsi a seguirlo. Lei prese il cesto del pranzo e si incamminò, affascinata da quello spettacolo meraviglioso che vedeva per la prima volta. Don Vito si tuffò in acqua, poi prese a nuotare verso il largo: sembrava giovane, in quel momento, allegro, eccitato, molto diverso dal signore austero che tutti conoscevano. Continuava a chiamare Elisa, per provare, con quella calura, il fresco dell’acqua salata sulla pelle; lei, tranquilla, apparecchiava il pasto per lui, certa che avrebbe avuto fame, dopo quella ginnastica. Quando si fu stancato di nuotare, tuffarsi, immergersi, don Vito uscì dall’acqua, rimproverando scherzosamente Elisa, per non avergli dato retta ed essere rimasta tutta vestita sulla sabbia, sotto il sole cocente. Lei, in silenzio, premurosa lo asciugò, poi gli indicò un grande telo che aveva steso sulla sabbia calda, dove lui si sdraiò. Pochi minuti dopo, russava sonoramente, come faceva quando era molto stanco; Elisa stette per un po’ a guardarlo dormire: voleva bene a quell’uomo egoista e insensibile, sapeva che anche lui la amava; sicuramente le aveva dato molto, più di quello che lei avrebbe potuto desiderare, le aveva negato, però, quello che la donna più povera, più semplice del paese poteva avere. Elisa sospirò, guardò l’orizzonte, poi si incamminò lungo la riva, lasciando che il mare le bagnasse i piedi. Questa volta non avrebbe permesso che le strappassero il figlio che stava crescendo dentro di lei; aveva sofferto tanto il distacco dagli altri due, non li aveva più visti, dopo che glieli avevano portati via, non ne aveva saputo più nulla ma non li aveva dimenticati. Era stato bravo, don Vito, a non lasciare tracce, a fare in modo che lei non potesse rintracciare i suoi figli, si, suoi, soltanto suoi, perché lei li aveva amati, li amava ancora, mentre per lui non erano niente, non si sentiva legato a loro, erano stati un imprevisto, un fastidio da eliminare. Elisa ne era certa, non si faceva illusioni, anche questa volta don Vito avrebbe fatto la stessa cosa, le avrebbe tolto il suo bambino, le avrebbe impedito di amarlo. No! questa volta lei si sarebbe ribellata, avrebbe tenuto suo figlio, sarebbe stata sempre con lui. Tutta per lui. L’acqua del mare le lambì le ginocchia, le cinse la vita, le accarezzò le spalle.

Si chiuse su di lei.

© Maria cristina Piazza





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