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Italiani deficienti?
di Heiko H. Caimi
Pubblicato su SITO


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Italiani deficienti?

Secondo quanto emerso da una ricerca effettuata da Riza Psicosomatica, rivista mensile, gli italiani si sentono in media poco intelligenti: lo dicono loro, non lo diciamo noi.

L'indagine, compiuta su un campione di oltre mille italiani tra i 20 e i 60 anni, fa emergere un livello di autostima bassissimo e una fortissima svalutazione del mezzo librario.

Ma andiamo con ordine.

Il 27% degli intervistati identifica l'intelligenza con il successo. Mal glie ne incolga: è vero che l'intelligenza aiuta, ma basta accendere la televisione per rendersi conto del fatto che la maggioranza delle persone "di successo" sono più vicini ai cerebrolesi che ai geni. Senza contare che, nell'amministrazione pubblica come in quella privata, le raccomandazioni contano molto di più della preparazione e dell'intelligenza. E non serve essere intelligenti per saperlo.

Poi si confondono, come sempre, l'intelligenza con l'erudizione. Per uscire dall'università con 110 e lode non serve essere intelligenti, basta aver studiato diligentemente ed essere pieni di concetti vincenti. Ma questo è un discorso a latere. Come il fatto che, per aver successo, bisogna essere irreggimentati in una mentalità qualunquista e reverente, saper essere yes-man e rinunciare alla propria dignità. Il che tutto mi sembra fuorché sinonimo d'intelligenza.

Passiamo alle altre definizioni di intelligenza date dagli intervistati.

Il 21% identifica l'intelligenza con la brillantezza.

Beh, in questo caso l'intelligenza aiuta, ma ci sono moltissime persone intelligenti che non sono particolarmente brillanti: la brillantezza è qualità del dialogo, dello spirito, della vivacità, tutte doti che non sono precisamente un sinonimo d'intelligenza.

Il 17% poi, l'identifica con l'intuito. Il che ci conferma, come già avevamo cominciato a sospettare, che il problema degli italiani non è la scarsa intelligenza, ma l'abissale ignoranza. Discorso sul quale torneremo in seguito.

L'intuito, l'intuizione, sono "illuminazioni" improvvise che ci raggiungono, specialmente in momenti di difficoltà, e ci permettono di risolvere brillantemente una situazione. L'intuito ha a che fare con la prontezza e con l'istinto, con decisioni prese d'impulso, senza tanto ragionare. Non serve essere intelligenti per avere intuizioni: anzi, quanto più saremo primitivi tanto più avremo intuizioni improvvise, perché più vicino allo stato naturale dell'uomo.

Vero è che ciò che chiamiamo intuito può aver a che fare anche con l'acutezza e la perspicacia, doti legate all'intelligenza, ma sono casi più unici che rari.

Il 18%, fortunatamente (ma si tratta di una percentuale estremamente bassa) identifica l'intelligenza con la capacità di risolvere i problemi quotidiani. Certo, questa non è l'unica funzione dell'intelligenza, ci mancherebbe altro, ma i problemi quotidiani restano irrisolti se non si usa l'intelligenza.

Il dato più sconfortante, però, è quello del 9% degli intervistati, percentuale drasticamente bassa, che indica come definizione di intelligenza "una visione più ampia delle cose". Alleluia! E meno male che le definizioni di intelligenza erano date dal questionario, sennò che cosa ne sarebbe uscito?

Certo, quando si adopera l'intelligenza si ha una visione più ampia delle cose, si fanno più facilmente collegamenti ed estrapolazioni, si è più dinamici qualunque siano gli accadimenti della nostra vita, anche se non si ha successo, non si è brillanti e non si hanno intuizioni geniali (semmai si possono avere deduzioni geniali!)

Il dato che però lascia maggiormente basiti è quello del 54% degli intervistati: una percentuale altissima di italiani asserisce che essere intelligenti non è altro che un talento innato, se non addirittura una questione genetica. Alibi che mette al riparo dall'esser preparato, dal mettersi in gioco, dal coltivare la propria intelligenza. Si, perché se io asserisco che essere intelligenti è un talento innato affermo, per proprietà transitiva, che a nulla serve leggere, studiare, informarsi, mettersi alla prova: se non sono intelligente non lo sarò mai, qualunque cosa faccia,. La tesi genetica è ancora più grave: nessuna speranza è data ai non intelligenti, perché per motivi genetici non potranno mai arrivare a migliorarsi. Come giustificazione della bestialità e dell'ignoranza è davvero niente male!

Non sono intelligente, quindi non mi muovo. Non aspettatevi niente da me. Non mi prendo nessuna responsabilità in merito (in merito a che cosa? A niente). Fallo tu, che sei intelligente. Io non ci posso arrivare. Sono questi gli alibi tragici del 54% degli italiani, un 54% che non vuole impegnarsi, migliorare, prendersi responsabilità, che scarica e scaricherà sempre sugli altri il compito di andare avanti, che si deresponsabilizza elevando a valore i propri limiti. Che non ha nessuna voglia di impegnarsi a crescere e ad accrescere le proprie conoscenze. Una popolazione di pigri e ignoranti che non ha nessuna voglia di far fatica.
Guarda caso il 53% degli intervistati (solo l'1% in meno della precedente) afferma, sconsolato, di non far parte del popolo degli intelligenti. E certo, è comodo addebitare le proprie sfighe, la propria impreparazione, la propria inesistente voglia d'impegnarsi e di faticare alla scarsa intelligenza. E infatti non credo che il 53% degli intervistati non sia intelligente: credo semmai che quella sia la percentuale dei furbi, dei vittimismi astuti che non prendono mai sulle proprie spalle la responsabilità di migliorare la propria vita e quella delle persone che sta loro accanto.

Tanto più che il vittimismo è lo sport preferito dagli italiani, e non solo dagli anonimi individui, ma sempre più spesso anche da politici e classe dirigente. Un qualunquismo che giustifica tutto, soprattutto a se stessi ed ai propri interessi. e che favorisce l'ipocrita buonismo per cui chi, poverino, non ce la fa, non ha nessuna possibilità di impegnarsi e migliorare, ma viene giustificato e gratificato della propria inoperosità, della propria inerzia, della propria apatia o, per dirla cristianamente, della propria accidia.

A cura di Heiko H. Caimi



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