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T. S.Eliot e P.P. Pasolini: The Waste Land e La muart ta l`aga
di Lara Scifoni
Pubblicato su SITO


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T. S.Eliot e P.P. Pasolini: The Waste Land e La muart ta l`aga

Pier Paolo Pasolini nacque nel 1922, annus mirabilis per la letteratura, in cui vennero pubblicati Ulysses di James Joyce e The Waste Land di T.S. Eliot; questo poemetto, noto in italiano con il titolo La terra desolata. Nel settembre del 1921 Eliot, che  si trovava a Parigi, aveva mostrato il manoscritto, di circa mille versi, all’amico e connazionale Ezra Pound, il quale era intervenuto massicciamente, sfrondando centinaia di versi allo scopo di dare maggiore unità all’opera e farne emergere le qualità musicali. Eliot, in segno di gratitudine, gli dedicò l’opera qualificandolo come il miglior fabbro, espressione mutuata da Dante, che nel canto XXVI del Purgatorio la usò in elogio al poeta provenzale Arnaut Daniel. Citazione appropriata, visto che fu proprio Pound, più di ogni altro poeta di lingua inglese, a sostenere con fervore l’attualità poetica dell’opera dantesca. Anche Eliot, che già all’università di Harvard si era accostato agli stilnovisti e a Dante, lo considerava «the most universal of poets in the modern languages»[1] e attinse alle sue opere nell’arco di tutta la vita, fino ad istituire un parallelismo tra l’inferno dantesco e la vita  moderna in The Waste Land.

Il riferimento in epigrafe alla Sibilla, che guida Enea nel mondo degli inferi svolgendo un ruolo analogo a quello di Virgilio nei confronti di Dante, introduce il tema archetipico della catabasi, il viaggio iniziatico nel regno dei morti.  L’epigrafe, tratta dal Satyricon di Petronio Arbitro, per esteso recita: «Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Σίβυλλα τί θέλεις; respondebat illa: άποθανεîν θέλω»[2]. La Sibilla Cumana, rattrappita dalla vecchiaia,  è imprigionata in un’ampolla, impotente ad agire; i bambini che passano le chiedono cosa vuole e lei, che ha ottenuto dal dio Apollo l’immortalità ma non l’eterna giovinezza, risponde: «Desidero morire».   

Il poemetto nella versione finale consta di 433 versi ed è suddiviso in cinque sezioni; esso rispecchia il declino della civiltà europea dopo la tragica esperienza della prima guerra mondiale, ma esprime altresì la disperazione personale della voce poetica: ne deriva una storia del mondo che è anche storia intima. L’opera è concepita come un collage di tasselli che altro non sono se non i frammenti con i quali l’uomo moderno “puntella le proprie rovine” («These fragments I have shored against my ruins»[3]) in un paesaggio desolato e spiritualmente vuoto. La poesia eliotiana appare «un mucchio di immagini frante» («a heap of broken images»[4]) perché il poeta non può presentare la realtà oggettiva ma solo quello che percepisce la coscienza:quelli su cui si puntella sono frammenti di memorie collettive, leggende, miti, testi. Ciò che dà coesione e unità a The Waste Land è il carattere mitico e intertestuale che Pound accentuò espungendo i passi di carattere narrativo, monologante o diffusamente parodistico sino a fare del mito l’elemento aggregante, «istituendo un parallelo continuo tra l’epoca moderna e l’antichità»[5]. Il risultato è un’opera criptica, impervia e secondo alcuni provocatoria: la giustapposizione di scene ambientate in luoghi e tempi diversi, apparentemente non correlati tra loro; le citazioni in lingue diverse (greco, latino, sanscrito, tedesco, francese, italiano); le parafrasi; i riferimenti colti a miti e opere letterarie occidentali e orientali; la mescolanza di registri e stili, che già comparivano in Prufrock and Other Observations vengono portati alle estreme conseguenze. L’opera è corredata da una serie di note esplicative aggiunte successivamente alla pubblicazione dallo stesso autore, che si rese conto della necessità di aiutare il lettore ad orientarsi nella lettura del poemetto. In esse Eliot indicare le fonti e rinvia a testi antropologici quali The Golden Bough di James Frazer e From Ritual to Romance di Jessie Weston. L’antropologa inglese, attingendo a sua volta al Frazer, sostiene che alcuni miti cristiani hanno dei corrispettivi ritualistici in civiltà pagane sviluppatesi prima dell’avvento del Cristianesimo, e tra questi spicca quello del Santo Graal.

In The Waste Land si possono individuare dei nuclei tematici che corrispondono a miti della tradizione sia occidentale che orientale (in particolare buddista):

a) quello celtico del Re Pescatore: sovrano di una terra un tempo fertile, egli ha subìto una misteriosa ferita ad una coscia - una menomazione sessuale - a causa della quale deperisce lentamente e vede anche la sua terra divenire sterile. La leggenda narra di un giovane eroe che giunge in quella terra per guarire il re;

b) tale mito, secondo la ricostruzione antropologica della Weston, venne poi incorporato in quello cristiano medievale del Graal, nel quale due simboli originariamente di carattere sessuale, la lancia e la coppa, furono identificati con due reliquie sacre: la lancia che perforò il costato di Cristo e la coppa nella quale  Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue del Cristo. Solo un cavaliere puro - Galaad o Parsifal - riuscirà a raggiungere la cappella o il castello dov’è custodito il Graal; dopo lunghe peregrinazioni e dopo aver risposto ai quesiti sul significato della coppa e della lancia guarirà il re, restaurando al tempo stesso la fertilità del regno.

Vi sono inoltre motivi minori, come quello dei Tarocchi, che il saggio della Weston riconnette al ciclo di leggende arturiane e al mito del Graal. I Tarocchi sono associati al motivo medievale della queste perché i quattro “semi” delle carte - cuori, quadri, picche e fiori - corrispondono ai quattro segni del calice, dell’asta, della spada e del piatto. Tra essi spiccano naturalmente il calice, che rappresenta anche la ricettività femminile e la Madre, e la lancia, ovvero lo spirito che penetra la materia, nonché l’arma che disegna una croce e ricorda l’unione feconda dello spirito femminile con quello maschile.

Tutto l’apparato di riferimenti mitico-antropologici è impiegato da Eliot come ”correlativo oggettivo” della sua visione di una società moralmente e spiritualmente ferita, alla ricerca di una rigenerazione, che percorre tutto il poemetto, nel quale operano le dicotomie fuoco/acqua e sterilità/fertilità, sebbene ambivalenti: basti pensare ai numerosi episodi di eros profanato e banalizzato, che non possono essere ricondotti a fecondità, bensì a sterile lussuria.

Ricorrente è il motivo dell’acqua, anch’esso con significati simbolici ambivalenti. L’acqua come mare (già presente in The Love Song of J. Alfred Prufrock, Mr Apollinax e Rhapsody on a Windy Night, nella raccolta Prufrock and Other Observations) rappresenta il recupero della vita istintiva e dell’eros, nonché il silenzio e la profondità contrapposti all’impoverimento spirituale e intellettuale dell’uomo moderno. Ma il poeta evidenzia anche la forza distruttrice dell’elemento equoreo e registra delle deaths by water che prefigurano la celebre morte per acqua di Fleba il fenicio nella IV sezione di The Waste Land.

D’altro canto, essa è già anticipata nella prima sezione del poemetto, The Burial of the Dead, quando Madame Sosostris, definita ironicamente “famosa chiaroveggente”, nel mazzo dei Tarocchi trova il marinaio fenicio annegato ed esclama, citando un verso tratto dal bellissimo canto di Ariele nella Tempesta di William Shakespeare: «Sono perle quelli che erano i suoi occhi» («Those are pearls that were his eyes. Look!»). Lo spirito Ariele, nell’opera shakespeariana, canta a Ferdinando, naufrago nella magica isola di Prospero e ignaro della sorte del padre Alonso, il meraviglioso mutamento che quest’ultimo avrebbe sperimentato nella morte per acqua e, come sottolinea Serpieri, «introduce il tema simbolico della rigenerazione miracolosa: gli occhi diventano perle, le ossa corallo»[6]:

Full fadom five thy father lies;
Of his bones are coral made;
Those are pearls that were his eyes:
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
Sea-nymphs hourly ring his knell:[7] 

Madame Sosostris nel poemetto riveste il ruolo di cartomante imbrogliona che riduce il rito divinatorio dei Tarocchi a mera superstizione materialistica e non trova la carta dell’Impiccato, che nei riti di vegetazione rappresentava il dio sacrificale e redentore. Ciò è significativo e prefigura il monito: «Temete la morte per acqua» («Fear death by water»).

La seconda sezione, A Game of Chess, il cui tema-chiave è la mancanza di comunicazione tra i sessi e la degradazione degli affetti e dell’eros a tutti i livelli sociali, termina con un’altra citazione shakespeariana, questa volta tratta da Amleto: «Buona notte signore, buona notte, buone signore, buona notte, buona notte» («Good night, ladies, good night, sweet ladies, good night, / good night»[8]), parole che Ofelia impazzita per il duplice trauma della morte del padre Polonio e della partenza di Amleto recita prima di lasciarsi annegare nel ruscello (nel celebre quadro del preraffaellita J.E. Millais Ofelia è adagiata sull’acqua in una cornice floreale, come se dormisse).

Nella IV sezione la morte per annegamento ha per protagonista il marinaio fenicio:

Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
And the profit and loss.

A current under sea
Picked his bones in whispers. As he rose and fell
He passed the stages of his age and youth
Entering the whirlpool.

Gentile or Jew
 O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.[9]

Fleba, che già compariva nel passo finale di Dans le Restaurant, lirica giovanile composta in francese, richiama sia i riti di vegetazione egizi in cui l’effigie di Osiride, il dio che incarnava il principio della fertilità, veniva gettata nel Nilo e poi ripescata a Byblos, sulle coste del Libano, a riprova della sua resurrezione, sia il mito orientale di Attis. Il marinaio fenicio può inoltre essere riconnesso al mito di Adone, il bellissimo dio greco amato da Afrodite, il quale viene ferito mortalmente a una coscia (proprio come il Re Pescatore del mito celtico) e risorge grazie all’intercessione della dea presso Zeus. Una volta tornato in vita egli dovrà dividersi tra Afrodite e Persefone, il Giorno e la Notte, il regno dei Vivi e il regno dei Morti.

Fleba, morto da due settimane, dimentica il grido dei gabbiani e la vita trascorsa secondo la logica «del profitto e della perdita»: egli rappresenta la civiltà moderna, basata su commerci e scambi. Una corrente sottomarina spolpa le sue ossa in sussurri: mentre affiora e affonda passa attraverso gli stadi dell’età matura e della giovinezza dissolvendosi nell’acqua e sottraendosi così alla decomposizione.

La sezione, la più breve e compatta dell’intero poemetto per il drastico intervento di Pound, termina con un ammonimento di tenore biblico rivolto a tutti gli uomini: «Gentile o Giudeo / O tu che volgi la ruota e guardi a sopravvento, / Medita su Fleba, che fu una volta bello e alto come te». Il timone simboleggia il tentativo dell’uomo di dare una direzione alla propria vita e al tempo stesso la circolarità temporale, la ruota della fortuna e del Fato. I critici hanno discusso a lungo sul significato di questi versi e in genere sono propensi a credere che si tratti di una morte senza rigenerazione poiché ne La terra desolata non sembra esservi possibilità di purificazione. Secondo alcuni, tuttavia, l’annegamento del marinaio fenicio richiama il battesimo e l’immersione nell’acqua da cui egli risorge a nuova vita, «replicando simbolicamente il sacrificio e la resurrezione di Cristo».[10] Poiché in Eliot il mare ha spesso connotazioni positive, questa chiave di lettura non appare infondata. Un critico autorevole come Serpieri sostiene che chi legge il poemetto in chiave sacramentale ravvisa un senso di pace, di conquista spirituale e di liberazione, mentre chi non trova soluzioni religiose vi legge l’impossibilità della resurrezione[11].

Nell’anno della pubblicazione di The Waste Land nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini, il quale, a seguito dei continui trasferimenti del padre (ufficiale dell’esercito), compì gli studi in diverse città italiane, fino a terminare il liceo a Bologna e poi iscriversi, a diciassette anni, alla Facoltà di Lettere del capoluogo emiliano. Data la sua passione per il mare, tuttavia, al momento di entrare all’università lo allettò la possibilità di iscriversi all’Accademia Navale di Livorno.

 La madre, Susanna Colussi, maestra elementare, era originaria di Casarsa e aveva ereditato il nome dalla bisnonna, un’ebrea polacca sposata e portata in Friuli da un soldato di Napoleone. Susanna trascorreva tutte le estati nel paese natale assieme ai due figli e l’acqua del fiume Tagliamento è sempre presente negli scritti di Pasolini quand’egli rievoca i lieti ricordi dell’infanzia e della giovinezza: «La stessa impressione l’avevo provata da bambino, quando restato solo dentro le acque verdi del Tagliamento, mentre i luoghi erano perfettamente deserti, mi pareva di essere afferrato per i piedi dal feroce e silenziosissimo nume di quei gorghi. Son scappato fuori, nudo gocciolante con grida appena represse, e felici»[12].

A Casarsa egli scrisse le prime poesie in lingua friulana; a distanza di anni raccontò:  

In une matine dal istât dal 1941, o stevi sul puiûl di len de cjase di mê mari. Il soreli dolç e fuart dal Friûl al bateve su dute chê materie rustiche. [...] Cuant e sunà tal aiâr la peraule rosada. [...]. Dal sigûr chê peraule, in ducj i secui che je stade doprade intal Friûl di ca da l’aghe, no jere stade mai scrite. Jere stade simpri e nome un sun. [...] E o ai scrit subite dai viers, in chê fevelade furlane doprade te diestre Taiament, che fin a chel moment e jere stade nome un messedot di suns. O scomenzai par prime robe cul meti ju in maniere grafiche la peraule ROSADA. Chê prime poesie sperimentâl e je lade pierdude, e je restade la seconde scrite la zornade daûr: “sera imbarlumida, tal fossal / a cres l’aga.” [13]

Il poeta era dunque mosso dall’amore per la lingua orale, non consunta dall’uso della scrittura letteraria, o addirittura mai scritta. Nel 1942 Pasolini pubblicò a Bologna, a proprie spese, una raccolta di liriche intitolata Poesie a Casarsa. Nell’ultima pagina della raccolta l’autore aggiunse questa nota:

L’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla sulla sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica.[14]

Nella nota il poeta ammetteva l’uso di un friulano in parte artificiale, molto personale. D’altro canto, Pasolini non era nato in Friuli; il padre discendeva da una nobile famiglia ravennate e i genitori parlavano ai figli in italiano, ‹‹e con i parenti che vivevano nella casa della nonna si parlava veneto. Susanna non aveva dimenticato il friulano, che usava in molte occasioni con la gente del paese, e anche per condire il “lessico famigliare” che in questa casa era molto vivace e pieno di allusioni ironiche.››[15] Pasolini, perciò, acquisì il friulano per un atto di volontà e d’amore. Zanzotto sostiene che il friulano poetico è il linguaggio della madre, mentre l’italiano è il linguaggio del padre, la lingua “alta” della borghesia.

Gianfranco Contini ricevette il libretto con le quattordici liriche delle Poesie a Casarsa e lo recensì sul Corriere del Ticino nel 1943, salutando la silloge come la prima poesia dialettale moderna al di fuori degli schemi vernacolari (essendo i luoghi deputati al vernacolo, secondo Pasolini stesso, i campi, i focolari e non la letteratura, il teatro, la burocrazia). Il poeta era un attento ascoltatore di varietà e inflessioni dialettali; all’università aveva studiato con passione filologia romanza; conosceva il francese, lo spagnolo, il provenzale e le loro letterature, e aveva potuto constatare l’affinità tra il friulano e le lingue romanze minori, in particolare il provenzale. Da solo, o con gli amici, pedalava per chilometri e osservava che nel Friuli occidentale, era possibile in dieci minuti di bicicletta passare da un’area linguistica a un’altra.

Con un gruppo di sodali che condividevano i suoi interessi, a partire dall’aprile del 1944 Pasolini pubblicò un almanacco dal titolo Stroligùt di cà da l’aga: vi collaboravano, tra gli altri, Riccardo Castellani, Cesare Bortotto, Domenico Naldini (suo cugino), Ovidio ed Ermes Colussi. Si trattava di una piccola rivista, destinata in particolare alla comunità casarsese, con testi poetici e interventi in prosa su temi talvolta impegnativi come la glottologia e l’estetica, semplificati per renderli accessibili ai lettori. A Udine già si pubblicava un lunario con testi letterari dal titolo Lo strolic furlan; Stroligùt era un diminutivo e di cà da l’aga sottolineava come fosse rivolto ai lettori della Destra Tagliamento. La parlata casarsese, nello specifico, aveva mantenuto delle caratteristiche arcaiche quali la palatalizzazione della “c” che si trasforma in “s” (se fàtu? in luogo di ce fastu?), le dittongazioni in -ou e in -ei, le desinenze femminili in -a che riproducevano la matrice originaria latina e la rendevano più vicina al provenzale, rispetto al friulano centrale o udinese [16].

Nel 1944 vennero stampati a San Vito al Tagliamento due numeri dello Stroligùt, rispettivamente in aprile e in agosto. Nel febbraio del 1945, a Versuta, poco distante e più sicura rispetto a Casarsa (che  venne semidistrutta dai bombardamenti), il gruppo dello Stroligùt fondò l’Academiuta di lenga furlana, e nel bando confermò l’uso poetico del friulano occidentale fino a quel momento solo parlato, con lo scopo di fissarlo nella scrittura. La guerra intanto infuriava su tutti i fronti: il padre di Pasolini era prigioniero degli inglesi in Kenya e il fratello minore Guido, di diciannove anni, si era unito alle formazioni partigiane della Brigata Osoppo e combatteva in montagna. Le riunioni dell’Academiuta si tenevano nel rustico di Versuta: Pasolini stesso definì quel mondo idilliaco una sorta di Arcadia.

Nel febbraio del 1945 Guido (da partigiano Ermes) fu assassinato nell’ormai tristemente famoso eccidio di Porzûs. La certezza della morte del fratello minore Pier Paolo la ebbe solo in maggio, quando Cesare Bortotto, anche lui nella Resistenza, scese a Versuta e raccontò come si erano svolti i fatti. Pasolini, nonostante il trauma, si buttò a capofitto nel lavoro e nel novembre dello stesso anno si laureò magna cum laude a Bologna discutendo una tesi su Giovanni Pascoli.

Continuava inoltre a collaborare allo Stroligùt che, perduto il sottotitolo di cà da l’aga, era diventato una rivista in piena regola, con traduzioni in friulano dall’italiano (Ungaretti ad es.) e da altre lingue romanze (francese e spagnolo: Larbaud, Jiménez…). Nel 1947 la rivista cambiò veste grafica e nome, intitolandosi significativamente Quaderno romanzo.

Pasolini si pronunciava apertamente a favore dell’autonomia del Friuli e nell’ottobre del 1945 aderì all’Associazione per l’Autonomia Friulana di Tiziano Tessitori a Udine. Egli intratteneva rapporti anche con la Società Filologica Friulana fondata dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli (il quale aveva dimostrato scientificamente l’autonomia del friulano nell’ambito delle lingue romanze e teorizzato la sua appartenenza all’“arcipelago” delle isole “ladine”) e nel 1946 venne nominato consigliere aggiunto della Filologica di Udine, di cui seguiva i convegni annuali. Al dicembre del 1947 risale un interessante articolo di Pasolini, apparso su Ce Fastu?, rivista ufficiale della Società Filologica Friulana, intitolato Dalla lingua al friulano. Pasolini sostiene la necessità di tradurre testi poetici da altre lingue in  friulano e precisa che ciò non significa riduzione, bensì trasposizione del testo dall’una all’altra lingua  in rapporto paritetico:

[…] Il friulano ha bisogno di traduzioni essendo questo il passo più probatorio per una sua promozione a lingua. E’ vero che per noi il friulano è aprioristicamente  lingua, a parte le considerazioni glottologiche (un deliberato ritorno all’Ascoli) e a parte lo sforzo cosciente di usarlo in condizioni di parità se non di uguaglianza con le grandi lingue romanze; tuttavia una prova come quella del tradurre verrebbe a costituire un terzo fatto, se non molto profondo, almeno perentorio.

[…] La traduzione dalla lingua al friulano richiede un gioco difficile di sostituzioni foniche e melodiche che, senza degradare il testo a un rango più basso, lo spogli della sua pienezza letteraria, del suo timbro di grande lingua e lo renda alle acerbità e alle grazie di una lingua minore ma non mai dialetto. [17]

Nell’articolo del 1947 Pasolini afferma la necessità di tradurre non solo autori dell’area romanza ma anche germanica, e specialmente i moderni, in quanto presentano maggiori difficoltà e sono perciò ancora più probatori per il friulano, mettendolo a confronto con un’esasperata coscienza linguistica: e il poeta sceglie di rendere in casarsese la sezione Death by Water della Waste Land.

La ragione di questa scelta sta probabilmente nella complessità del poemetto, che “metteva alla prova” il friulano nella sua veste di lingua letteraria. Ma non solo: Eliot e Pasolini, benché distanti per formazione, ideologia e poetica, erano accomunati dalla profonda conoscenza dei miti dal punto di vista antropologico e linguistico. Ho già evidenziato come Fleba il Fenicio richiami il mito orientale di Attis, quello egiziano di Osiride, quello greco di Adone e preluda al mito occidentale di Cristo. In Pasolini la Grecia fu una presenza ossessiva sin dalle prime traduzioni giovanili di Saffo e il mito antico era per lui metafora della civiltà contadina, suo oggetto d’amore in quanto custode di una cultura arcaica e di una visione ierofanica della natura. (Anche lui, come Eliot, conosceva le opere di James Frazer, ma suo punto di riferimento letterario era soprattutto Mircea Eliade.) 

Nel 1927 Eliot si convertì all’anglicanesimo, ottenne la cittadinanza britannica e si stabilì in Gran Bretagna; tra il 1936 e il 1942 produsse i Four Quartets, un poema in cui il complesso simbolismo ruota attorno alle stagioni e ai quattro elementi ed è   imperniato sul rapporto fra il tempo dell’uomo e l’eternità, il significato della storia,  la redenzione del tempo. Eliot aveva attraversato “il paese guasto” di Dante, ma nella maturità era approdato alla fede.

Assai diversa fu l’esistenza sempre sofferta di Pasolini, che nel 1949 fu denunciato per “corruzione di minorenne” (lo scandalo di Ramuscello), espulso dal Partito Comunista Italiano per “indegnità morale e politica” e rimosso dall’incarico d’insegnante presso la scuola media di Valvasone. Nel 1950 fuggì con la madre a Roma, e da allora visse nella capitale, molto più effervescente dal punto di vista culturale e mondano rispetto alla periferica Casarsa; eppure, come afferma Franco Brevini, Pasolini ricordò sempre con nostalgia il periodo trascorso in Friuli e il suo tempo friulano finì soltanto con la tragica morte lungo il litorale di Ostia nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975.[18]

Egli riteneva che il rapido progresso industriale fosse la blasfema controparte della sacralità pastorale vagheggiata da ragazzo nella campagna del Friuli e affermava: ‹‹è realista solo chi crede nel mito, e viceversa. Il “mitico” non è che l’altra faccia del realismo››[19]. Pasolini difendeva la concezione “mitica” della realtà come autentica ed originaria e credeva nell’“efficacia” del mito, ossia, citando  Giuseppe Zigaina, «nella possibilità che esso gli avrebbe offerto di incrementare di senso il proprio multiforme linguaggio»[20]. Allo stesso tempo, il poeta-regista denunciava l’irrealtà e lo “scandalo” del pragmatismo moderno, che escludeva il mitico e il sacro dal proprio orizzonte appiattendo la natura e la storia in un unico presente dilatato e onnicomprensivo. Per Pasolini, come per Eliot, il mito rappresentava un valore che, ponendo in confronto dialettico passato e presente, consentiva il recupero di un senso storico e offriva un modello per interpretare l’uomo e il mondo.

Lo stesso omicidio di Pasolini, secondo Zigaina, che nel 1946 conobbe il poeta con il quale instaurò una profonda e duratura amicizia, in realtà fu una morte  sacrificale, una celebrazione del “mito di morte-rinascita”[21], e perfino la data e il luogo del martirio vennero scelti accuratamente:

Pasolini, fino a metà del 1968, pensava di farsi uccidere ritualmente nel mese di aprile. Sennonché rileggendo attentamente Mito e Realtà di Mircea Eliade si è convinto che “il mito va celebrato di notte, tra l’autunno e l’inverno, in una data sacra.” Dopo di che, per essere il primo ad apportare un incremento di senso a tale data, organizza la sua morte per il Giorno dei Morti, il 2 novembre (secondo il calendario perpetuo), in coincidenza con la Domenica, sacra per eccellenza. Pasolini rivela tutto ciò nel poema Patmos, nome dell’isola greca dove San Giovanni scrisse l’Apocalisse. Apocalypsis ovvero rivelazione di una verità occulta[22].

Zigaina inoltre sostiene che Pasolini scelse Ostia, sulle rive del Mar Tirreno, come luogo deputato per la sua morte, in quanto ‹‹Hostia, in latino, significa “vittima sacrificale”, perché era in quella colonia romana alla foce del Tevere che nel IV secolo a.C. si compivano i sacrifici umani.››[23]

Dunque non una morte “per acqua” la sua, ma “vicino all’acqua” (il Tevere, il mare).

Oggi Pier Paolo Pasolini riposa nel piccolo cimitero di Casarsa, nella terra natale della madre. Progettata dall'architetto friulano Gino Valle, la tomba del poeta è collocata a sinistra rispetto all'ingresso. Si tratta di un sepolcro semplice, costituito da una lapide grigia posta sul terreno, sulla quale è inciso solo PIER PAOLO PASOLINI / (1922-75), senza alcuna epigrafe. A fianco si nota una lapide gemella, quella della madre, ed entrambe sono incorniciate da un'aiuola, a ricordare il profondo legame che tenne uniti per tutta la vita Pier Paolo e Susanna.

Malgrado la semplicità e la mancanza di decori, Gino Valle segnala con due elementi la presenza del poeta: una sottile striscia di marmo rialzata rispetto alla ghiaia del camposanto, e un alloro, simbolo della Poesia, all'interno dell'aiuola.

Tutt’intorno alla lapide sono stati posti ciottoli del Tagliamento, quasi a ricomporre  il greto del fiume che tanto affascinava Pasolini. Anche la tomba del fratello minore Guido si trova nel cimitero di Casarsa, a destra dell'ingresso, assieme a quella degli altri caduti locali nella lotta per la Liberazione.

Nel 1947, quando scrisse l’articolo Dalla lingua al friulano, Pasolini viveva ancora in Friuli: il mito, il “sogno”, erano ancora intatti.

Qui di seguito viene riportata fedelmente la traduzione in friulano da Eliot così come apparve sulla rivista Ce Fastu?; il lettore potrà confrontarla sia con il testo originale che con la traduzione in italiano di Alessandro Serpieri.

 MUART TA L’AGA
dall’inglese di T.S. ELIOT

Phlebas al è muart da quindis dis,
a no’l sa pì il sigu dai pluvies,
nè il motu sidìn dal mar,
nè il pierdi o il vuadagnà.
Na curìnt sot il mar
a roseà i so vuès murmurànt.
A rondolòns lui al passà i timps
di duta la so esistensa,
ju, tai revòcs. Cristiàn o pagàn,
tu ch’i ti tens il temòn e i ti jòs
là ch’a sòflin i vins
ch’al è stat alt e biel coma te.

IV. DEATH BY WATER

Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
And the profit and loss.

A  current under sea
Picked his bones in whispers. As he rose and fell
He passed the stages of his age and youth
 Entering the whirlpool.

Gentile or Jew
 O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.                           

IV. MORTE PER ACQUA

Fleba il Fenicio, morto da due settimane,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e le onde dell’alto mare
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in bisbigli. Come affiorava e affondava
Traversò gli stadi dell’età matura e della giovinezza
Entrando nel vortice.

Gentile o Giudeo
O tu che volgi la ruota e guardi a sopravvento,
Medita su Fleba, che fu una volta bello e alto come te.[24]

_________________________________________________________

Note:

[1] T.S. Eliot, Dante, London, 1929; ristampato in: F. Kermode, Selected Prose of T.S. Eliot, London 1975, pp. 205-230.
[2]‹‹Del resto la Sibilla, a Cuma, l’ho vista anch’io coi miei occhi penzolare dentro un’ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: “Sibilla, che vuoi?”, lei rispondeva: “Voglio morire.”›› T.S.Eliot. La terra desolata, Milano 1982, p. 73. Trad. di A. Serpieri.
[3] A. Serpieri, op. cit., p. 126.
[4] A. Serperi, op. cit., p. 76.
[5] Eliot stesso parlò di “metodo mitico” in contrapposizione al “metodo narrativo” in una breve recensione dell’Ulysses di J. Joyce, sul Criterion nel novembre del 1923, intitolata Ulysses, Order and Myth. E, scrivendo a proposito di Joyce, pensava anche alla propria opera.
[6] A. Serpieri, op. cit., p. 80.
[7] “A cinque tese sott’acqua / Tuo padre giace. / Già corallo / Son le sue ossa / Ed i suoi occhi / Perle. / Tutto ciò che di lui / Deve perire / Subisce una metamorfosi marina / In qualche cosa / Di ricco e di strano. / Ad ogni ora / Le ninfe del mare / Una campana / Fanno rintoccare.” W. Shakespeare, La tempesta, Milano 1984, pp. 46-47. Traduzione di Agostino Lombardo.
[8] A. Serpieri, op. cit., p. 94.
[9] A. Serpieri, op. cit., p. 112.
[10] F. Gozzi, Letture eliotiane, Pisa 1985, p. 92.
[11] A. Serpieri, op. cit., p. 113.
[12] E. Siciliano, Vita di Pasolini, Milano 2005, p. 61.
[13] In una mattina dell’estate del 1941, stavo sul poggiolo di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutta quella materia rustica […] Quando risuonò nell’aria la parola rosada (rugiada) pronunciata in quella mattina di sole, non era altro che una punta espressiva della sua vivacità orale. P.P. Pasolini, Il nini muàrt, da Poesie a Casarsa, ora in La nuova gioventù: poesie friulane 1941-1974, Torino 1975, p. 8.
[14] C. Marazzini, Il linguaggio poetico di Pier Paolo Pasolini, Modena 1998, pp. 11-12.
[15] N. Naldini (a cura di), Pier Paolo Pasolini.Un paese di temporali e di primule, Parma 1993, p. 14.
[16] Cfr. G. Ellero, Lingua, poesia, autonomia. 1941-1949, Udine 2004, p. 20.
[17] P.P. Pasolini, Dalla lingua al friulano, in Ce Fastu ?, n. 5-6, 31 Dicembre 1947, pp. 24-26.
[18] Cfr. G. Ellero, Dov’è la mia patria, in “ Sot la Nape”, 4/2009, pp. 37-42.
[19] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, in Tutte le opere a cura di W. Siti, Milano 1998, pp. 1461-62.
[20] G. Zigaina, op. cit., p. 13
[21]  G. Zigaina, op. cit., p. 19.
[22] C. Burcheri, Zigaina: la morte sacrificale di Pasolini, “Messaggero Veneto” del 2 novembre 2008.    
[23]  G, Zigaina, op. cit., p. 71.
[24] A. Serpieri, op. cit., pp. 112-113.

A cura di Lara Scifoni



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