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Complicazioni di corrispondenze interiori.
di Alessio Mosca
Pubblicato su SITO


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I riflettori dai vetri variopinti proiettavano i fasci luminosi che facevano assumere alla cute di tutti gli individui accalcati in quella fosca bettola i propri colori smaglianti. Così nella sala si alternavano ciclicamente uomini dai visi blu, rossi, gialli e verdi mentre, da invisibili meccanismi nascosti chissà dove nei pertugi del soffitto, sbuffavano fumose svapate di vapore bianco che, ottundendo i sensi e penetrando densamente nei polmoni, circondavano i ballerini dalle pelli vivaci di una diabolica nebbia come quella che si potrebbe immaginare attorniare Lucifero nelle sue apparizioni terrene.

Per quanto il volume fosse alto, le note si smarrivano nell’etere costrette a cedere spazio alle potenti e prepotenti vibrazioni che, pulsando dai grossi cassettoni neri, facevano tremare gli organi interni di una lenta e grave peristalsi tecno.

Un giovane perso dentro al bicchiere di plastica trasparente che teneva in mano, era l’emblema di un paradosso Escheriano, un uomo perduto all’interno di un oggetto mantenuto proprio da sé stesso, ed era perso ad osservare le tondeggianti onde tremolanti che, per via di quel luogo popolato da maniaci dei bassi, venivano originate in un imprecisato epicentro smarrito nel diametro del bicchiere.

Alzò un istante lo sguardo e si rese conto di essere voracemente osservato: una fanciulla  lo fissava dalla parta opposta della stanza.                                                                                                  Le labbra di lei, incerte tra l’essere lustre dal lucidalabbra e il bagnate dall’alcool e dall’erotica bava da eccitazione che regolarmente veniva spalmata dalla pingue lingua a metà tra il rosa e il verdognolo che in maniera incontrollabile le doveva lisciare ogni mezzo minuto, erano protruse in avanti e mosse lievemente a piccoli scatti per dare l’apparenza di essere più traboccanti di carne di quanto in realtà fossero e per seguire un astruso canone di sensualità becera. Questi movimenti della bocca erano accompagnati da una finissima coordinazione tra occhi e collo, quest’ultimo teso e stirato verso l’alto doveva accogliere il mento che premeva forte sotto l’ugola mentre le palpebre, oltremodo appesantite dal trucco, venivano leggermente socchiuse per permettere allo sguardo intensissimo di essere più concentrato e di esplodere in tutta la sua potenza ricolma di desiderio.

Il giovane, perduto l’interesse per liquidi e vibrazioni, sentiva il peso del cipiglio altrui che gli schiacciava la lavanda camicia al petto e, a sua volta, il petto al cuore che, pulsando come il mantice di un fabbro primitivo, gli inebetiva l’espressione e lasciava che dal bicchiere leggermente inclinato colasse la turchese bevanda alcolica, zuppandogli la francesina scamosciata senza che questi se ne rendesse minimamente conto.

La donna si diresse, quasi che potremmo dire che si avventò dall’alto dei suoi trampoli aguzzi, verso il ragazzo. I fianchi stretti ondeggiavano talmente che ad ogni passo il piede oltrepassava la linea della spalla opposta di quasi un metro esibendosi in un scientifico barcollamento saldo e sensuale, di una tale difficoltà e accuratezza che probabilmente presupponeva un intenso calcolo che doveva tener cono sia dello spazio che la separava dell’obbiettivo e sia dell’ampiezza di ogni singola falcata per far sì che l’ultimo passo la portasse perfettamente davanti al volto del giovane.

La bocca di lei continuava a sussultare mentre stavolta il mento si distaccava progressivamente dalla laringe e la sua bocca si avvicinava peccaminosamente alle fauci socchiuse nella tonta espressione dell’altro.

Le lingue si attorcigliarono come flaccide e appiccicose strisce di ciccia in salamoia mosse da spasmi parossistici, i palmi bagnaticci del ragazzo affondavano nelle levigate gote dell’altra impiastricciando il sudore allo spesso strato di fondotinta mentre la punte delle sue dita scomparivano nei sintetici capelli come una in una parrucca di fascette di serraggio.

“Grazie” pensò il giovane “Non so chi tu sia, da dove tu venga, quale sia la tua storia o il tuo nome ma grazie, grazie per essere qui ora, grazie per avermi notato, per aver intravisto qualcosa di più di un goffo insicuro, per esserti soffermata più sui ritti capelli lucidi dall’unto della gelatina che sulla gobba del mio naso che domina le mastodontiche narici che, rivelando l’interno delle mie cavità, mi nutrono di ossigeno. Per aver percepito del fascino nel mio sguardo riservato che per esaltarlo tante ore di  lavoro con specchio e pinzette mi è costato, grazie perché avresti potuto scegliere uno dei tanti  ammaliatori che pullulano intorno a te piuttosto che notare che dietro alla mia incapacità di divertirmi in questo luogo -dove svagarsi pare d’obbligo- si nasconde una sensibilità ed una pacatezza nei gesti che però in altri momenti sanno sorridere, grazie perché cogli la mia timidezza e percepisci che anche se sono qui in disparte e non ballo ho dedicato tanto tempo a scegliere la camicia giusta, la più costosa che il mio portafogli potesse permettersi, la più vistosa che la mia indole schiva potesse sopportare. Grazie per non trovare nei mie chili di troppo la bruttezza ma una presenza imponente, sicurezza e accoglienza, per non vedere i pettorali cascanti ma le mie spalle larghe e poderose. Grazie a te, incantevole creatura, che nonostante non abbia che l’imbarazzo della scelta davanti a questo stuolo di corteggiatori che si prostra ai tuoi piedi, tu sia venuta qui a donarmi la speranza che anche per me possa esistere la felicità, che non tutto è perduto, a ricordarmi che le donne rispetto agli uomini sono belle perché per loro le leggi dell’estetica e dell’attrazione seguono criteri imprevedibili e sregolati, possono vedere armonia dove chiunque avrebbe visto solo un qualcosa di sgraziato.   Questo gli suggeriva lo spirito ma se l’uno parlava forse in modo ermetico e troppo solenne l’altro recepiva filtrato e semplificato dalla grossolanità della propria coclea interna e, staccatosi dal quel vorticoso bacio, la guardò negli occhi e non seppe che tradurre la poesia della sua anima con un: “Maronn’ quant’sì bona!” e si fiondò nuovamente in quell’umido groviglio di lingue.                                

La ragazza avvampò al suono di tali ardenti parole come carezzata da una dozzina di dita esperte e affondò ancor più vigorosamente nella rima altrui mentre le mani gagliarde si immergevano dentro la biancheria del giovane e le dita, munite di lunghissime unghie smaltate, gli carezzavano la pelle soffice e fresca delle natiche ricalcando con le punte delle invisibili venature come contorni di un immaginifico disegno.                                                          

Il giovane dal suo canto, incoraggiato da quello spirito d’iniziativa ed infoiato come non mai, si spostava affamato lungo i neri leggins di pelle che, come un secondo tegumento, gli permettevano di saggiare il sedere alto e sodo aggrappandosi ad esso come ad un sicuro appiglio nel turbine delle danze sfrenate che attorno a loro infiammavano. A questo punto la sua mano si fece sempre più audace e si inerpicò in zone ben più ardite, scavallando una coscia e salendo verso l’origine di questa e dell’altra pure, nel loro punto di congiunzione, dove la carne si fa mistero ma in questo caso un arcano ancora più grande si rivelava al suo tocco. Una massa molle era sottesa alla mano del giovane, provò a seguirla tentoni per poi avvertire una massa dura che saliva leggermente aderente al pube per arrivare fino all’inguine sinistro. Poteva essere? Effettivamente sentiva la possanza di quelle mani mentre gli stringevano il fondoschiena e il dubbio lo attanagliò, chissà se magari il mento schiacciato sul collo più che un’espressione  sensuale voleva celare un pomo d’Adamo troppo prominente. Per un attimo il giovane scostò la mano e ritrasse la testa e un brivido di disgusto lo percorse per poi disegnarsi sul suo volto e nuovamente lo spirito provò a parlargli. “Ma cos’è in fondo un corpo” gli sussurrava “O un appendice in più o in meno rispetto a un cuore? Quest’uomo mi ha fatto sentire più virile di qualsiasi altro essere femminile abbia mai incontrato nella mia vita e questo fa di lui una meravigliosa donna. La mia gratitudine perde forse valore ora? Sono forse meno apprezzato? Cambia ciò che quell’essere ha visto in me o la grazia che io ho visto nei suoi lineamenti?  La sua bellezza è rimasta immutata anzi, se possibile, è addirittura accresciuta, potente dell’imperfezione che è propria della bellezza e di quel fascino misterioso di commutazione fra due elementi opposti che sono separati per le rigide leggi che la natura impone, come l’incanto delle vaporose esalazioni dell’acqua quando incontrano un fuoco rovente”.

Ma ahimè le difficoltà di comunicazione persistevano e nonostante le intense parole il ragazzo fra sé e sé si disse: “Pure se è omm’ me rest’ancor rizzat’, ma lo sai che te dico, chi se ne fott’!” e facendo finta di nulla la cinse col braccio intorno alla vita mentre portava l’altra mano attorno alla nuca, sotto ai capelli, e la lasciò scivolare fra le sue braccia mentre le due bocche unite in un solo corpo respiravano di un unico fiato. 

 

 

 

 

© Alessio Mosca





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