- Non mi uccidere, ISBN 88-384-7557-1, Piemme, 2005
- Strappami il cuore, ISBN 88-384-8543-7, Piemme, 2006
- Ti Porterò nel sangue, ISBN 88-384-6291-7, Piemme, 2007
I vampiri sono fra noi. Camminano sulle nostre stesse strade, alla luce del sole, in barba alla vecchia tradizione stokeriana che li vorrebbe attivi e letali solo nelle tenebre più nere e sepolti in cripte segrete durante il giorno. Ora si chiamano Sopramorti e i loro nemici giurati sono i Benandanti. Le loro schiere popolano l’ottima saga creata da Chiara Palazzolo, suddivisa in tre romanzi pubblicati da Piemme e dei quali stanno uscendo anche le versioni pocket.
Una supplica (Non mi uccidere), un’invocazione (Strappami il cuore), una promessa (Ti porterò nel sangue).
Già dai titoli si può intuire la parabola esistenziale (anche se parlare di esistenza può apparire un po’ fuori luogo) della protagonista, la progressiva trasformazione di Mirta da ventenne ingenua e perdutamente innamorata del suo Robin, a Luna, cinica, spietata, individualista, vera e propria macchina da guerra impegnata nella secolare e sanguinosa lotta fra i Sopramorti e i Benandanti.
Una trasformazione che la coinvolge e la sconvolge quasi completamente, sia sul piano fisico – muscoli da culturista e plastica facciale compresi – che caratteriale; una trasformazione che, comunque, non sarà mai definitiva, tanto compenetrate e influenzate l’una dall’altra rimarranno le due personalità, a formare un personaggio di un’umanità e una modernità impressionante.
Mirta e Robin muoiono di overdose, non prima di essersi scambiati la promessa di ritrovarsi dopo, qualunque cosa quel dopo possa significare, per non lasciarsi mai più. Ma qualcosa non funziona e mentre Mirta si ritrova davvero catapultata in un’altra esistenza, Robin non arriva. Inizia da qui, da questa attesa vana per il suo uomo, la storia di Mirta-Luna; inizia qui il percorso di una iniziazione, di una graduale presa di coscienza della propria nuova natura, quasi vampiresca nel suo bisogno di nutrirsi di carne umana. In uno scenario tutto nostrano, e quindi ancora più spiazzante, come quello dei boschi del Subasio, Mirta si ritrova sola, disperata e appena consapevole di un pericolo incombente rappresentato dalle fosche berline nere che sembrano seguirla in ogni suo spostamento. Unico appiglio per non affogare in questa realtà nuova e assurda, l’amico immaginario Witt, ricalcato sul filosofo Wittgenstein che era stato oggetto dei suoi studi scolastici.
Finché arriva Sara. Sopramorta il cui passato non verrà mai rivelato del tutto, Sara salva Mirta dalla possibile cattura da parte degli eterni avversari e riesce ad allontanarla finalmente dall’Umbria e, soprattutto, dalla tomba vuota di Robin. Fra le due ragazze nasce un legame via via sempre più profondo, fatto di duro addestramento a combattere e di passeggiate per Roma con tanto di cono gelato in mano, di uscite notturne a caccia di cibo e di feroci battibecchi, specchio anche delle diverse visioni del mondo che Mirta e Sara si portano dietro dalla loro vita precedente. È una sorta di conflitto generazionale molto sui generis quello che Chiara Palazzolo mette in scena. Da vera ragazza di oggi, Mirta sa, per esempio, che deve uccidere se vuole sopravvivere e lo fa, senza porsi troppi dubbi e rintuzzando i rimorsi che cercano di emergere in lei. Sara, invece, figlia di quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, che facevano dell’etica un baluardo irrinunciabile, ha cercato e trovato una giustificazione alla sua necessità: uccide solo i cattivi, maniaci, violentatori o pedofili che siano. Tuttavia il conflitto, pur acceso e lacerante, non impedisce (anzi, forse alimenta ancor di più) il divampare di un amore saffico, tenerissimo e violento al tempo stesso, che lega le due giovani per buona parte della storia e sembra infine relegare ai margini estremi della memoria la passione di Mirta per Robin.
Ma la lotta fra Sopramorti e Benandanti non si placa. Gli scontri si moltiplicano e si complicano con l’entrata in scena di personaggi ambigui, infidi, contraddittori, estremamente difficili da collocare all’interno dell’ uno o dell’altro dei due schieramenti; fra questi spiccano i nomi del misterioso e sfuggente Gatto Machesi, indecifrabile compagno di missione e, talvolta, di letto di Mirta-Luna, nonché lo stesso Robin e il suo più caro amico, Paco, segretamente innamorato di Mirta fino dai tempi del loro primo incontro. E conosciamo anche il leader indiscusso dei Sopramorti, Gottfried, antico cavaliere teutonico e probabilmente primo dei ritornanti, emerso a nuova vita dalle brume di un Medioevo oscuro e tormentato.
Senza svelare ulteriori elementi della trama fittissima e affascinante dei tre romanzi, si può dire che Chiara Palazzolo ha saputo imbastire una vicenda originale e coinvolgente, senza alcuna caduta di tensione nonostante la lunghezza: ogni singolo volume infatti veleggia leggero ben oltre il traguardo delle quattrocento pagine. Ciascun romanzo è sostenuto da uno stile elegante e personalissimo che alterna le parti di narrazione a un flusso di coscienza molto particolare, scandito dalla scelta di una punteggiatura ritmica, sincopata, che spezza le frasi incurante delle vecchie regole sintattiche, che comunque si percepiscono profondamente assimilate. La mano di Chiara gioca sicura in un miscuglio di stili che passano senza soluzione di continuità dallo splatter estremo degli scontri all’ultimo sangue alla struggente poeticità di certe particolari situazioni, e culmina nella citazione quasi testuale di un verso di Quasimodo che si staglia nell’oscurità: “trafitto da un raggio di luce.” E la storia di Mirta-Luna si può riassumere in una continua ricerca, la ricerca di un sentimento difficile da definire, di “qualcosa che forse non è amore, perché è più dell’amore.”