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La mano paffuta della mia sorellina era abile a tracciare simboli e disegni stilizzati. Si arrampicava con le gambe cicciotte sullo sgabello di pino, il vestito blu a palloncino ormai troppo piccolo che le lasciava scoperte le cosce, e iniziava a sfogare la sua urgenza di comunicare sul vetro. Invano le suore l’avevano rimproverata, neppure metterla in castigo sui ceci era valso a qualcosa, lei tornava ostinatamente alla sua finestra preferita, la terza a sinistra della camerata. Eravamo chiuse in orfanotrofio da ormai cinque anni, Annalisa non aveva conosciuto altra realtà, io almeno conservavo vaghi ricordi di un padre in divisa partito per il fronte e di una madre bionda e profumata che mi dava il bacio della buonanotte, ma tutto si faceva più indistinto giorno dopo giorno, e stentavo a credere che quella bella casa fosse mai davvero esistita. Mia sorella era avvolta da un tale silenzio da far rimbalzare lontano qualsiasi suono, non le giungevano i miei pianti notturni, il chiasso delle bambine nel pomeriggio, la voce autoritaria e stridula della madre superiore, il canto dell’allodola qui di fronte. Viveva in un mondo ovattato che forse la proteggeva da un ambiente con cui non desiderava confrontarsi. In fondo, solo il suo corpo sostava fra quelle pareti scrostate, ma la sua mente veleggiava altrove, in un mondo silente e forse meraviglioso che noi non potevamo abitare. Non riuscii mai ad insegnarle neppure un rudimentale linguaggio dei segni, avevo inventato gesti che la fantasia mi suggeriva e che la disperazione mi imponeva, ma lei si rifiutava di ripeterli. Li comprendeva, lo so, ma poi andava alla finestra, vi alitava sopra, e la disegnava con un dito sicuro. Provai senza successo a sgridarla, qualche scatto brusco, un paio di sguardi truci e delle smorfie caricaturali valevano come rimprovero urlato, ma ogni volta mi guardava con occhi allibiti ed un sorriso disarmante e io cedevo scrivendo insieme a lei su quella condensa colpevole. Gli anni trascorrevano ripetitivi fra l’odore untuoso delle zuppe di legumi e la messa delle sei, le interminabili lenzuola da ricamare e la luce spenta alle nove, il gallo che salutava ogni nuova alba e le noiose passeggiate in cortile; coppie amorevoli portavano via le nostre amichette e subito altre bimbe spaurite venivano a dar loro il cambio, ed in poco tempo la nostra vita affettiva fu così destabilizzata da farci cercare conforto solo l’una fra le braccia dell’altra. Ci stringevamo e le nostre ciocche ramate si confondevano in una cascata fiammeggiante che le suore talvolta avevano minacciato di tagliare, ritrovavamo un po’ di coraggio e continuavamo a spazzare il pavimento. Quando il tramonto cedeva spazio al buio avevamo più tempo di soffermarci sulla nostra lavagna trasparente, e lì sognavamo; un quadrato con in cima un triangolo valeva come casa, la nostra casa, quella che un giorno ci avrebbe viste felici insieme, una stella rappresentava nostra madre che ci proteggeva dal cielo, due righe parallele dentro un cerchio erano le strade che avremmo percorso visitando tutto il mondo, e poi c’erano fiori, farfalle, colline e torrenti che ci attendevano sul magico vetro per farci evadere dal lugubre stanzone che odorava sempre un po’ di muffa, e soli splendenti in pieno inverno e polli interi da divorare, e cagnolini scodinzolanti e alberi di Natale. Erano sogni che cancellavamo con mano frettolosa, le goccioline di condensa ci rimanevano sulla pelle, ma quell’acqua fine pulsava di speranze e gioie che nessuna siccità avrebbe potuto far evaporare. Per un paio di mesi è venuta in visita una coppia elegante, ogni volta le suore raccomandavano a tutte di mettersi in ordine al meglio e pettinarsi con cura, sembrava che questi due bei giovani non sapessero decidersi, come se fossimo tante bambole fra cui scegliere la più graziosa da impacchettare. Lei era sempre ingioiellata e impeccabile con i cappellini intonati ai vestiti e le volpi che le ricadevano sulla spalla, lui un po’ rigido dentro i suoi formali abiti scuri. Erano belli, ricchi e belli, ma noi eravamo di certo merce avariata per loro: io ero ormai un po’ troppo grandicella, e mia sorella improponibile con il suo problema, quindi le visite ci lasciavano piuttosto indifferenti, continuavamo a comportarci come sempre senza metterci in mostra. Un giorno scelsero. Purtroppo. Avvenne tutto rapidamente, mi fecero trovare le mie poche cose dentro una borsa e una suora mi trascinò via mentre Annalisa era impegnata a sbucciare le patate, mi dissero che era meglio così. Mi ribellai, urlai, cercai di scappare per andare almeno a salutare mia sorella, ma fu tutto inutile. La intravidi solo per un istante, di spalle, china sul tavolone, ignara delle mie grida disperate. La mia nuova famiglia mi portò lontano, a Milano, e non seppi più nulla della mia sorellina silenziosa. Nonostante tutto non riesco a portare rancore ai miei genitori per non aver voluto anche lei, hanno saputo compensare con una tale sconfinata dose d’amore da farsi perdonare quella scelta infelice, e quando ho tentato in tutti i modi di rintracciare mia sorella loro mi hanno aiutata. Inutilmente. Ormai era stata adottata anche lei, e quel quadrato con il triangolo in cima non ci ha mai viste insieme. Penso sempre ad Annalisa, ho pregato ogni sera per la sua felicità, ma nonostante gli sforzi non riesco ad immaginarla: chiudo gli occhi e visualizzo una bambina di cinque anni dentro un logoro vestito troppo corto. Sono trascorsi tre lustri da quando l’ho vista per l’ultima volta, domani mi sposo, e mi auguro che anche lei abbia trovato l’amore, un uomo che sappia decifrare con affetto e pazienza i suoi simboli sulla condensa. E’ notte e non riesco a dormire, sento che da qualche parte, in chissà quale città, lei ora è alla finestra a ricamare il suo mondo ideale, i buffi coniglietti e gli eleganti cigni, a plasmare silenziosi sogni di gioia che spero abbia realizzato. Disegno una stella e sussurro: “Mamma proteggila.”
©
Maddalena Lonati
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