BAGLIORI
Dovendo profetare l’anno di nascita
della mia fama letteraria – ebbene, io dico il 2074.
Non chiedetemi del criterio matematico-cronologico
che sovrintende alla profezia.
Forse nemmeno Stendhal conosceva il proprio.
Il mondo – come si dice – sarà allora
definitivamente pronto.
Una nuova e più austera aria
– atmosferica ed esistenziale –
tirerà sopra città e campagne.
Si musicherà la musica in altro modo,
sulle parole batterà
un accento più verace ed inquietante,
la vista,
la vista scoprirà inediti e numinosi profili
delle vecchie cose di sempre.
Si camminerà,
riderà,
ascolterà,
ammiccherà,
dubiterà,
tossirà in modo diverso –
e tutto ciò grazie alla mia opera
finalmente illuminata dalla fama.
Devo cominciare a sistemare i paltò,
per intanto,
questi già consunti giacconi,
questi pantaloni di apparente velluto
o di chissà quale altro scadente tessuto -
cosa saranno diventati, per quel tempo?
Dovrò aggregarli sì che prendano
l’un l’altro confidenza.
Che si lascino andare al fumo nostalgico
dei segreti non ancora rivelati.
Ogni ragionevole alibi per coltivare
il dubbio, la diffidenza reciproca, dovrà
essere disperso, per allora.
Per il 2074 gli ultimi indugi devono
essere definitivamente rotti, spianate le strade
delle sommesse e nostalgiche confessioni.
Poiché sarà solo tra queste muffose
maniche fodere cuciture che brucieranno
i fuochi fatui della mia ineguagliata fama,
della mia gridata e battagliera opera.
***
AL CIMITERO
Con le prime giornate di sole,
i morti appaiono più sani, più rilassati.
(Scrutando le foto dovremmo ravvisarvi
una qualche rinnovata forma di pigmentazione).
E’ il miracolo della luce, che li stana dalla gelida ombra dell’inverno.
Guardo queste foto così gagliarde, ed estraggo un block notes.
La morte è così, la morte è cosà, e tante altre preziose (talora amene)
notizie di questo genere mi vengono generosamente elargite.
Sono lento a scrivere e qualcosa scappa sempre.
Uscendo dal cancello, il mio passo è decadente
e tuttavia ossessivo, raggelato
in una sua elusiva e discutibile circospezione.
Saluto mestamente chi entra.
Non fischietto solo perché il gesto
non si addice alla decadenza – altrimenti lo farei.
Nessuno si volta solo per via
della mia disperata eleganza – altrimenti lo farebbe.
Nessuno si è ancora accorto
degli appunti furtivamente infilati
nel suo proprio paltò.
***
FINCHE’
Scrivo sempre più lentamente.
Un tempo ero più veloce.
Negli ultimi anni rallento, mi do alla macchia scrittoria
gioco a nascondino tra me e me
nascondo la penna alla mia mano e viceversa.
Fatto è che gli scritti attribuibili a me medesimo scarseggiano,
si fanno desiderare. La mia opera latita
oppure si dissolve.
Si volatilizza, emigra certamente in un’altra biblioteca -
che non è la mia, che non è la vostra.
Scrivo poche parole la settimana.
Che diventeranno, tra non molto, poche parole al mese -
pochi sparuti graffi in un anno.
Vecchio, dovrò per lunghi e pazienti giorni
guidare una penna sopita ed incollerita
senza che ne esca una sola frase compiuta -
quella frase sarà il resoconto inacidito del mio vagito,
del mio ingresso nel mondo.
Un resoconto che non ho saputo scrivere da piccolo,
non foss’altro perché non sapevo ancora scrivere.
***
HORRIBILIS
La lettura è qualcosa di orripilante.
Una mostruosità che acceca.
Un giorno ormai lontano, sentii addirittura qualcuno
pronunciare cancro. Cancro cieco ed accecante.
(Una volta ebbi persino la visione del libro di Kubin:
i suoi orrori:
gli stessi orrori che muovono
le orde degli uomini accecati dai libri).
Non so quali rimedi adottare.
Anche se vi ho spesso pensato.
Vi è stato un tempo in cui pareva
dovessi gridare eureka: alla morte di mio padre –
la morte, pensavo, doveva mettere in fuga i libri.
Ma con il passare della morte è poi
passato del tempo – il tempo.
E così come mio padre non è
certo resuscitato,
così come mio padre non me lo sono
certo dimenticato,
la morte non ha affatto messo in fuga i libri.
Li ha proditoriamente raccolti, sedimentati,
stivati in polverosi ed affettuosi scaffali
tutti da rovistare,
tutti da spiare
con acrimonioso
e fallimentare rimpianto.
***
OROLOGERIE
Andare per castelli talvolta serve.
Si imparano alcune cose.
Un tempo
(ma quale tempo? c’è forse un altro tempo oltre a questo tempo?)
un tempo credevo che i nostri avi fossero
delle anime – o meglio, cervelli - semplici.
Che avessero in spregio la complessità.
(Ho spesso parlato a mio padre così
come un adulto bamboleggia con un bambino.
Lo stesso continuo a fare con mia madre).
Mentre i castelli rivelano intricate e
diaboliche architetture.
Dentro ai castelli son costretto alla vista
di orologi dai denti acuminati e
dalle intersezioni fatali.
Dai dipinti vengo oltretutto a sapere
che un tempo gli uomini si parlavano.
(Non l’ho detto e sarà forse bene che lo dica:
la parola è pur sempre una forma
di faticosa complessità).
Ora non mi sentirò più in colpa dovendo
frequentare le odierne e sinistre tecnologie.
La contemporaneità non mi apparirà più
il covo di una degenerata e cavillosa umanità.
Vengo da un passato oscuro ma complicato,
questo sto cercando di dire.
Il mio ieri (e l’altro ieri)
è cervellotico,
vorrei quasi dire ozioso.