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Castità e trasgressione: dagli Ippoliti di Euripide alla Fedra di Ghiannis Ritsos
di Federica Malara
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Castità e trasgressione: dagli Ippoliti di Euripide alla Fedra di Ghiannis Ritsos

«Ogni virtù era in lui racchiusa, ma emergevano su tutte la sophrosyne e la hosiotes: la sua castità e temperanza erano diventate proverbiali, come la sua rustichezza»[1].

Pudicitia e impudentia, ritrosia e sfrontatezza, rappresentano i termini chiave di un mito, quello di Ippolito e Fedra, particolarmente fecondo nella tradizione culturale europea, costruito sul ‘Potiphar Motiv’[2]: il topos del giovane bello e casto che respinge le avances di una donna sposata, subendone le calunnie. Nella letteratura occidentale il cosiddetto ‘motivo di Putifarre’ trova proprio nei due personaggi euripidei il suo modello archetipico mediato, nella maggior parte dei casi, dall’esperienza senecana.[3]   Il nome di Fedra appare per la prima volta in Odissea (l, 321), ma  è solo con Euripide, intorno al 432-430 a. C., che si ha una prima formalizzazione completa del mito con l’Hippolytos Kalyptomenos, del quale possediamo pochi frammenti[4] e, successivamente, con l’Ippolito ‘revisionato’ del 428 a. C. (lo Stephanephoros), pervenutoci per intero. In base ai frammenti del I Ippolito gli studiosi, ricostruendone il contenuto, hanno individuato peculiari differenze rispetto allo Stephanephoros, consacrato dalla tradizione successiva come modello di riferimento. L’Hippolytos Stephanephoros è ambientato a Trezene dove Teseo, responsabile dell’omicidio di un parente, giunge in esilio volontario insieme a Fedra; è difficile ricostruire l’ambientazione del Kalyptomenos, ma l’argumentum[5] sembra confermare Trezene. Ma che cosa avrebbe indotto Euripide a riscrivere la vicenda di Ippolito e Fedra? Indubbiamente, ciò che aveva fatto del Kalyptomenos un totale insuccesso: la spudorata dichiarazione d’amore della matrigna a Ippolito; un gesto condannato immediatamente come immorale dagli spettatori ateniesi.[6] Ne dà testimonianza, fra l’altro, Aristofane che nelle Rane mette in bocca ad Eschilo una precisa accusa nei confronti di Euripide: quella di aver creato delle pornai, donne corrotte e corruttrici. Se il ricordo del Kalyptomenos continuava ad essere vivo, significava che il giudizio del pubblico era stato particolarmente severo nei confronti delle precedenti scelte dell’autore.  Il titolo stesso della prima versione della tragedia, Hippolytos Kalytptomenos, contiene una precisa allusione all’atto di velarsi il capo[7], gesto dettato dalla pudicitia con cui il giovane risponde alla sfrontatezza della matrigna. L’eliminazione nello Stephanephoros della dichiarazione diretta di Fedra ad Ippolito, sostituita dalla rivelazione mediata della nutrice, riscattando la figura di Fedra dall’immoralità di cui era stata tacciata con il Kalyptomenos, garantiva a Euripide il superamento dal precedente smacco e sanciva il definitivo successo del mito di Ippolito e Fedra.   Nella seconda versione della tragedia la responsabilità della matrigna è mitigata dal ruolo assunto da Afrodite che, in un lungo prologo informativo, ammette di volersi vendicare di Ippolito, preannunciando poi la terribile fine del giovane. Il problema della morale è però, in tutta la tragedia, strettamente connesso a quello gnoseologico; il contrasto fra castità e passione, che alimenta tutto il dramma è, infatti, inevitabilmente intrecciato a quello della conoscenza della verità, secondo le diverse prospettive dei personaggi.[8] E il contrasto verità-apparenza si insinua, sin da subito, per poi essere rafforzato dalle menzogne sulla tavoletta scritta da Fedra ed, infine, superato grazie all’epifania di Artemide che ristabilisce la verità di Ippolito.

La Phaedra di Seneca

Il nostro percorso verso la Fedra di Ghiannis Ritsos non può prescindere da un’analisi del modello latino per eccellenza, la Phaedra di Lucio Anneo Seneca, ‘anello di congiunzione’ fra l’archetipo euripideo e le riscritture moderne della vicenda. Nella tradizione latina la figura di Fedra trovava un antecedente nelle Heroides[9] di Ovidio dal quale pare, però, che il filosofo di Cordoba non abbia colto più di qualche spunto iniziale. La maggior parte dei critici – sottolinea Paratore – pur negando che per la dichiarazione di Fedra ad Ippolito Seneca si fosse ispirato ad Ovidio, ha riconosciuto la straordinaria vicinanza delle due scene, che risultano accomunate da uno spirito ed una passionalità tutte latine.[10]   Con Seneca Fedra diventa protagonista indiscussa del mito e da questo momento «la sua passione proibita si affermerà come un diritto naturale piuttosto che come un errore dei sensi»[11]. Già l’inizio della Phaedra manifesta un primo evidente elemento di novitas rispetto allo Stephanephoros: l’eliminazione del prologo di Afrodite, individuata invece da Euripide come diretta responsabile degli avvenimenti.[12] Questa scelta rispondeva a un’esigenza ben precisa: la responsabilità della vicenda doveva essere ricondotta esclusivamente alla voluntas della matrigna consapevole, sin dall’inizio, della peccaminosità della sua passione per Ippolito. La consapevolezza della colpa trattiene inizialmente Fedra[13]; il tempo degli indugi è però breve e ben presto, nonostante i propositi iniziali, è il furor amoris a prevalere sulla ratio, trascinando a capofitto la regina verso il crimen (la diretta dichiarazione al figliastro). Vani tutti i tentativi compiuti dalla nutrice per farla desistere dal suo intento.  Il conflitto fra ratio e furor, le due spinte contrastanti che lacerano l’animo di Fedra, trova la sua massima espressione nelle parole della regina, che sostiene di non volere ciò che vuole: quod volo me nolle.[14]  La dichiarazione d’amore al figliastro è preparata da una serie di circostanze: Fedra che inorridisce sentendosi chiamare ‘madre’ da Ippolito[15] prediligendo, piuttosto, la definizione di ‘sorella’ o ‘schiava’  (si rievoca implicitamente la tematica del servitium amoris[16])  Alla rivelazione di Fedra, Ippolito, come se si trovasse di fronte ad un nemico, snuda istintivamente la spada indirizzandola per un istante contro l’impudica noverca. Quella stessa spada che poi verrà utilizzata dalla nutrice come prova della colpevolezza di Ippolito; l’arma stessa di cui si servirà Fedra, alla vista del cadavere dell’amato, per portar a termine il suo suicidio purificatorio.  Ma l’originalità della versione latina, rispetto al modello euripideo, non si esaurisce nel ruolo assunto dalla protagonista femminile; la vicenda è ambientata ad Atene e manca completamente il momento di confronto verbale fra Teseo e Ippolito. Del tutto diverse sono, inoltre, le circostanze della morte della protagonista, dettata non più dalla vergogna e dal desiderio di riscatto morale, ma dal pentimento profondo di fronte alla vista del cadavere di Ippolito. Un pentimento sincero che porta la sciagurata matrigna a ristabilire una verità che, mentre riscatta Ippolito agli occhi di Teseo, condanna definitivamente lei, l’adultera, tanto da negarle qualsiasi forma di onore funebre: Istam terra defossam premat,/gravisque tellus impio capiti incubet. E cos’altro può restare a Teseo se non l’illusoria consolazione di poter ricomporre i disiecta membra laceri corporis dell’innocente figlio?  Le divergenze rispetto al modello euripideo portano ad escludere una diretta dipendenza della Phaedra dallo Stephanephoros. Allo stesso tempo, però, nonostante l’originalità del teatro senecano, è poco probabile che la dichiarazione di Fedra, l’episodio più trasgressivo della tragedia, possa rappresentare in toto un’innovazione introdotta dall’autore. Si potrebbe forse ipotizzare una ripresa dal Kalyptomenos di quello stesso elemento che avrebbe condotto la prima tragedia all’insuccesso;[17] ma anche in questo caso, ci sarebbero non poche discrepanze fra i due testi[18]. La questione del rapporto della Phaedra di Seneca con i precedenti greci è tuttora controversa, ma non sminuisce l’originalità del testo latino, modello di riferimento per le riscritture moderne forse anche più degli Ippoliti euripidei. 

Il fascino dell’impudentia: la Fedra di Ghiannis Ritsos

Moderna e trasgressiva riscrittura di un mito consacrato dalla tradizione, la Fedra del poeta neogreco Ghiannis Ritsos[19], per la sua spiccata originalità[20], merita indubbiamente un posto privilegiato nella storia dei riadattamenti della vicenda. L’aspetto più innovativo è rappresentato dalla struttura formale adottata dall’autore, che coincide con quella degli altri componimenti della raccolta Quarta dimensione[21]: alla tragedia d’impostazione classica si sostituisce, infatti, un lungo monologo drammatico della protagonista, preceduto e concluso da due sezioni prosastiche con funzione di prologo informativo ed esodo. Questa scelta permette all’autore di focalizzare l’attenzione sul nucleo centrale del mito, la dichiarazione d’amore di Fedra, che acquisisce così piena compiutezza e autonomia: «Il monologo, da grande unità testuale diventa addirittura elemento autosufficiente, diventa inizio e fine dell’azione drammatica, crea al suo interno tutti i referenti, esaurendo nel suo contesto la sostanza drammatica»[22]. E così, proprio attraverso l’espediente del monologo, lo slittamento dell’attenzione da Ippolito a Fedra, introdotto da Seneca ed ereditato dai moderni, viene portato alle estreme conseguenze da Ritsos e ad Ippolito, ridotto al rango di personaggio muto, non resta che stare ad ascoltare in silenzio le parole trasgressive della matrigna.

L’ambientazione è davvero innovativa: il prologo ci introduce in un’ampia stanza, intonacata a calce, nella quale Fedra «una donna, forse sopra i quarant’anni, su una sedia a dondolo intrecciata si dondola con leggerezza»[23]; la stanza è illuminata da una luce soffusa bianca.  La straordinaria pacatezza con cui viene ritratta Fedra, preannuncia già il carattere rivoluzionario della riscrittura e i tratti della sua protagonista. L’apparente serenità della scena iniziale viene, però, interrotta quasi subito dall’entrata di Ippolito di ritorno dalla consueta caccia; al dolce dondolio si oppone il brusco movimento con cui Fedra si alza dalla sedia per andargli incontro; la stanza è adesso immersa in una luce rosso profondo. Il giovane «saluta con rispetto impacciato»[24] la matrigna che, senza risparmiargli sguardi di aperta ammirazione, si accende con disinvoltura una sigaretta, in un gesto carico di sensualità; la trasgressività di questa Fedra trasuda già dai piccoli particolari che precedono il monologo. Stupisce, rispetto alle versioni precedenti del mito, l’assoluta tranquillità con cui la regina inizia il suo discorso; la confessione a Ippolito diventa però gradualmente incontrollata e svela un’audacia e una sensualità sempre più prorompenti, fino alla perdita di qualsiasi senso del pudore[25]. Molto spesso le sue parole richiamano esplicitamente la bellezza e il vigore del corpo di Ippolito:

Il tuo corpo
lo conosco bene, come poesia mandata a memoria.
La Nutrice,
migliaia di volte, con ogni particolare mi ha descritto 
il tuo corpo. Spesso, distratta,
ti disegno nudo sul rovescio dei pacchetti di sigarette.  

(Trad. Amato)

Nella casa condivisa Fedra riesce addirittura ad avvertire la fisicità di Ippolito:

La casa è un corpo, lo sfioro,
mi sfiora, si attacca a me, le notti specialmente;
La casa è un corpo
è il tuo corpo e insieme il mio.

(Trad. Amato)

In Ritsos non esiste pentimento: Fedra è assolutamente consapevole di nutrire dei sentimenti illeciti; la sua passione per Ippolito è fuori da ogni convenzione, ma non se ne preoccupa. Né si cerca un alibi, una causa superiore che possa giustificare l’origine di un amore malsano; è la voluntas di Fedra ad essere in primo piano, «sebbene la libertà di scelta dell’uomo non sia tale in maniera assoluta, ma si esprima all’interno di un sistema, in cui esiste un condizionamento ontologico»[26]. Il dramma ruota dunque intorno al tema del libero arbitrio dell’individuo, «che avoca a sé ogni diritto, anche quello di sbagliare»[27]. Ma la bellezza e il fascino di questa Fedra non sono da ricondurre esclusivamente alla sua spiccata sensualità o al desiderio di trasgressione[28]; a completare il quadro, infatti, concorrono anche atteggiamenti più delicati, di velata malinconia e disillusione che trapelano, di tanto in tanto, fra le righe. Più volte, infatti, Fedra analizza se stessa con lucidità, facendo emergere una profonda sfiducia nei confronti della vita e dimostrandosi consapevole della sua condizione di estrema solitudine[29]:

Non ci credo.
Non credo a niente. Non comprendo niente. Ognuno di noi è solo,
Ognuno è proscritto, col marchio rosso
sulla fronte o sulla spalla.  (Trad. Amato)

Tutto il giorno
attendo la notte, se le mie ombre si fondano col buio,
per poter occupare meno spazio, per rinchiudermi nel mio guscio,
per essere
come un chicco di grano sulla terra. Non ci riesco. (Trad. Amato)

Alle amare considerazioni sulla vita, seguiranno, nella parte conclusiva del monologo, quelle riservate alla morte, svuotata di qualsiasi funzione catartica:

Sola consolazione 
(ama ripetere la mia Nutrice) è quella di pensare giorno e notte
alla nostra morte. Ma anch’essa quando? La sua certezza
rilassante attiene al nostro futuro, mentre
l’istante più breve del nostro presente, in uno qualsiasi
dei suoi desideri,
è più assoluto della morte. (Trad. Amato)

È la vita l’ingiustizia suprema della natura mentre la morte, pur essendo «una falsa parola di consolazione», si conferma l’unica giustizia definitiva.   Tutte queste considerazioni permettono a Fedra di autodeterminarsi di fronte al pubblico; la protagonista del mito non si delinea più attraverso le parole della nutrice o del coro, sono le sue stesse riflessioni e le sue azioni a renderla una figura concreta, dalle molteplici sfaccettature.  Una Fedra moderna e originale, donna trasgressiva, sensuale ed allusiva, ma anche straordinariamente riflessiva e malinconica[30]. In contrapposizione a lei, “un’ombra”, Ippolito, che resta per tutto il tempo un personaggio muto; la sua presenza sembra rispondere esclusivamente alla necessità di mettere in moto la dichiarazione della matrigna e far sviluppare il suo dramma.  E c’è un ulteriore elemento di novità: Fedra rivolge a Ippolito delle accuse ben precise[31] che insinuano il dubbio sulla tradizionale castità del giovane cacciatore. Con Ritsos, dunque, crolla anche il mito della pudicitia d’Ippolito, reinterpretata dalla regina come una sorta di ‘maschera’ di santità:

Non vedo il tuo profilo.
Meglio. Non vedo 
la tua maschera (perché porti anche tu una maschera -
chiamala di santità
o di castità- una maschera tuttavia). (Trad. Amato)

Ma la maschera di Ippolito, che è anche la maschera di Fedra, non è altro che la maschera che accomuna ogni singolo individuo nella menzogna della vita[32]:

Al mattino,
appena svegli (più sfiniti che prima di dormire) il primo
nostro movimento
prima ancora di lavarci, prima di bere il nostro caffè,
è stendere la mano,
per prendere dal comodino la nostra maschera secca,
adattarla, come rei, al nostro viso
ora con colla di farina o di pesce, ora
con quella colla vischiosa con cui i calzolai incollano le pelli.
E tutto il giorno
Sentire la colla che si secca, che si stacca, 
pezzo per pezzo dalla tua pelle. (Trad. Amato)

Di fronte alla confessione della matrigna Ippolito resta impassibile ed il suo silenzio è, per Fedra, più doloroso di un rifiuto: «Va’, dico. Non sopporto l’insulto del tuo silenzio».   Siamo quasi alla fine del monologo; la regina, al rifiuto d’Ippolito, lo allontana, lo spinge verso un bagno purificatorio pronunciando, contemporaneamente, minacce di vendetta:

Va’, dunque. Perché mi stai lì impietrito? Va’ nel tuo bagno,
va’ a lavarti delle mie parole empie, dei mie occhi empi,
dei miei occhi rossi, infangati. Può darsi che lì dentro
anche tu per un po’ ti leverai la maschera, la tua corazza
di vetro,
la tua glaciale santità, la tua criminale vigliaccheria.
Va’, ti dico. Non sopporto
l’insulto del tuo silenzio. La vendetta l’ho preparata. Vedrai.
Peccato!  (Trad. Amato)

Nel solco della tradizione resta, invece, la calunnia con cui si realizza la vendetta di Fedra: «Tuo figlio, il figlio di Antiope, ha tentato di violentarmi»[33]; e per Ippolito non resta che l’esilio…

Note:

[1] V. Puntoni, Studi di mitologia greca ed italica per Vittorio Puntoni. I: sulla formazione del mito di Ippolito e Fedra, Pisa, T. Nestri e C., 1884, pp. 18-19.
[2] Definizione attribuita sulla base di un passo della Genesi (39, 6-20): il protagonista della vicenda, Giuseppe (figlio di Giacobbe), divenuto schiavo dell’egiziano Putifarre, diventa oggetto del desiderio di sua moglie che, dopo aver tentato ripetutamente e invano di sedurlo, si vendica accusando Giuseppe di violenza e provocandone l’incarcerazione. 
[3] Il mito di Ippolito e Fedra, così come trattato da Euripide, presenta non poche analogie con alcuni antecedenti orientali. Un’analisi esaustiva delle leggende e dei miti, orientali e greci, paragonabili a quello di Ippolito e Fedra, è offerta da V. Puntoni, Studi di mitologia…, cit., pp. 85-143. Per fare solo qualche esempio: oltre al già citato mito di Putifarre, abbiamo notizia di una leggenda egiziana, tramandataci dal papiro Orbiney (Selected Papyri in the hieratic character from the collection of the British Museum, part. II, IX sgg, London 1860), che rappresenterebbe il più antico nucleo di mito paragonabile a quello euripideo. Ancor più simile alla vicenda di Ippolito e Fedra può essere considerata la storia narrata nello Schân-nâmeh (libro dei re persiani), dal momento che la regina Sûdâbeh si innamora perdutamente proprio del suo figliastro, così come accadrà a Fedra. Negli antecedenti greci, invece, il giovane che scatena il furor amoris della protagonista non è in genere legato a lei da alcun rapporto di parentela, ma si tratta spesso di un ospite straniero. Possiamo ricordare, a questo proposito, la vicenda di Bellerofonte che, calunniato da Stenebea, è costretto ad abbandonare Tirinto. 
[4] Tragicorum Graecorum Fragmenta, rec. A. Nauck. Supplementum continens nova fragmenta Euripidea et adespota apud scriptores veteres reperta adiecit B. Snell, Hildesheim, G. Olms, 1964 , frr. 428-447, pp. 491-498.
[5] Per l’argumentum del I Ippolito vd. W. Luppe, Die Hypotesis zum ersten Hippolytos, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik» CII (1994), pp. 23-39 (in particolare pp. 25 e 39). Un’analisi esaustiva delle differenze e analogie fra le due tragedie euripidee, in questo contributo esposte in sintesi, è offerta da A. Porro, Gli Ippoliti di Euripide. Il dramma della conoscenza, «Humanitas» LII,1997, 3, pp. 331-347. 
[6] Secondo Moricca, invece, l’insuccesso del Kalyptomenos è da ricondurre non tanto alla sfrontatezza della protagonista femminile, quanto piuttosto ad aspetti di natura tecnica, sui quali Euripide sarebbe poi intervenuto con la stesura della seconda tragedia (U. Moricca, Le fonti della Fedra di Seneca, «Studi italiani di filologia classica», XXI, 1915, p. 167). 
[7] Nel II Ippolito è invece Fedra a compiere questo gesto (vv. 242-246).
[8] A questo proposito A. Porro, definisce l’Ippolito «dramma della conoscenza», sottolineando la frequenza, all’interno della tragedia, del sostantivo phren e del verbo phroneo con i suoi composti; le parole riconducibili a questa radice sarebbero, secondo le stime della studiosa, più di 1/8 di quelle rintracciabili nell’intero corpus euripideo (Gli Ippoliti…, cit., pp. 338-339). 
[9] Ovid., Heroides, IV.
[10] E. Paratore, Sulla Phaedra di Seneca, «Dioniso. Bollettino dell’Istituto Nazionale del dramma antico», XV, 1952, 3-4, p. 216.
[11] Euripide, Seneca, Racine, d’Annunzio, Fedra. Variazioni sul mito, a c. di M. G. Ciani, Venezia, Marsilio, 2003, p. 11.
[12] Nel prologo euripideo Afrodite dichiara apertamente di volersi vendicare di Ippolito per le offese arrecatele (vv. 20-22) presentandosi, sin dall’inizio, come l’unica responsabile della passione malsana di Fedra e anticipando le cause della morte di Ippolito.
[13] «[…] essa intende la mostruosità che sta per compiere e quasi arretra; non sa trovare le parole per esprimersi, quasi vorrebbe che il figliastro intuisse e le facilitasse il compito. Ma così la situazione di Fedra si umanizza e diviene sempre più drammatica» (E. Paratore, Sulla Phaedra…, cit., p. 218).
[14] Con quest’affermazione – come sottolinea Biondi – Fedra si colloca nella schiera dei peccatori «più umani dell’universo senecano» (Seneca, Medea. Fedra. Intr. e note di G. G. Biondi. Trad. di A. Traina, Milano, Bur, 2001 (10), p. 63).
[15]Matris superbum est nomen et nimium potens:/nostros humilius nomen affectus decet (v. 609). Per un approfondimento sull’uso del lessico parentale in Seneca, vd. A. Borgo, Lessico parentale in Seneca tragico, in Studi Latini (collana diretta da F. e G. Cupaiuolo), XII, Napoli, Loffredo, 1993. Alla vicenda di Ippolito e Fedra, in particolare, la studiosa riserva le pagine conclusive (49-51) del capitolo dedicato al tema dell’incesto (I delitti contro la famiglia. I: l’incesto, pp. 38-51).
[16] Me vel sororem, Hippolyte, vel famulam voca,/famulamque potius:omne servitium feram (vv. 611-612).
[17] Il Paratore definisce la dipendenza di Seneca dal Kalyptomenos «uno di quei postulati critici che, guardati da vicino, si mostrano fondati sulla sabbia» (E. Paratore, Originalità del teatro di Seneca, «Dioniso. Bollettino dell’istituto nazionale del dramma antico», XX, 3-4, 1957, p. 14). 
[18] Per una più approfondita disamina delle divergenze fra la Phaedra e il Kalyptomenos rimando al già citato articolo di Paratore (E. Paratore, Sulla Phaedra …, cit., pp. 210-214).
[19] Per le notizie biografiche e l’elenco delle opere di Ghiannis Ritsos vd. Ghiannis Ritsos. Prima dell’uomo, a cura di F. M. Pontani, Milano, Mondadori, 1972, pp. 299-305 e il saggio di C. Sangiglio, Incontro con Jannis Ritsos, in Il castoro, CI, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
[20] Il processo di recupero del mito operato da Ritsos viene metaforicamente interpretato da Amato come una morte seguita da una rinascita; «Senza questa morte, il mito resterebbe sclerotizzato, inerte e immobile, darebbe luogo a semplici riproduzioni di se stesso» (S. Amato, Invito alla lettura di “Fedra” di Ghiannis Ritsos, «Mondotre», III  [suppl. al n. 6], 1990, pp. 27-28).
[21] G. Ritsos, Quarta dimensione, Milano, Crocetti, 2012.
[22] S. Amato, Invito ..., cit., pp. 31-32.
[23] G. Ritsos, Fedra. Introduzione e traduzione a c. di S. Amato, [Siracusa], [1990], p. 49.
[24] Id., ivi.
[25] Nelle sue parole i riferimenti sessuali, inizialmente metaforici, diventano sempre più espliciti.
[26] S. Amato, G. Ritsos..., p. 32.
[27] Id., ibidem., p. 35.
[28] «Come sempre accade, in personaggi complessi e carichi di simboli, un aspetto non esaurisce il tutto, e quindi, l’interpretazione non può essere univoca e semplificante, perché c’è il rischio che le componenti e le sfumature, che concorrono a definire il carattere del personaggio e la sua dimensione esistenziale, si riducano ad unum e, rendendo lineare ciò che non lo è, finiscano per compromettere l’analisi e la comprensione del personaggio stesso» (S. Amato, Invito…, cit., p. 37).
[29] «La solitudine rimane, dunque, la misura del sofferto umanesimo di Fedra, come era già in Seneca; e non può essere che così, perché prima dell’uomo, dopo l’uomo, fuori dell’uomo, forse, c’è solo il niente» (S. Amato, Invito…, cit., p. 41). 
[30] Uno dei momenti in cui Fedra tradisce un atteggiamento più malinconico è il ricordo della vita trascorsa ad Atene, ai tempi dell’innocente fanciullezza di Ippolito.
[31] Ippolito viene accusato di praticare forme di auto-erotismo («Lo so: da solo ti ami, quando ti trovi solo davanti allo specchio» trad. Amato).
[32] Il tema della maschera, che permetterebbe all’uomo infelice il rifugio in un alter ego migliore da sé, è ricorrente nel repertorio del poeta neogreco, che lo elabora per la prima volta all’interno della raccolta poetica Gesti (1972). Nel caso di Ippolito e Fedra si addice particolarmente all’ambiguità della situazione: mentre, però, Fedra si libera della sua maschera attraverso la confessione, persistono i dubbi insinuati sulla figura di Ippolito.
[33] Il messaggio viene ritrovato da Teseo appeso alla cintura del cadavere di Fedra.

A cura di Federica Malara



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