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Era bella, era bella e pittoresca la vecchia via dove Miroslav se ne stava seduto e pensoso tante ore al giorno, indossando le quattro pareti del suo piccolissimo negozio. Erano come quattro lembi di un mantello, o come maniche, dorso e revers di un fedele cappotto: una metafora per dire che Miroslav era padrone e re nel rifugio che trovava tra quelle pareti vecchie e sdrucite .
Il piccolo negozio passava quasi inosservato, soprattutto ai turisti che arrancavano su per la via in cerca di Arte e di Storia: dalle insegne di pietra, alle facciate dei palazzi barocchi, e su , sul selciato irregolare, fino alla cattedrale e al castello.
Eppure, anche tra quelle piccole pareti, nella stretta luce diurna della strada, c’erano tracce intense di una Storia sia antica che recente, fatta di tante singole Storie sconosciute. Alle pareti – isolati su brevissimi scaffali – centinaia di oggetti facevano mostra di sé dal pavimento al soffitto. Alcuni preziosi, altri anonimi nella loro presunta banalità..
Miroslav li conosceva uno ad uno, oggetti comuni e non. Su un registro erano segnati naturalmente i loro nomi, la città di provenienza, l’anno del loro arrivo: poi stranamente nient’altro. Perché la loro storia era custodita tutta e solo dalla memoria di Miro. Il registro era un puro residuo ottocentesco ; le parole, scarne,erano scritte col piacere della penna ad inchiostro e col dispiacere di qualche sbavatura. Sembrava un inventario: inventario, però, di oggetti in entrata e mai in uscita.
Il negozio non era dunque un banco dei pegni: nessuno pagava alcun riscatto e niente veniva venduto allo scadere dei termini .
E siccome le quattro pareti non erano inglobate né in una chiesa né in una canonica, gli oggetti non erano nemmeno ex voto.
A dir la verità, un altro registro c’era, nascosto in uno scomparto del bancone: come se Miroslav lo volesse ignorare, allontanare da sé. Uguale all’altro per forma, colore e dimensioni, di diverso aveva un’intestazione sulla prima pagina, ed un’unica altra pagina scritta, con nomi di oggetti elencati uno sotto l’altro, vicino a date diverse..
L’intestazione diceva “ Registro degli addii”.
L’addio significava che l’oggetto non era più lì, perché chi l’aveva affidato in custodia a Miroslav , alle sue cure e ai suoi poteri aveva rinunciato per sempre al miracolo che Miro avrebbe potuto compiere. Ed era venuto a ritirare l’oggetto, definitivamente. Oppure l’addio significava che nemmeno Miro aveva potuto opporsi agli eventi e realizzare il Desiderio del committente. In ogni caso, quello era il registro delle sconfitte.
L’ultimo ad andarsene, in alto sulla pagina, era stato un giacchetto ruvido e grigio, piegato più volte su se stesso. Taglia da ragazzo. Anno 1948. Prima, quindi, che Miro ereditasse dal nonno Jan buona parte dei suoi oggetti e soprattutto le sue doti speciali . Miro ricordava ancora il racconto del vecchio su quel piccolo indumento ripiegato : nel racconto, erano di scena la porta a vetri e un pallido sole di primavera. Un uomo era entrato strascicando i piedi, spento. E, senza parlare, aveva indicato lentamente l’oggetto, là, sulla parete. Il nonno a sua volta aveva alzato lo sguardo. Ma non aveva voluto cedere né credere. Non cedette infatti alla richiesta di restituzione del giacchetto, né volle credere che tutti quegli anni di dedizione fossero stati inutili: sapeva quanto avesse amato, alimentato, e curato “la cosa”, con tutte le proprie forze e i propri poteri. E senza cedimenti del coraggio e del cuore. Fiducioso – sempre - che il forte Desiderio legato all’oggetto si sarebbe realizzato. Giorno dopo giorno, in tanti anni, il vecchio Jan aveva donato a quel Desiderio tutto il calore dei suoi sentimenti, di un Amore Disinteressato. E questa sua prodigiosa capacità di Amare i Desideri degli altri con tutto se stesso era solo una parte dei suoi poteri: gli permetteva di catalizzare l’energia dell’universo. L’altra parte era quella delle sue mani sensitive. Il loro calore penetrava la stoffa del giacchetto, senza toccarlo. E questo calore, aggiunto al primo, infondeva al suo proprietario ( taglia da ragazzo) linfa vitale e forza e difesa contro ogni pericolo. Ovunque quel ragazzo si trovasse.
Jan , in tutti quegli anni, aveva “sentito” palpitare la vita in quell’oggetto, come se sotto il giacchetto ci fosse un cuore .Non poteva essersi sbagliato. Sapeva di aver aiutato con tutto se stesso il forte , legittimo, grande Desiderio dell’uomo che ora rivoleva la sua reliquia. Le mani di Jan – poste su di essa - non avevano mai percepito la morte, se non quella che aveva circondato ogni cosa negli anni terribili dell’inferno e della bufera….
Per questo il vecchio Jan era rimasto immobile.
L’uomo allora, senza parlare, lo invitò a seguirlo. E, benché fosse straniero in quei luoghi, i suoi passi erano decisi.
Sempre in silenzio, i due attraversarono a testa bassa la città. Alzarono gli occhi solo quando, entrati in un edificio, sulle maestose pareti bianche lessero uno ad uno, e a migliaia, tutti i nomi scritti col sangue nero del delitto, col sangue rosso del sacrificio. E piansero. Per tutti quei nomi nella sinagoga. Soprattutto per quello che li fece fermare e tremare. Se il nome era lì, piccolo ma visibile come un tatuaggio, ogni magia era inutile e nessun amore poteva realizzare il Desiderio della sopravvivenza e del ritorno.
Miro volle allontanarsi dal brutto ricordo di questo racconto e dai sentimenti dolorosi che gli aveva trasmesso. Via. Via.
Uscì dal negozio. Chiuse la porta. Per quel giorno le emozioni avevano svuotato quasi del tutto la sua anima sensitiva.
Si diresse verso casa. A passi molto lenti, come se fosse stanco.
Ma la sua sensibilità paranormale continuava ad essere turbata.
Tutto, attorno a lui, nell’aria che precedeva l’oscurità, aveva il potere di tenere all’erta le sue emozioni. Si accese una sigaretta. Era come se sentisse un’ombra di dramma in tutte le cose: nelle voci della strada, nel rumore di qualche imposta che si chiudeva, nell’uomo cieco e muto che aspettava l’elemosina dei passanti. A Miro sembrava quasi che quegli occhi vuoti lo guardassero, e che quella bocca senza parole cercasse di gridare qualcosa, come a voler essere riconosciuta.
©
Claudia Bulgarelli
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