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L’eredità
di Cinzia Baldini
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Se Iddio voleva, la guerra era finita. 

Per l’ultima volta guidai il tram fino alla rimessa. Abbassai i pantografi e controllai che tutto fosse in ordine. Aprii le porte e scesi lentamente i gradini in ferro. Con il magone in gola e senza voltarmi indietro lasciai il deposito salutando con un cenno del capo il vecchio guardiano nel gabbiotto. Non ce l’avrei fatta a congedarmi da lui con un abbraccio senza scoppiare a piangere e, forse, era l’ultima cosa che volevamo entrambi.

Finita l’emergenza bellica mi trovai di punto in bianco senza lavoro e senza il salario che fino a quel momento mi aveva permesso di vivere dignitosamente. 

Ripiegai accuratamente la divisa da conduttrice e la misi nella valigia di cartone insieme agli altri indumenti e agli altri oggetti che, in quel limitato spazio, riassumevano la mia vita . Avevo deciso di lasciare la Capitale e tornare nel borgo natio sperando che i miei genitori fossero ancora vivi, visto che l’ultima lettera ricevuta da loro era vecchia di oltre sei mesi. 

Avevo bisogno di pensare. 

La guerra mi aveva rubato gran parte della giovinezza ma mi aveva permesso di varcare un confine del quale ignoravo l’esistenza. Mi aveva fatto comprendere il significato di tre semplici parole che mai avrei pensato di pronunciare: parità di genere. 

Era un mondo sconosciuto e tutto da scoprire, ma era un mondo che mi piaceva. E mi rendevo conto che, ora che l’emergenza era terminata, sarebbe stato difficilissimo da raggiungere. Il varco temporale si era chiuso con la firma dell’armistizio.

Nell’assolato pomeriggio in cui arrivai al mio paese, con l’unica, giornaliera, sgangherata e puzzolente corriera in servizio, vi regnava il silenzio. 

Ad eccezione di un gatto, scheletrico, che mi venne incontro miagolando disperato, e al quale diedi il pane che mi ero portata per il viaggio, non incontrai nessuno. 

Forse era un segnale del destino al pari della scomparsa del sole che, nascosto dietro grosse nuvole nere, riversava una luce plumbea e spettrale sulle strade deserte rendendo ogni cosa ancora più dimessa e avvilita. 

Nelle viuzze che sfociavano sulla piazza principale cumuli di macerie si alternavano alle abitazioni rimaste miracolosamente in piedi. 

La cupola della chiesa madre, parzialmente sfondata, con quel ghigno orbo sembrava irridere il mio ritorno. 

Le botteghe degli artigiani erano sprangate, soffrivano ancora dell’anomala letargia bellica. 

Lasciandomi alle spalle il centro abitato tagliai per i campi avendo rischiato più volte di cadere sui bordi dei crateri lasciati dalle esplosioni delle bombe sulla strada principale. 

Non mi accorsi di aver trattenuto il fiato finché un sospiro di sollievo salì alle labbra: la mia casa c’era ancora! 

Mia madre e altre donne giovani e anziane, erano sedute davanti alla porta, sull’aia, e pulivano verdure per la cena, sferruzzavano o chiacchieravano senza perdere d’occhio i bambini che giocavano poco lontano. 

Gli uomini, tutti avanti con l’età, facevano gruppo a parte e, gesticolando, discutevano a bassa voce. 

Il paese era tutto lì. La comunità, o ciò che rimaneva di essa, si era riunita in quella piccola oasi agreste per ritrovare la forza di risorgere. 

Li spiai per qualche tempo. Mio padre ascoltava interessato, fumando la minuscola sigaretta che si era appena confezionata, ciò che un vecchio stava raccontando. 

Il modo di prendere il tabacco tra pollice e indice, la maniera con cui lo sistemava nella cartina prima di avvolgerla tra le dita e, quindi, inumidirla con la lingua per dargli la forma voluta, mi appariva ora non più un vizio, ma una specie di rituale che ritrovai con piacere. Piccoli gesti dimenticati che legavano il passato al presente e sarebbero rimasti immutabili anche nel futuro. 

Mi mossi e sentendo il calpestio dei passi sulla strada polverosa, tutti gli occhi conversero, incuriositi o forse spaventati sulla mia persona, ma presentandomi controsole non capirono chi fossi. 

Solo quando gettai la valigia a terra e iniziai a correre, spalancando le braccia, prima verso l’una e poi verso l’altro come una trottola impazzita, mi riconobbero. 

Scrutandoci e carezzandoci, ridendo e piangendo, quasi increduli di essere tutti insieme e ancora vivi, restammo alcuni minuti avvinghiati fino a toglierci il respiro. 

Salutai i presenti e, recuperato il bagaglio, entrai in casa scortata dai miei cari. 

Ci sedemmo sulle immortali sedie impagliate e dopo un breve silenzio iniziammo a parlare tutti e tre contemporaneamente. 

All’interno, come all’esterno, nulla era cambiato. 

Tutto era solo più vecchio, così come lo erano i miei genitori…

Rimasi per qualche tempo con loro poi, man mano che il borgo si ripopolava degli uomini reduci dal fronte, decisi di riprendere le redini della mia vita. 

La semina, l’attesa, il raccolto: la dolce monotonia della campagna nell’alternarsi delle stagioni, lo scorrere pigro delle ore negli assolati pomeriggi estivi o lo scrosciare fitto della pioggia durante i temporali autunnali, la neve che trasformava il paesaggio in un piccolo presepio, non mi riempivano più di meraviglia. Non vi trovavo alcuna poesia. 

La guerra aveva inaridito la vena di romanticismo. La stupidità e la crudeltà umana avevano anestetizzato i miei sentimenti. 

Il lavoro dei campi era duro, ingrato e faticoso ma non era questo che mi spaventava. 

Avevo paura perché non riuscivo più a ragionare come prima del conflitto. Tutto mi appariva diverso e il futuro che avevo immaginato dopo la pacificazione non corrispondeva alle attese. 

Avevo conosciuto l’autodeterminazione e l’indipendenza economica e per tornare “libera” avevo bisogno di un lavoro che mi permettesse di realizzare le mie aspirazioni, anche se ciò significava riaffrancarmi dalla tutela familiare e andarmene di nuovo. Mi dispiaceva per i miei genitori, ma lì non c’era spazio per le mie ambizioni. 

La mentalità di quel piccolo borgo era troppo ristretta e mortificante. Non ero fatta per essere solo una buona madre e una sposa esemplare come tutti si aspettavano. 

I compaesani non erano ancora preparati ad accettare l’emancipazione di una donna e le mie idee erano troppo avanti per quel tempo e per quelle menti imbottite oltre misura di pregiudizi, frustrazioni e ipocrisia. Una femmina che pensava e agiva come un uomo era, per alcuni, una presenza intollerabile ed io non avrei di certo rinunciato ai miei principi per loro. 

Così, involontariamente, divenni una delle tante ignote protagoniste del disgelo culturale e antropologico della società che, da sempre maschilista e conservatrice, stava diventando un torrente inarrestabile. 

Ignorando le lacrime di mia madre e accettando la benedizione di mio padre me ne andai.

Il momento di caos dei primi anni del dopoguerra in cui tutto era pervaso da un fermento inarrestabile di ricostruzione e di voglia di dimenticarne le atrocità, era inimmaginabile. 

Priva di tutele e senza risorse economiche fui costretta a dare fondo ai miei sudati risparmi per procurarmi il minimo indispensabile alla sopravvivenza e a convivere in un monolocale con altre persone. 

Non fu facile e, riflettendoci ora, non saprei dire se siamo state donne sfortunate quelle della prima metà del novecento perché nate o vissute a cavallo dei due più grandi conflitti mondiali che la memoria dell’uomo ricordi. 

Forse, sotto alcuni punti di vista è stato così. Tenute fino a quel momento nell’ignoranza culturale, economica e politica più assoluta, abbiamo dovuto bruciare le tappe. Da “angeli del focolare” siamo diventate farfalle senza mai essere state bruchi. Non c’è stato un bozzolo ovattato che ci ha cullate e protette. 

Ci siamo trovate davanti ad una svolta epocale senza averla cercata. Un mutamento radicale avvenuto in fretta e a fronte di una nuova consapevolezza. Un cambiamento che ci ha fatto guadagnare la promozione sul campo e ottenere il dovuto riconoscimento per esserci caricate sulle spalle il fardello, tutt’altro che leggero, di una situazione disperata. E solo declinandolo al femminile, l’unica arma a nostra disposizione, siamo state in grado di contenerne i danni. 

Abbiamo imparato in fretta e la nostra tenacia ci ha premiate facendoci uscire vittoriose da una situazione totalmente negativa e ostile. In più abbiamo compreso che senza una coscienza collettiva non saremmo andate da nessuna parte. E il fatto di esserci riconosciute in essa, facendo corpo unico, ci ha consentito di riscattarci da secoli di sottomissione e vessazioni. 

C’è stata da parte delle donne, insomma, l’intelligenza di aver colto la grande opportunità di cambiamento sociale che la fine della guerra avrebbe, inevitabilmente, portato con sé. 

Coriacee e determinate, in silenzio e senza proclami, abbiamo preso il comando nel bel mezzo della burrasca bellica e traghettato, in attesa della pace, una nazione ridotta ad un cumulo di macerie e messa in ginocchio dalla fame, dalla povertà e dalle malattie. 

Con gli uomini più validi e i giovani impegnati al fronte, ci siamo prese cura degli anziani, dei reduci disabili, degli orfani, delle case, dei campi, del bestiame che le truppe nemiche in ritirata non avevano requisito, del commercio, delle fabbriche, dei trasporti, del supporto psicologico ai nostri soldati, dell’educazione dei nostri figli e di mantenere integre e vive le nostre tradizioni. 

Mentre la politica dei “vincitori” si preoccupava di redigere il suo libro di storia, noi abbiamo scritto, col nostro sangue, gloriose pagine di vita. 

Eravamo donne sconosciute, donne di diversa estrazione sociale, madri, figlie, mogli, sorelle, nonne che lavorando in silenzio con dedizione, immani sacrifici e, non di rado i nostri martiri, abbiamo permesso alle nuove generazioni di crescere e prosperare, di tornare in possesso di quel futuro che gli scellerati promotori delle ostilità gli avevano rubato. 

Signore e signorine che, nel dopoguerra, rimboccandoci le maniche e spezzandoci le unghie e le schiene, abbiamo ricostruito, anche fisicamente mattone dopo mattone, il nostro paese e conquistato a pieno titolo il diritto d’istruzione e quello di voto, il coinvolgimento attivo nella vita politica della nazione e, soprattutto, la possibilità di ottenere le medesime opportunità offerte agli uomini. 

Non abbassate mai la guardia e difendete sempre e ad ogni costo, con orgoglio, il nostro essere Donne. 

Prima che il nostro tempo si concludesse abbiamo passato il testimone alle figlie che a loro volta lo consegneranno alle nostre nipoti e così via, affinché le donne delle generazioni future non diano mai per scontata la loro libertà e conclusa la lotta per il riconoscimento dei nostri sacrosanti diritti, mai! 

E’ la nostra eredità.

© Cinzia Baldini





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