Astronomicamente il ventuno giugno è il giorno del solstizio estivo, il giorno più lungo dell’anno e il più luminoso perché le ore di luce superano quelle del buio.
Per tutti è il primo giorno d’estate, la stagione delle vacanze, delle passeggiate in montagna, dei tuffi in mare.
Ventuno giugno duemiladiciotto, il giorno più lungo della mia vita. Mi ritrovo in pieno inverno e fitte tenebre oscurano il mio universo.
Ho appena ritirato il referto della biopsia: ho il cancro! Così, semplicemente, nero su bianco. Così, brutalmente, come prendere un pugno in pieno viso
Attraverso la piazza assolata con i riflessi sull’asfalto della “fata Morgana” e ripenso alle parole dell‘oncologo: «Nella “sfiga” è stata “fortunata”, la neoplasia dovrebbe essere ancora nella fase iniziale».
Neoplasia? Termine anche troppo gentile per definire la “bestia” e poi quel “dovrebbe essere…” che ripeto come un’autoipnosi fino allo sfinimento. Con la “bestia” il condizionale è d’uopo.
Ho paura, inutile nasconderlo.
Pa-u-ra, pa-u-ra, pa-u-ra scandita dalle pulsazioni cardiache come in un coro da stadio, ma qui la partita che si sta giocando è quella della vita.
Paura che mi atrofizza le membra e annacqua i pensieri.
Paura che rasenta il terrore.
Paura che mi ruba il sonno e brutalizza la mente.
Mi guardo allo specchio e dico: -Sto bene, sono sempre la stessa, ho pure messo su qualche chilo di troppo, avranno sbagliato-.
Mi volto e mi rivolto e anche se intorno a me non c’è nessuno penso: “Ma no, il cancro lo ha quell’altra che mi somiglia, mica io!”.
Pia illusione. La sentenza è scritta chiaramente, sul referto medico: la bestia, infida e diabolica è lì, dentro al mio seno che si ciba di me.
In quel seno, simbolo di orgogliosa femminilità, che ha allattato due figlie, ormai donne, e che ora alimenta la macabra evocazione di angoscia, di terrore, di morte.
Ho paura perché sono umana e non immortale. So che c’è un alfa e un omega, che ogni ciclo ha un inizio e una fine e nessuno ne è escluso. Potrei protestare che è troppo presto, ma Madre Natura non ha istituito un ufficio reclami per gli esseri viventi.
Ho paura del dolore e della sofferenza che, se l’esito del programma a cui devo sottopormi non darà i risultati sperati, causerò ai miei famigliari e a chi mi vuole bene.
Ho paura di non essere all’altezza della situazione e di lasciarmi andare.
Ho paura di non essere forte abbastanza per rimandare la bestia negli inferi dai quali è uscita.
E’ una lotta impari.
Essa è subdola, vigliacca, arrogante. Non ha il coraggio di guardarti in viso e sfidarti apertamente. Si nasconde e, spesso, quando si palesa è troppo tardi per prendere le armi e insorgere contro di lei. Ed è stupida perché non capisce che distruggendo il mio corpo morirà anch’essa.
Ho paura. Una paura fluida che mi fa sudare freddo e tremare le ginocchia.
Ho paura e sono arrabbiata. Molto arrabbiata con il mio corpo. L’ho amato, nutrito, viziato, vezzeggiato e curato per tanti anni e così mi dimostra la sua riconoscenza!
Farnetico? Forse… ma la paura di ciò che dovrò affrontare è tanta. Ma sono una tosta… almeno così dice chi mi conosce, e ora dovrò dimostrarlo a me stessa e ai miei cari.
Il medico congedandomi ha detto: «Se lei saprà essere forte vincerà. Se cede la darà vinta alla bestia».
-Io non mollerò e spero che le sue parole siano profetiche- ho replicato.
Però ho paura.
Ma proprio la paura, in questa notte senza stelle, sarà il mio vessillo di guerra issato in attesa dell’alba.
E mentre mi abbraccio per coccolarmi e sciogliere il gelo innaturale che è sceso nelle ossa nonostante la giornata estiva, mi dico che ho ancora molti libri da scrivere, racconti da ultimare, affetti da curare e quindi con l’umana, atavica, paura nelle membra e la speranza nel cuore sarò sul fronte, barricata in trincea e, di sicuro, non cederò per prima le armi.