Renato Fucini[1] (Neri Tanfucio) nasce a Monterotondo nella maremma grossetana l'8 aprile del 1843 dal dott. David Fucini e Giovanna Nardi, dove il padre appena laureato alla Università di Pisa aveva ottenuto l'incarico di medico della Commissione sanitaria governativa per la cura delle febbri malariche. Da Monterotondo la famiglia si trasferì presto a Campiglia. Durante gli anni passati in maremma il piccolo Renato ebbe modo di iniziare già all'età di quattro anni la prima istruzione elementare, "leggere scrivere e far di conto", ma anche di vivere in stretta relazione con la natura e il mondo contadino, instaurando quel rapporto con la campagna che è fonte di ispirazione della sua produzione letteraria. Il padre era un patriota convinto, e per questo motivo dopo i fatti del 1848 venne destituito con Decreto Granducale; costretto a fuggire da Campiglia decise di trasferirsi a Livorno dove sperava di trovare una situazione più favorevole visto che era la città delle sue origini. Anche Livorno dopo una strenua resistenza aveva dovuto cedere agli austriaci; qualche giorno prima della partenza della famiglia Fucini, era stata presa d'assalto da un esercito di 30.000 uomini. La notizia si era sparsa tra i liberali di Campiglia, che radunati sul monte Calvo avevano ascoltato le cannonate "che arrivavano lungo la marina", raccomandandosi a Dio per la sua salvezza, restando poi tristi e rassegnati quando col silenzio che ne era seguito avevano capito che la città era stata conquistata. Il 10 maggio del 1849 verso le 11 gli Austriaci avevano infatti rotto le mura presso porta S. Marco ed erano entrati occupando le fortezze, le caserme, uccidendo chi trovavano e saccheggiando case. Come stabilito, nel settembre 1849 la famiglia Fucini partì da Campiglia, per Livorno con "uno sgangherato trabiccolo a quattro ruote seguito da un barroccio carico di masserie", rimanendovi fino al 1853. Il padre era nato a Dianella ma i suoi antenati e la moglie Giovanna Nardi erano livornesi, e dal sangue livornese discende, come lui stesso dice, quel suo temperamento appassionato, la propensione a partecipare con animo commosso alle vicende umane. Il bisnonno Giuseppe Fucini da giovane era stato addetto al banco Filicchi e grazie all'impegno e alle sue capacità con i risparmi fatti aveva poi aperto una attività di commercio delle granaglie, a quel tempo fiorentissimo, lasciando alla sua morte in eredità ai figli le proprietà che aveva in Toscana: la sua tenuta del Gabbro, tra Fauglia e Rosignano Marittimo al figlio maggiore Canonico Antonio, quella de La Motta nel Comune di Cerreto Guidi a Giovanni e la piccola Dianella, nel Comune di Vinci, al nonno dello scrittore, Santi. Arrivati a Livorno, il padre medico esercitò liberamente la medicina con "pochi e poveri clienti", e la famiglia Fucini dovette adattarsi a vivere in condizioni di ristrettezza economica. L'istruzione del piccolo Renato venne affidata a maestri privati che a quanto riferisce erano assai lontani da ogni sensibilità, esercitando nella loro professione una pedagogia autoritaria e metodi punitivi che oggi susciterebbero indignazione. Il giovane Fucini era fatto oggetto di urlacci e percosse a cui però non aveva alcuna intenzione di sottomettersi. Ricorda del maestro Giuseppe Taddeini che faceva scuola in casa propria in un palazzo del Borgo Reale, proprio qualche piano sotto l'abitazione dei Fucini, che usava affermare la sua autorità con una bacchetta di leccio con la quale batteva le sue piccole mani. Accadde una volta che il dolore non fu più sopportabile e il giovane Renato si dette alla fuga fra pianti e grida mentre il maestro lo rincorreva. A niente valsero le giustificazioni che Taddeini portò al padre, il ragazzo venne tolto dalla sua custodia e mandato alla Scuola dei Barnabiti di S. Sebastiano dove rimase per tutto il periodo di permanenza a Livorno, e sotto la guida di padre Mauro poté prendere amore per lo studio e la lettura. Di fronte alla abitazione dei Fucini si trovava la farmacia Pediani luogo di incontro di liberali, frequentata anche dal padre di Renato che spesso lo portava con sé. Tra gli altri lo scrittore ricorda il pittore Giuseppe Baldini (fu maestro di Fattori), che una volta, vedendolo scarabocchiare, intuì il suo talento in erba e si offrì di educarlo all'arte del disegno. Il pittore, figura eccentrica, usava abbigliarsi con grande cappello, lunghi capelli inanellati e fluente barba, alla maniera dei rivoluzionari. Nella bella stagione era solito accompagnare il gruppo dei suoi discepoli al mare con l'intento di insegnare il disegno dal vero, nella zona tra il Marzocco e il Calambrone, dove il piccolo Fucini insieme ai compagni potevano godersi, tra una prova e l'altra, lunghi bagni di mare e "voltoloni" tra la rena. Talvolta invece portava i ragazzi a pescare crognoli nei fossi, con grande divertimento, ma quando gli austriaci passavano in perlustrazione con la barca occhiando con sospetto il Baldini, conosciuto per essere oppositore al governo austriaco e certo riconoscibile dall'aspetto, il piccolo gruppo si zittiva improvvisamente aspettando cautamente che la barca e i soldati sparissero dalla vista. Di Livorno sono i lieti ricordi delle passeggiate con la madre e il dolce sapore dei biscottini all'anice, l'orzata fuori di Porta a Mare e una manciatina di arselline mangiate strada facendo, il teatro, alla vecchia Arena Labronica, dove con quattro crazie a testa (28 centesimi) si potevano sentire le celebrità più in vista di canto e prosa, le più belle opere, i drammi e le tragedie più spettacolari. Ma vivi sono anche i ricordi e le storie delle atrocità, le "vigliacche carneficine", le soverchierie degli austriaci. Come quando alla farmacia Pediani sentì raccontare delle disavventure occorse a un giovane popolano. Sembra che questo ragazzo passeggiasse davanti alla caserma della Gran Guardia, e una sentinella vedendo che all'occhiello della giacchetta aveva un mazzolino di fiori dei tre colori della bandiera, gli si avventò contro strappandoglieli, sputandogli in faccia, spingendolo lontano a forza di pedate e di colpi col calcio del fucile. Il giovane riuscì a stento a trascinarsi barcollando fino a un vicino caffè dove erano riuniti alcuni suoi amici, che lo raccolsero. Uno di questi, per reazione alle offese procurate all'amico, andò veloce nel giardinetto dietro al caffè, colse un fiore bianco e uno rosso, li unì con una foglia verde, se ne adornò il petto e uscì passando fiero davanti al soldato di sentinella che tentò di toglierli, senza successo perché non ne ebbe il tempo, cadde in terra ferito a morte da una pugnalata. I soldati della caserma sbucarono allora tutti fuori e lo accerchiarono, catturandolo. Quel giovane venne fucilato la mattina dopo sugli spalti del forte di Porta Murata. Era allora Governatore di Livorno quella triste figura del Conte Folliot De Crenneville che si rese colpevole di innumerevoli angherie verso la popolazione livornese; oltre le fucilazioni con lui furono introdotte per un minimo sospetto punizioni corporali e bastonate cui le vittime venivano sottoposte nelle prigioni della Fortezza Vecchia. A Livorno non passava giorno che "a Porta Murata, residenza degli aguzzini della schlague[2], non si udissero le dilanianti strida dei miseri tormentati, le risa crudeli degli abietti tormentatori".[3]Gli affari economici della famiglia Fucini continuarono ad andar male, gli scarsi guadagni del padre erano del tutto insufficienti al suo mantenimento, venne così presa la decisione di partire da Livorno per ritirarsi a Dianella, presso i nonni, dove la vita di campagna avrebbe permesso di avere minori spese, con la speranza poi che il padre potesse farsi là un po' di clientela. Renato aveva dieci anni circa e partì con la speranza e l'entusiasmo di trovare una condizione migliore. Portava con sé quel temperamento appassionato in parte ereditato in parte formatosi in quelle prime esperienze dell'infanzia, che insieme all'arguto spirito di osservazione lo renderà capace di tracciare immagini di una toscanità popolana e gaia, rurale e colorata, seppure velata talvolta dalla sua malinconia, in brani che hanno i caratteri della spontaneità, della immediatezza e dove il linguaggio con forme in vernacolo conferisce un particolare fascino evocativo. Le sue pagine nascono senza indugiare sulla forma, bozzetti di paesaggi toscani come i dipinti dei macchiaioli con i quali egli ebbe stretta Paola Ceccotti
Un sonetto Povero 'Osino!
-Ti fa freddo, amol mio? - Sì, mamma, tanto.
-Neri, hai sentito? – Povero 'osino...
-'Gnamo, 'un è tempo di buttarsi ar pianto,
qui bisogna pensare a 'n vestitino.
-Maria ... son troppo onesto ... e me ne vanto.
Come faresti te, senz'un quaino?...
Félmo, pipi, 'un ti move', sta 'n der canto ...
-Babbo, ho freddo ... - 'Un c'è legne, eh? Poverino!
-Che pena ave' 'na bella 'reaturina
E vedella trema' come 'na vetta,
senza pote' compra' 'na brusettina.
Neri, o perché ti levi la giacchetta?
-Nun sento punto 'r freddo stamattina ...
To', fanne quer che vòi, tanto m'è stretta.
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[1] Ricordi di Livorno, in R. Fucini "Foglie al vento", ed. La Voce, Firenze, 1922 , www.liberliber.it
[2] In https://fr.wiktionary.org: schlague /ʃlaɡ/ féminin, (Familier) Peine disciplinaire usitée autrefois dans les armées allemandes et autrichiennes et qui consistait en des coups de baguette que l'on donnait à l'homme puni.
[3] E. Montazio, Le stragi di Livorno, Ed. C. Barbini, Milano 1869, pag 102