Se si consulta un manuale di medicina o un sito specializzato, con termini clinici più appropriati, si troverà la seguente definizione: “il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore, una patologia psichiatrica complessa, spesso ereditaria e ad andamento cronico. Chi è affetto da bipolarismo manifesta inconsueti cambiamenti dell’umore, dell’energia fisica e del livello di attività quotidiana. Ad episodi di “mania” sottolineati da una sovraeccitazione umorale seguono fasi depressive. Il periodo “maniacale” può variare da una settimana ad un mese circa mentre quello depressivo ha una durata maggiore. L’intervallo tra una fase e l’altra può concedere al paziente un periodo di relativo benessere a meno che il passaggio non sia repentino”.
Invece ciò che su internet o sui testi scientifici non appare sono i “sintomi” non patologici, ma quelli che si provano umanamente da chi ne soffre.
E proprio a questa carenza ha cercato di sopperire Paola Gentili con il suo volume d’esordio: “Una vita da bipolare”. E’ un libro autobiografico in cui con spietatezza, l’autrice si mette a nudo e analizza con mente lucida, da quando ne ha memoria, gli anni della sua esistenza. Ne esce fuori il ritratto di Paola, una bambina incerta e bisognosa di affetto e attenzioni, di una madre priva di istinto materno e troppo presa dal lavoro per “mettere da parte i soldi”, di un padre eccessivamente accomodante e distratto. Di una famiglia, insomma, con dinamiche affettive errate che si ripercuotono in maniera psicologicamente negativa sui figli, marchiandoli per tutta la loro esistenza.
I primi “strani” episodi riportati dall’autrice riguardano la bulimia usata come modo per richiamare l’attenzione della genitrice distratta che, costringendola ad una inutile ferrea dieta, le avrebbe mostrato così il suo affetto.
“Da quando era tornata dall’ospedale” (dopo aver partorito la sorella) “continuavo a chiederle:
«Mamma ma tu mi vuoi bene?»
Pensavo sempre che se fossi stata magra tutto il mio malessere sarebbe scomparso e alla fine, dietro le mie insistenti pressioni, il medico di famiglia mi prescrisse delle pasticche per aiutarmi a contenere la fame.
All’epoca andavano di moda, se così si può dire, le anfetamine. Ora sono illegali nel nostro Paese, perché hanno molteplici effetti collaterali. Certo, riuscii a dimagrire ma il prezzo fu un grosso esaurimento nervoso. Il dottore, in seguito, disse che non erano stati i farmaci a causarmi il crollo, ma che avevano solo fatto emergere un disagio già esistente. Sarebbe bastato ascoltare quelle parole per capire che cosa mi stesse accadendo. I miei non erano così attenti o forse erano solo troppo impegnati a far soldi. Del resto, come potevano con la loro poca istruzione arrivare a capire i meccanismi di certe malattie? Tra l’altro anche i medici ci misero anni a capire che cosa avessi.”
Già da queste righe, pur se espressa con parole semplici ma molto efficaci, si evince la lotta psicologica e la sofferenza interiore che, negli anni dell’adolescenza, ha affrontato la giovane Paola.
E la narrazione prosegue con l’esporsi della Gentili, senza vergogna, ai lettori, raccontando ciò che prova un malato mentale che ancora ignora di esserlo, perché tale è chi soffre di bipolarismo.
Paola Gentili aveva compreso che nella sua vita, nel suo modo di porsi, c’era qualcosa che non quadrava, qualcosa che le impediva di essere serena, nonostante agli occhi di tutti sembrasse una giovane donna realizzata con un matrimonio felice e allietato dalla nascita di una bambina.
“Avevo solo ventidue anni e da quel momento, poco dopo il battesimo, cominciai a stare veramente male. Mi vennero crisi d’ansia e attacchi di panico. Questi ultimi, terribili, arrivavano improvvisamente con una sensazione di soffocamento, batticuore, brividi, dolore e assoluta paura di impazzire, quasi impossibile da spiegare. È sconvolgente avere a che fare con questo cataclisma interiore: all’inizio non capivo nemmeno cosa fosse, ma ricordo che ero terrorizzata all’idea di essere preda di quelle ondate di panico che duravano cinque o dieci interminabili minuti, mi distruggevano, e poi se ne andavano lasciando una sensazione di vuoto immenso dentro di me. Quando non avevo gli attacchi di panico, c’era l’ansia ad accompagnarmi per ore, senza mai un culmine ma sempre costante, a condizionarmi tutta la giornata.”
Questa figlia così amata sarà la sua ancora di salvezza. Proprio l’intimo legame tra madre e figlia resusciterà l’istinto di sopravvivenza dell’autrice permettendole di vincere la disperazione e allontanare la voglia di annullarsi fisicamente, di cercare il suicidio, uno dei sintomi tipici della malattia.
Fortunatamente il cammino irto di difficoltà in cui La Gentili si è barcamenata, tra gli alti e bassi della sua mente, non le ha mai fatto smettere di documentarsi per comprendere il perché e se esistesse un motivo dell’inquietudine che la divorava, del suo “Male di vivere”, di riflettere sulla sua condizione mentale. La sua tenace determinazione è stata ricompensata nel momento in cui ha ottenuto l’agognata diagnosi specialistica che le dava le chiavi di casa di quel mondo, da molti ignorato, costituito dalla bipolarità.
Ora, finalmente, era tutto chiarissimo e attestato scientificamente: le incertezze giovanili, la paura di non essere all’altezza delle aspettative della sua famiglia in generale e di sua madre in particolare, i momenti in cui il suo umore viaggiava a mille e quelli in cui era sotto lo zero, i periodi di iperattività nei quali intraprendeva o si inventava nuovi lavori e poi all’improvviso, senza motivo, piombava nella depressione più nera, il voler staccare la spina con il mondo, avevano una definizione ben precisa: malattia bipolare!
“Voglio che le persone che ne soffrono sappiano che con la terapia giusta si può arrivare a stare bene. E che i “sani” capiscano che avere una malattia mentale non significa essere matti: è come avere un polmone o il fegato che non funzionano bene, e allora si cura. Non si parla di guarigione, perché il disturbo bipolare non sparisce, ma con la terapia adeguata si controlla. L’esordio avviene quasi sempre nella tarda adolescenza o nella prima giovinezza, spesso in seguito a un evento scatenante come un lutto, un parto, la fine di una storia d’amore. A me è successo per una dieta sbagliata per esempio. Ed è proseguito perché avevo una famiglia che non capiva e un marito che ha continuato a maltrattarmi, quindi la mia malattia ha trovato terreno fertile per svilupparsi.”
Paola Gentili poteva nascondersi dietro uno pseudonimo, un alter ego che le permettesse di mantenere l’anonimato o ricorrere ad un’immaginaria protagonista, invece ha scelto di metterci la faccia e per questo credo che “Una vita da bipolare” meriti di essere definito come un volume di divulgazione scientifica a tutti gli effetti perché attraverso la sua lettura molti possano prendere coscienza che la malattia mentale esiste e anche se non si guarisce, con le terapie idonee può essere curata e permettere a chi ne soffre di avere una vita normale e dignitosa.