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Nessuno parla mai con una bibliotecaria.
di Jacopo Gattanella
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Nessuno parla mai con una bibliotecaria.

O magari a volte sì. Ma sempre di cose come l’influenza giansenista sulla morale manzoniana, oppure l’interpretazione da parte di Seneca sul tema del tempo e della filosofia stoica.

Nessuno parla mai di cose personali con una bibliotecaria. Entrano, prendono e se ne vanno. Quando va bene salutano, sempre con cortesia e distanza. Tu sei lì a custodire tutti quei libri, e basta. Sei più una sorta di robot-sorvegliante, un mastino da guardia che fa la predica quando qualcuno riporta un libro in ritardo, non una persona. Questo soprattutto quando si fa la bibliotecaria in un liceo, sempre distante sia dai professori che dagli studenti, sempre racchiusa fra quelle quattro mura, quegli scaffali e quelle librerie che non sembrano nemmeno far parte della scuola in sé. Come se fosse un edificio distaccato. Non sei nemmeno etichettabile come parte di un gruppo di persone, non sei fra gli studenti, non sei fra i professori, non sei fra i bidelli. Sei come una specie di animale esotico dietro una spessa teca di vetro. O un’eremita. E, quando vai al bar in un attimo di pausa, mai che ci fosse qualcuno che cerchi di socializzare con te. Io ormai ho pure smesso di andarci al bar. Preferisco evitare il rischio di illudermi.

A dirla tutta forse questo è soltanto uno sfogo inutile. Forse non dovrei prendermela con gli altri, né con il mio lavoro che mi piace e che non cambierei per nulla al mondo. Forse, in fondo, dovrei prendermela soltanto con me stessa. Magari le altre bibliotecarie hanno una vita sociale come tutti gli altri, sono io ad essere condannata. Probabilmente se facessi qualsiasi altro lavoro mi troverei nella stessa situazione. E’ vero, devo ammetterlo, non sono una persona interessante. Anzi sono molto noiosa. E’ probabile che se fossi qualcun altro –una persona cordiale e con cose piacevoli di cui parlare- neppure io mi frequenterei.

Del resto, sin da bambina, la mia compagnia principale sono stati i libri e le mirabolanti storie che contenevano. Le storie sono stati le mie uniche e vere amiche; loro sono sempre lì per me, sempre fedeli nel momento del bisogno, e, a lungo, ho pensato che fossero sufficienti. Pensavo di non aver bisogno di nient’altro, invece mi sbagliavo.

Forse è stata colpa del mio mondo fatto di principesse e principi, avventure di cappa e spada, che mi sono costruita attorno come un castello di carte. Era stupendo, ci sarei restata tutta la vita, ma è stato sufficiente un soffio, una porta sbattuta un po’ troppo forte, a raderlo al suolo, rivelandomi quanto in realtà fosse squallida e vuota l’ esistenza oltre quel velo.

E’ servito alla mia immaginazione, questo è vero. Stavo, e sto, sempre a fantasticare, sempre fra le nuvole. Perfino adesso immagino la vita di ogni persona che entra in biblioteca. Dove è cresciuto, se ha fratelli, se la madre è una fioraia con la passione per i poeti maledetti ed ha chiamato il negozio “les fleurs du mal”. Cose di questo tipo.

Non che faccia mai domande dirette alla gente, in fondo non mi interessa la verità. E’ più divertente così, e poi non mi sembrerebbe professionale.

Comunque la mia fantasia non è niente male, peccato sia inutile. Se almeno avessi una qualche dote letteraria, magari potrei sfruttarla, invece non è così. Ho letto moltissimi libri e lo faccio tutt’ora, ma purtroppo non sarei mai in grado di scriverne uno. Penso sia un peccato che tutte queste idee siano costrette a svanire senza poter essere raccolte in un foglio, ma penso anche di non essere l’unica con questa condanna e, ogni volta, il pensiero che la fantasia di moltissime persone appassisca come un fiore sterile mi rattrista un po’.

E’ probabile che se sono così è tutta colpa della mia fantasia, una sorta di barriera che mi separa dal resto dell’umanità, invisibile, ma insormontabile come la parete di una fortezza. Penso sia per questo che la mia vita non è stata un granché. Una sorta di monotona e lenta cacofonia, in cui gli strumenti suonano scordati fra loro, con ritmi discordi e, soprattutto, sempre uguali.

Tuttavia confesso, con un certo orgoglio, che, una volta, un evento eccitante è accaduto anche a me, a rompere la noia quotidiana. E anche quello per colpa di un libro. O meglio, un racconto.

Non che di solito legga quella roba, sia ben chiaro. E anche adesso non saprei dire con certezza perché lo feci. Tuttavia non mi pento. Non vedo proprio perché dovrei.

Il racconto era “Il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe, ora che ci penso credo che qualcuno avesse lasciato il volume sulla mia scrivania, per riconsegnarlo. Quei ragazzi sembrano leggere solo porcherie horror e, come se non bastasse, li riportano sempre in ritardo. Mai una volta che siano precisi. Segnai la data sul registro e presi a sfogliarlo. E’ una procedura che faccio sempre, più che altro per controllare che il libro non sia stato rovinato e che le pagine siano ancora tutte al loro posto. Di solito però non mi trattengo mai su di uno in particolare per leggere qualcosa. Tuttavia quel giorno non avevo niente da fare, i libri arrivati da poco erano stati tutti etichettati e messi al loro posto, e, per pura casualità, avevo finito un romanzo proprio la sera precedente, quindi, per passare il tempo, avrei dovuto cominciare una nuova lettura, ma non ne avevo molta voglia. Sfogliando il libro di Poe mi accorsi che era una raccolta di racconti, ne presi uno non troppo lungo e cominciai a leggere.

Man mano che scorrevo le righe mi sentivo sempre di più trascinata in un vortice oscuro di follia e terrore, ma non è mai stata mia abitudine interrompere una lettura prima della parola conclusiva, così andai avanti. Era la storia di un uomo, un assassino che, ossessionato dall’occhio inquietante di un vecchio, lo uccise e fece a pezzi il cadavere per non essere scoperto. Ma, proprio quando era sul punto di essere scagionato, cominciò a sentire il suono martellante e ritmico del cuore morto seppellito sotto le tavole del pavimento. Batteva talmente forte nei suoi timpani da essere insopportabile e l’assassino non potè far altro che confessare il proprio crimine.

Scossa dai brividi chiusi il libro, promettendo a me stessa di non leggere mai più un racconto tanto spaventoso. Che stupido che era stato a prendersi la colpa per quell’omicidio perfetto, pensavo intanto, malgrado la paura che sentivo in petto, nessuno l’avrebbe mai scoperto.

Cercai di allontanare quella storia macabra dalla mia mente, ma, per le ore successive, non riuscii a pensare ad altro. Quella notte stessa, restai distesa sul letto, incapace di prendere sonno, con la certezza che qualcuno, proprio dietro la porta, mi stesse osservando. Aspettava che prendessi sonno per balzarmi addosso e pugnalarmi al petto, uccidermi, mentre soffocavo in una pozza di sangue, del mio stesso sangue.

Neppure le notti successive riuscii a dormire bene, sonnecchiavo qualche ora per la troppa stanchezza, non perché la paura fosse diminuita e, ogni volta che chiudevo gli occhi, terribili e vorticosi incubi infestavano il mio sonno inquieto e poco riposante. Non mi sono mai considerata bella, ma il mio aspetto era degenerato. Quelli sulla mia testa sembravano fili intrecciati malamente fra loro, più che capelli. Delle larghe occhiaie scure pendevano sotto i miei occhi spenti. Ero pallida, perfino più del solito, e la mia mente era opaca, incapace di ragionare. Mi sentivo costantemente sul punto di addormentarmi, ma, ogni volta che lo facevo, mi svegliavo più stanca di prima. Non poteva continuare così. Fino a quando il mio corpo avrebbe retto?

Per fortuna non conobbi mai la risposta a quella domanda e in un qualche modo, la soluzione del mio problema emerse da sola. All’improvviso si trovò lì, proprio di fronte ai miei occhi.

La cosa strana era che avevo già letto moltissime storie piene di omicidi brutali. Del resto, basta pensare ad una manciata di libri per comprendere quanto sia alto il tasso di mortalità nei romanzi, indipendentemente dal genere di appartenenza. Però, mai la storia di un omicidio mi aveva tormentato a tal punto. Ne ero ossessionata come l’assassino del racconto era ossessionato dall’occhio maligno del vecchio. In quel momento, compresi che non era la storia in sé ad ossessionarmi, ma il vero e proprio assassinio, l’atto di uccidere. E compresi che, come il protagonista del racconto si era liberato della propria paranoia, anch’io potevo fare altrettanto e la metodologia non sarebbe stata molto diversa.

Inoltre avevo un vantaggio rispetto all’assassino immaginario partorito dalla mente di Poe, infatti se la sua ossessione era ben precisa e determinata –l’occhio del vecchio-, la mia era molto più vaga. Sentivo solo un estremo bisogno di liberarmene e capivo che l’unico modo per farlo sarebbe stato uccidere qualcuno. Non ci sarebbe stato altro modo, quella era l’unica via di fuga per la mia salvezza, e non c’erano scorciatoie.

So che cosa si potrebbe pensare, ma per chiunque metta in dubbio la mia sanità mentale, dimostrerò che io non sono affatto pazza, né lo ero allora. Come potrei aver concepito un piano così perfetto se lo fossi stata? La mia razionalità ha svolto il compito in modo impeccabile.

Dallo stesso momento in cui mi misi all’opera per progettare il piano nei minimi dettagli, guarii dalla mia ossessione: ora che avevo un compito ben preciso da svolgere mi sentivo meglio. Una nuova libertà, ed una eccitazione vera, come mai ne avevo provato nella mia vita, mi possedeva, animava con nuova vitalità il mio respiro, nonostante quello fosse soltanto l’inizio. Tuttavia sapevo anche che quella libertà, era allo stesso tempo, una sorta di gabbia dalla quale non sarei potuta uscire prima della fine. Ora ero costretta ad andare fino in fondo e, ora che avevo superato quell’ossessione terrificante, non avrei mai avuto il coraggio di tornare indietro ed immergermi di nuovo nella paranoia mortale che mi aveva tormentato per intere settimane. Compresi che, dopo tanto tempo, avrei potuto dormire sonni tranquilli. E così fu: quella notte mi addormentai senza problemi e riposai serenamente. Non avvertivo più il peso opprimente di nessuno sguardo assassino.

Nei giorni successivi dedicai i miei sforzi alla progettazione del piano e, più mi occupavo dei dettagli, più mi accorgevo di quante variabili ci fossero e più mi rendevo conto di quanto fosse complesso quel compito. In ogni caso però, sbrigai il tutto in poco tempo, presa com’ero dal mio scopo, lavorai in modo frenetico, mi scervellai per prendere in considerazione tutto, ogni cosa che poteva andare storta, e, per fortuna, il fatto che non fossi una novellina lì a scuola mi rese le cose più facili. Già, mi venne spontanea l’idea di farlo lì al liceo. Pensandoci successivamente, mi accorsi che non doveva sembrare la cosa più sensata da farsi, con tutta la gente che c’è in quel posto. Eppure, sul momento, non presi neppure in considerazione un’alternativa. Doveva essere così e basta. Del resto, lì era cominciato e sentivo che lì sarebbe dovuto finire.

Una volta completato il piano, non senza una certa soddisfazione personale, cominciò la parte più snervante: aspettare il momento propizio.

Non potevo prendere il primo che capitava, ci avevo pensato, e se, ad esempio, avessi aggredito un ragazzo che veniva abitualmente in biblioteca avrebbero subito sospettato di me, sarei stata in cima alla lista degli indagati, e questo non doveva succedere. Avrei potuto considerare anche di aggredire un professore o una ragazza, invece no, avevo stabilito che la vittima sarebbe stato un ragazzo, possibilmente uno piuttosto grosso, in modo che non mi avrebbero mai preso in considerazione, io, una fragile bibliotecaria alta poco più di un metro e cinquanta, non sarei mai stata capace di una cosa del genere. E proprio in questo si sarebbero sbagliati. Avevo un’idea precisa di come doveva essere la mia vittima, ed ero disposta ad aspettare anche degli anni interi se ce ne fosse stato bisogno.

Così cominciai ad attendere. Avevo già predisposto tutto il necessario per l’eventualità tanto desiderata e, ad ogni persona che entrava nella biblioteca, avvertivo un brivido distinto lungo la schiena. Ogni momento poteva essere quello giusto, eppure non lo era mai. I giorni di attesa diventarono settimane e le settimane si trascinarono, l’una dietro l’altra, per mesi, fino all’arrivo delle vacanze estive: non avrei avuto altre occasioni per circa tre mesi, maledissi il sistema scolastico italiano, ma non mi persi d’animo. Se quella era una prova alla mia perseveranza, con la pazienza l’avrei superata. Passai ogni afoso giorno di quella dannata estate a ripassare il piano, lo tenevo sempre a mente. Durante il giorno ripensavo ai dettagli, anche quelli più marginali, e di notte fantasticavo sul momento culminante, un apice sanguinolento di ebbrezza primitiva. Gioivo a quel pensiero. Non come ci si rallegra per una cosa piacevole, la sensazione era del tutto diversa. Sentivo una gioia oscura e primordiale proveniente dai più remoti e oscuri angoli della mia essenza, una gioia che mi illuminava di una nera luce interiore, che mi tramortiva la mente tanto da sconfinare nel più intenso piacere dei sensi.

Quando tornai a scuola, sfoderavo un sorriso raggiante. Se qualcuno mi avesse chiesto come avevo passato l’estate, avrei risposto: “Splendidamente, la migliore estate della mia vita.” Non che qualcuno si sognasse di chiedermi una cosa del genere, ma ormai non mi importava più. Ero sempre più vicina all’obbiettivo, dovevo concentrarmi solo su quello. Nient’altro aveva importanza e mai la mia mente era stata così lucida.

I giorni passarono, Settembre se ne andò e, poco dopo, anche Ottobre. L’eccitazione che mi pulsava nelle vene era sempre più forte, mi sentivo come una pentola a pressione sul punto di scoppiare, ma qualcosa mi diceva che non avrei dovuto aspettare ancora molto, sentivo il momento sempre più vicino.

Già c’era stato un falso allarme, per così dire. Un ragazzo, a occhio doveva fare il quarto o il quinto anno, era entrato ed io faticai a contenermi. Era uno di quelli che se ne vanno in giro con magliette di gruppi satanici e robe del genere, mai visto prima lì dentro. La campanella dell’ultima ora era suonata da pochi istanti, nessuno avrebbe registrato la sua scomparsa, almeno per un po’. Sembrava perfetto, invece non lo era: proprio lui mi disse, con una voce da sbruffone, che era lì per riconsegnare un libro preso in prestito da un suo amico, una raccolta di racconti di Lovecraft, un altro scrittore dal quale mi ero sempre tenuta alla larga. Al sentire quelle parole, i miei polsi si serrarono, mossi dalla rabbia. Non potevo fargli niente, se l’avessi ucciso sarei stata fra i primi sospettati: quel suo amico doveva sapere che quel giorno, a quell’ora, più o meno, si sarebbe trovato lì dov’era, anzi, probabilmente ce l’aveva mandato lui. Segnai la restituzione del libro sul registro, facendo finta di niente. Pochi secondi dopo se n’era già andato, una ghiotta occasione sfumata. Tuttavia non bastò così poco a farmi perdere d’animo, come dicevo, sentivo che il momento si stava avvicinando ed infatti non mi sbagliavo.

Accadde di pomeriggio.

Spesso, dopo la fine delle lezioni, si tenevano dei corsi pomeridiani di vario genere, dallo Spagnolo all’HTML per principianti. E, nonostante i pochi studenti che si trattenevano anche il pomeriggio, la scuola era quasi completamente vuota, soprattutto l’ala dove mi trovavo io. Non ricordo con esattezza perché fossi rimasta lì: di solito la biblioteca è chiusa a quell’ora, ma probabilmente avevo ancora da catalogare e ordinare diversi nuovi arrivi. All’improvviso la porta si aprì ed io, china sulla mia scrivania, trasalii. Un ragazzo dall’aria spaesata entrò guardandosi intorno, probabilmente anche lui si aspettava di non trovare nessuno. L’avevo visto in giro per la scuola, ma lì, dentro le mie quattro mura, mai. Sembrava abbastanza grande, forse faceva l’ultimo anno. Ero uno di quelli che se ne vanno in giro con magliette rosa attillate e quei pantaloni a vita bassa che lasciano scoperte le mutande –rosa anche quelle-.

Era la vittima che attendevo da tanto tempo.

Lo incoraggiai a venire avanti e lui accennò un sorriso, in mezzo a quella faccia dall’abbronzatura artificiale che sembrava andare di moda negli ultimi tempi. Mi disse che voleva affittare –proprio così, affittare- un libro e io non persi nemmeno il tempo di spiegargli che la biblioteca era aperta solo di mattina e che in biblioteca i libri si prendono in prestito, non si affittano. Gli risposi con un sorriso che non dovetti nemmeno sforzarmi di simulare, uscì spontaneo. Credo sia stato uno dei sorrisi più sinceri della mia vita. Gli dissi che prima doveva mettere una firma il registro: se non pensava di affittare un libro non doveva sapere niente di come funzionano le cose in biblioteca. E infatti subito si fece avanti, compiaciuto di potermi lasciare un autografo, ma, proprio nel momento in cui si piegava per posare la penna sul foglio, io colpii. Mi ero procurata un coltellaccio da macellaio, l’avevo acquistato in uno di quelle catene di supermercati fai-da-te ed era lungo quasi come metà del mio braccio oltre che affilatissimo. Lo estrassi da sotto la scrivania in un battere di ciglia e lo calai rapido sul collo abbronzato del ragazzo, con tutta la forza che avevo. Il colpo tranciò la giugulare di netto.

Il sangue cominciò a schizzare tutt’intorno come un idrante, mentre il ragazzo emetteva un sibilo soffocato nel tentativo di gridare. il coltello doveva aver spezzato le corde vocali, come speravo, oppure semplicemente qualche meccanismo interno si era paralizzato e lui ora era costretto ad ansimare senza fiato, come un pesce agonizzante fra la sabbia. Colpii di nuovo, questa volta al volto e con più forza di prima. Il suo viso sembrò aprirsi come una scatoletta di tonno e i suoi lineamenti furono ridotti ad un ammasso pulsante di carne. Ero presa da un’euforia mai provata prima, l’estate prima avevo passato molto tempo a fantasticare su quell’evento e, ora che lo stavo vivendo, era meglio di quanto avessi sognato. Una sensazione di estasi paradisiaca mi avvolgeva la mente e quella violenza dal fascino primordiale e l’adrenalina che mi scuoteva tutto il corpo e poi il sangue, tutto quel sangue dappertutto, non avrei mai pensato che un corpo umano ne potesse contenere talmente tanto. Da quel momento in poi contai trentaquattro pugnalate. Intorno alla dodicesima il suo volto non era più identificabile come tale, non saprei come descriverlo. Già alla trentesima tutto quel corpo era solo un ammasso di carne identificabile come umana solo per i brandelli di vestiti ancora incollati sulla pelle. Era morto da un pezzo ma continui a picchiare con tutta la furia selvaggia del momento fino a quando non mi sentii troppo stanca, solo allora mi fermai, con il fiato corto, il braccio che mi doleva per il troppo sforzo e il cuore che mi batteva all’impazzata. Restai immobile ad osservare lo spettacolo che mi si parava davanti agli occhi.

Il cadavere inerme era riverso al suolo. Il sangue scarlatto era dappertutto, c’erano grosse chiazze sul pavimento, sulla scrivania e io stessa ero ne ero completamente imbrattata. Ero lorda di quella linfa rossastra sulle braccia, fino ai gomiti, sui vestiti e perfino sui capelli. Quel tipo era grande e grosso, almeno tre spanne più di me, ma non gli avevo lasciato modo di reagire, non si era nemmeno dimenato molto.

Osservando quella scena, non riuscii a trattenere una sonora risata, una risata di gusto, di puro divertimento. Quando la risata cessò, chiusi la porta d’ingresso a chiave. Poi mi avvicinai alla scrivania e riposi il coltello che mi aveva servito tanto bene. I documenti sopra il tavolo erano da buttare, ma per fortuna ero stata abbastanza accorta da fargli firmare un pezzo di carta insignificante e non il vero registro dei libri, altrimenti sarebbe stato inutilizzabile, e quel fatto poteva essere notato da qualcuno con un buon spirito d’osservazione.

Ero solita tenere una bottiglietta d’acqua con me, ma, preparata per l’eventualità, di recente ne tenevo tre, da due litri. Un paio e metà dell’ultima furono sufficienti per ripulirmi. Mi lavai le mani lì, semplicemente riversando l’acqua sul pavimento. Avevo portato con me un altro abito di ricambio –avevo infatti previsto che mi sarei potuta sporcare i vestiti, anche se non pensavo così tanto-, mi sfilai di dosso l’abito sporco e indossai quello pulito, impeccabile. Per i capelli non potevo farci niente, mi limitai a raccoglierli in una coda e a coprirli con una cuffietta di lana. Specchiandomi sul riflesso del vetro che racchiudeva uno scaffale, notai, con una certa soddisfazione, che era tutto in ordine nel mio aspetto. Le mie guance erano ancora rosso fuoco, ma presto sarebbero tornate normali.

Venti minuti dopo ero già tornata a casa, chiudendo a chiave la porta della biblioteca con dietro, ancora intatta, la macabra scena che mi si era parata davanti agli occhi.

Quella stessa notte, all’una e mezza, uscii e tornai lì alla scuola. Il fatto che la biblioteca fosse considerata quasi un edificio distaccato, quella volta, giocò a mio favore. La mia stanza, per quanto piccola che fosse, aveva una porta che dava sul cortile e io avevo la chiave per aprirla. Il cancello che circondava tutta la struttura era molto basso in un angolo e, con l’aiuto di alcuni appoggi, riuscii a passare dall’altra parte senza difficoltà, nonostante portassi con me uno zaino con l’occorrente per pulire. Un paio di anni fa, hanno installato delle telecamere lì intorno, dopo che dei teppistelli sfasciarono un vetro, ma, a quel tempo, non c’era niente. Scivolai nel cortile con circospezione, fino ad arrivare alla porta esterna della biblioteca. Tirai fuori la chiave dalla tasca e la infilai nella serratura. Lo scatto secco che fece la porta aprendosi sembrò riecheggiare nella notte intorno a me, e mi ricordò il suono di un osso che si rompeva. Non so da quanto quella porta non venisse aperta, ma ad una leggera spinta si spalancò silenziosa verso l’interno. Dentro tutto era come lo avevo lasciato, anche se, in quella fitta oscurità tutto sembrava perfino più inquietante e un dolciastro sapore di morte avvolgeva l’ambiente. Serrai la porta alle mie spalle e accesi la luce, tutte le serrande erano abbassate e, le tende, dietro di loro, tirate: nessuno si sarebbe accorto di quel bagliore.

Per prima cosa feci a pezzi il corpo, o quello che ne rimaneva. Per l’esattezza ne feci sei pezzi e li raccolsi in uno di quei sacchi neri, dove si raccoglie la spazzatura. Poi cominciai a pulire tutto il sangue sparso in giro, gli stracci li misi in un altro sacco, così come tutti gli oggetti macchiati di sangue che non riuscivo a pulire.

Finito il lavoro cominciai la parte più audace del piano. Nel racconto di Poe, che tanto mi aveva ossessionata, in un eccesso di arroganza, il protagonista seppellì il corpo proprio sotto le assi del pavimento, in quella stessa stanza dove la polizia venne ad interrogarlo ed io non feci qualcosa di tanto diverso. Prima delle cinque di mattina avevo già fatto sei buche in sei diversi punti del giardino, le avevo riempite con i pezzi del cadavere e le avevo richiuse. Fu una mossa superba e inutilmente avventata, devo ammetterlo: in quella scarsa luce non potevo vedere bene il lavoro che avevo fatto. Magari non avevo richiuso bene un buca e, il giorno dopo, qualcuno avrebbe potuto notarla. Certo, non era sicuro che sarebbero riusciti a risalire a me, ma comunque avrei attirato troppa attenzione sulla scuola. In ogni caso era così che andava fatto –lo sentivo- e così lo feci. Verso le cinque e mezza ero di nuovo a casa, bruciai nel fuoco l’altro sacco nero, quello riempito principalmente con stracci insanguinati, feci una doccia, mi preparai una lauta colazione e, venti minuti prima delle otto, uscii di casa, diretta verso la scuola, come tutte le mattine. Arrivai un po’ prima del solito, aprii le finestre della biblioteca per far arieggiare la stanza e coprii parte della puzza con un deodorante che usavo per la casa. Poi aspettai.

Ci fu un’inchiesta ovviamente. Vennero diversi poliziotti lì a scuola e fecero delle domande un po’ a tutti. Ne fecero un paio pure a me, per la semplice colpa di trovarmi lì il pomeriggio che il ragazzo era scomparso, ma io dissi di non averlo visto e anzi, che nella mia biblioteca lui non c’era mai entrato.

Sono passati ormai cinque anni da quella notte, il caso rimase un mistero e il corpo non venne mai ritrovato. E, per quello che mi riguarda, mi sento completamente libera e soddisfatta. Se volete saperlo, nessun incubo infesta il mio sonno, nessun senso di colpa turba la mia coscienza. Riposo tranquilla ogni notte e, a volte, solo a volte, sento l’impulso di colpire il collo di qualche ragazzo che si piega sulla mia scrivania per firmare il registro. La mia mano destra scatta alla ricerca di un coltello da macellaio che non c’è. Ovviamente, di tanto in tanto, sento l’impulso di uccidere di nuovo, ma non cederò mai a quella tentazione: la maggior parte dei killer viene scoperta per aver ucciso più volte, se si fossero fermati al primo omicidio l’avrebbero fatta franca. Io non sono una sciocca né una psicopatica, non ucciderò mai più e celerò il mio segreto per sempre.

Del resto chi volete che lo scopra?

Nessuno parla mai con una bibliotecaria.

© Jacopo Gattanella





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