Il presente saggio intende indagare le storture e le immense qualità della personalità di uno dei poeti italiani del Novecento che più di ogni altro segnò un’epoca: Dino Campana.
Dino Campana fu l’unico ed inimitabile rappresentante, seppur con qualche anno di ritardo, del maledettismo poetico francese, per intenderci quello di Rimbaud e Baudelaire, in Italia. A partire dagli inizi del 1937, Campana è stato e lo è ancora più di prima, il poeta unico e straordinario, esempio inimitabile di pathos poetico mescolato ed inebriato di pazzia.
Campana nacque a Marradi, un borgo della Romagna fiorentina, il 20 agosto del 1885, figlio di Giovanni Campana, insegnante di scuola elementare, poi direttore didattico, e di Francesca Luti, detta "Fanny'", una donna severa e compulsiva, affetta da mania deambulatoria e fervente credente cattolica[1]. Trascorse l'infanzia in modo apparentemente sereno nel paese natìo, ma intorno all'età dei quindici anni gli vennero diagnosticati i primi disturbi nervosi, che - nonostante tutto - non gli avrebbero impedito comunque di frequentare i vari cicli di scuola[2]. Frequentò le scuole elementari presso Marradi, poi la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza e infine gli studi liceali dapprima presso il Liceo Torricelli della stessa città, e in seguito a Carmagnola. Rientrato nel paese natio le crisi nervose e gli sbalzi di umore andarono sempre aumentando. Decise allora di allontanarsi da casa e nell'autunno del 1903, si iscrisse, presso l'Università di Bologna, al corso di laurea in Chimica pura, e nel gennaio dell'anno successivo entrò a far parte della scuola per gli ufficiali di complemento di Bologna. Non riuscì però a superare l’esame e nel 1905 passò alla Facoltà di Chimica farmaceutica presso l'Università di Firenze, ma dopo pochi mesi Campana decise di trasferirsi nuovamente a Bologna[3]. L’instabilità psichica in Dino si iniziò a far sentire sempre con più forza, in lui vi era un desiderio infermabile di evasione, che però fu subito additato come pazzia. Iniziò così ad essere internato. La prima volta avvenne presso il manicomio di Imola, nel settembre del 1905, dal quale tentò una fuga già tra il maggio e il luglio del 1906, per raggiungere la Svizzera e da lì la Francia. Arrestato a Bardonecchia e di nuovo ricoverato presso l'istituto di Imola, ne uscì nel 1907 per l'interessamento della famiglia a cui era stato affidato. Campana dovette combattere con il suo “male oscuro” per tutta la vita.
Il “caso poetico” Campana iniziò a circolare all’interno della rivista Letteratura come vita, ma venne consacrato da Carlo Bo, nel suo Dell’infrenabile notte[4]. Campana risulta da un lato un affascinante poeta dedito alla sua causa e dall’altro un poeta sottomesso a un mistero indicibile e inesplorabile, come un mistico posseduto. Il compito di Campana è quello di costituire un diaframma tra la poesia ottocentesca e Ungaretti, in modo che quest’ultimo potesse ripartire da zero. Ovviamente la spaccatura tra la poesia ottocentesca italiana e Campana fu netta, questo anche grazie all’influsso che i maledettisti francesi ebbero su di lui. La poetica di Campana fu tanto rilevante da costituire, come sottolineato anche da Bo, un prima e un dopo[5].
Dai Notturni
La Chimera
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Fin da una primissima lettura si evince come la poesia di Campana sia sempre una poesia di evasione, che volge lo spazio all’orizzonte, ma allo stesso tempo è tormentata, vive un continuo dissidio interiore, il male e le “chimere” sono continuamente in agguato.
Da Varie e frammenti
Barche amorrate
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l'onda che ammorza
Ne l'onda volubile smorza...
Ne l'ultimo schianto crudele...
Le vele le vele le vele
Di nuovo il tema della fuga, dell’andare oltre, del fuggire a “vele spiegate” da quel “male oscuro” che da sempre e sempre lo affligge.
Dino Campana inizialmente non fu compreso, ma già a partire dagli anni settanta del Novecento, grazie al lavoro di Bo, si iniziò a comprendere la sua reale portata rivoluzionaria.
Note
[1] D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, introduzione e note di Neuro Bonifazi, Milano, Garzanti, 2009, p. 8.
[2] F. Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo (1911-1914). Autografi e documenti, confessioni e memorie, Firenze, Marzocco, 1942; consiglio la lettura anche di C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana, Guanda, Milano, 1978.
[3] F. Ravagli, Dino Campana, cit., p. 33.
[4] C. Bo, Dell’infrenabile notte, in Frontespizio, dicembre 1937; e poi in Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1940
[5] C. Bo, Nel nome di Campana, in Dino Campana oggi, (Atti del convegno di Firenze 18-19 marzo 1973), Firenze, Vallecchi, 1973.