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il ritorno del lupo
di Giuseppe Agnoletti
Pubblicato su PB20


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il ritorno del lupo

L'attimo era perfetto, così scattai. Poi gli occhi del lupo incontrarono i miei, ringhiando un cupo messaggio attraverso le lenti dell'obiettivo, la bestia sembrava quasi capire che ero nascosto lì vicino. Di colpo girò la testa, forse qualcosa l'aveva disturbata, e scappò via. Ma io avevo le mie foto.

Esaminai la raffica digitale sparata con la fedele Nikon. Buone... maledettamente buone. Mi dissi. Il lupo era tornato in Appennino, ma ancora nessuno lo aveva fotografato. E ora, ecco nelle mie mani una eccellente serie di immagini. Nitide, i colori saturi, il pelo dell'animale scolpito dal sole radente. L'espressione perfetta, da vero predatore delle selve oscure, così come da secoli si è impressa nell'immaginario collettivo dell'uomo.

Una fortuna. Cosa ci faceva quella bestia in giro così presto? La cosa non aveva importanza. Misi la macchina fotografica nello zaino e presi il sentiero che mi aveva portato nel luogo dell'appostamento.

Prima di cedere il passo all'inverno, la calda estate languiva in uno spasmo acuto d'autunno. Così camminavo su un letto di foglie morte, il fruscio morbido di un basso continuo sotto i piedi e in meno di mezz'ora ero di nuovo nell'abitacolo della mia auto lasciandomi alle spalle il parco demaniale.

Macinai una decina di chilometri, poi la macchina si arrestò e si rifiutò di ripartire.

Le avevo provate tutte, compreso un paio di calci ben assestati. Ma era quasi buio, adesso, e non era passato ancora nessuno, il rischio di restare ad aspettare per ore si stava facendo sempre più concreto. Raccolsi la mia attrezzatura, chiusi la portiera e m'incamminai verso la vecchia casa in pietra che ricordavo a solo un quarto d'ora di sentiero, molto più vicino, in ogni caso, dell'osteria del vecchio Gianni. L'immagine conservata in un angolo della mia mente era quella di un edificio ancora in buone condizioni e in certi periodi dell'anno abitato.

La casa mi apparve come un sasso scuro appoggiato sopra l'erta spigolosa di un ruscello. Un barlume giallastro filtrava da una finestra e rivelava la presenza di qualcuno. Bussai, dopo poco lo feci ancora, con insistenza, mentre mi apprestavo a bussare di nuovo si affacciò un uomo.

Ebbi la sensazione che il suo sguardo mi attraversasse tutto, per poi proseguire oltre a scandagliare il terreno lì attorno. Scrutò anche il cielo, strizzando gli occhi per vedere meglio, poi me li puntò addosso.

- Se ne deve andare!

La sua scortesia mi colpì come un pugno allo stomaco.

- La mia auto è in panne...

- Se ne vada, subito!

Gli occhi dell'uomo registrarono un'altra panoramica del cielo attorno a noi, poi lui proruppe in una bestemmia.

- È troppo tardi. Venga dentro, maledizione a lei, venga! - disse trascinandomi per un braccio.

Mi ritrovai nel cuore della casa in pietra. Un ampio salone nel quale il camino acceso occupava quasi mezza parete. Il fuoco ardeva, la luce e il tepore s'irradiavano tutto attorno; si stava bene lì.

- Non doveva venire...

La voce dell'uomo alle mie spalle mi strappò dai miei pensieri.

Mi girai per replicare, ma era già lontano da me e adesso stava alla finestra a scrutare fuori, lo sguardo perso nelle ombre disegnate dal buio.

- La mia automobile.

- Lo ha già detto - disse risentito. Poi il suo tono si fece improvvisamente calmo.

- Avrà fame - disse facendo un gesto verso la tavola. - Ci metterò pochi minuti, ho degli avanzi di ieri, se nel frattempo si vuole sedere.

- Posso darle una mano.

L'uomo partorì un sussulto dalle spalle curve e io lo presi per quello che era, cioè un rifiuto. Così mi sedetti al tavolaccio di legno, solo in parte ricoperto da una tovaglia orfana di bucato, e presi a studiarlo meglio.

Mostrava cinquant'anni portati male, sdrucito come un panno vecchio, in certi punti lurido; ma gli occhi covavano una scintilla che ardeva di una febbre intensa.

Fu di parola. Dopo nemmeno un quarto d'ora servì in tavola una zuppa di legumi, funghi di bosco e verdure. Il profumo di porcini era inebriante. Tuffai una fetta di pane cotto a legna e mi misi a mangiare di buon grado. Alla fine, nel piatto non avevo lasciato nemmeno le foglie della salvia. Non so come, mi vennero alla mente le parole di un vecchio proverbio arabo: "come può morire colui che ha la salvia nel suo orto?"

L'uomo mi osservò, ma questa volta sembrava compiaciuto e per un attimo dal viso gli cadde quel sipario di cupezza che lo avvolgeva come una nebbia. Sempre in silenzio afferrò un fiasco e di nuovo mi riempì il bicchiere di un rosso asprigno e forte che andava giù leggero. Solo allora lo guardai negli occhi: - Aspetta qualcuno? - gli chiesi. - Una visita di parenti? Non volevo esserle di disturbo.

Gli si spense quell'abbozzo di sorriso. La sottile linea fra le labbra prese un angolo insolitamente acuto. Sembrava che una parte di lui volesse rilassarsi, mentre l'altra si ostinava a rimanere seria. Afferrò un pezzo di pane e lo strappò in due con violenza.

- No, nessuno. Chi vuole che venga quassù fra i boschi? Sono andati via tutti e hanno lasciato un deserto di case svuotate, poderi abbandonati all'incuria, tafani e serpi a regnare su tutto.

Portò il pane alla bocca e prese a masticarlo lentamente. Poi azzardò una cucchiaiata. Vidi che mangiava pochissimo, quasi nulla, pure al bere si dedicava con estrema moderazione, come se dopo avesse dovuto guidare per un lungo tratto di strada e intendesse mantenersi sobrio.

Alla fine della cena si mise a rigovernare le poche stoviglie in un acquaio di pietra consunto e levigato dallo scorrere dell'acqua. Io stavo rilassato sulla sedia, ipnotizzato dal bagliore del fuoco che danzava nel camino, la mente intorpidita dal vino buono, e mi addormentai.

***

Al mio risveglio provai la sensazione di trovarmi nell'incubo di una mente malata. L'uomo stava immobile, di fronte alla finestra, con le mani che artigliavano la propria faccia. Oltre il vetro, qualcosa si divincolava a scatti, una sordida creatura che solo dopo qualche istante riuscii a identificare come la parvenza di quella che un tempo era stata una donna. La capigliatura le ondeggiava sulla testa simile a un nido di serpi velenose, le dita armate di unghie lunghissime graffiavano il vetro, mentre la sua bocca spruzzava saliva densa e rossastra. Ma la cosa che attirava il mio sguardo, senza che io riuscissi a distoglierlo, erano le due candide zanne che le spuntavano dalle gengive.

¯ Lasciami entrare! - diceva all'uomo che l'ascoltava pietrificato, e che a tratti sembrava ondeggiare avanti e indietro, gli occhi fissi su quell'espressione folle.

- Invitami dentro e saremo di nuovo uniti. Carne nella carne, sangue nel sangue!

Il tono si era fatto quello di una supplica disperata. Le parole terminarono in un gorgoglio rossastro che si sparse sul vetro, mentre la lingua della creatura ne intorbidava la superficie pitturando graffiti osceni.

Vidi l'uomo accennare un movimento, e d'istinto intervenni. Gli diedi una spinta che lo mandò a gambe levate. Senza sapere come, avevo già aperto la camicia, così impugnai la catenina d'oro che portavo al collo. Tesa fra le dita, puntata in alto come un'offerta su un altare, tenevo la piccola croce.

Il grido d'orrore scoppiò simile a un lampo nella notte. La donna mi lanciò uno sguardo carico d'odio, poi scomparve dal riquadro della finestra. Improvvisamente subentrò un silenzio rotto solo dai singhiozzi dell'uomo steso a terra, le sue mani, adesso, artigliavano il pavimento.

***

- Lei... voglio dire quella cosa che ha visto la fuori, era mia moglie.

Adesso l'uomo era straordinariamente calmo. Si era acceso una pipa e ne traeva lunghe boccate, spargendo attorno a sé un aroma dolciastro e piuttosto gradevole.

Chiuse gli occhi: - Poco dopo che ci eravamo conosciuti decise di venire a vivere quassù con me. Pensi, in questa solitudine, lei che era abituata da sempre alla città! Non c'era anima qua attorno, ma ci facevamo compagnia a vicenda. Sembrava nata fra queste montagne. Le piaceva camminare per ore fra i boschi, sostare rapita ad ascoltare il mormorio delle foglie cadenti o lo scorrere stizzoso del ruscello nella gora, perché questa casa, una volta, era un mulino.

- Cosa vuole da lei? - Le parole mi erano sfuggite un po' troppo aspre, quasi senza volerlo.

Rise: - cosa può mai volere un vampiro da un essere umano? Me, il mio sangue; che poi è la stessa cosa.

Lo guardai poco convinto. - Sua moglie sarebbe potuta andarsene ovunque, invece è ancora qui. Ogni notte ritorna a cercarla. Vuole farmi credere che è ancora innamorata di lei?

L'uomo annuì con la testa, più volte, sempre tenendo gli occhi chiusi. - Sì, credo che non voglia andarsene senza di me.

- E lei?

Sbuffò aria dalle narici e accennò un sorriso. - Le volevo bene, ma la sola idea di abbracciarla è ributtante.

- Ho visto che stava per cedere, per aprire la finestra e farla venire dentro.

L'uomo si alzò, e azzardò alcuni passi in un immaginario cerchio. - È proprio come nelle leggende: non possono entrare in casa di qualcuno se non sono invitati. Lei ha la vista lunga, sono sei mesi che tutte le notti mi tormenta. A volte penso che se aprissi quella maledetta finestra, allora tutto si sistemerebbe. Saremmo di nuovo assieme, come prima, che importanza può avere l'aspetto? Non sopporto questa solitudine, è quasi più spaventosa di lei, voglio dire, di com'è ridotta adesso.

- Forse è meglio se lei abbandona questo posto.

- Io ci morirò, in questo posto.

Mi alzai anch'io. Con estrema cautela mi avvicinai alla finestra, fuori sembrava tutto tranquillo.

- Cosa accadde? - dissi all'improvviso.

L'uomo esalò l'ennesima nuvola profumata. Chiuse gli occhi e li riaprì, una profonda ruga gli tagliava in due la fronte.

- Una tempo non c'era il deserto che lei può vedere adesso, questa era una zona popolata. Diverse le case, anche se sparse qua e là, una parrocchia e un cimitero, gente che nasceva, moriva, si sposava e faceva figli. La frazione si chiamava Campaldo; oggi ne è scomparso persino il ricordo. Mia moglie, fissata per queste cose, si era messa in testa di ricostruire l'albero genealogico della mia famiglia e non potevamo contare sui documenti della chiesa. L'edificio era ridotto a un rudere, i registri portati via decenni prima, così decise di visitare il cimitero. Era quasi l'imbrunire di un tardo pomeriggio novembrino, la nebbia un ansito umido che prendeva alla gola e offuscava i contorni delle cose. Ricordo com'era eccitata, e quanto rise quando un sinistro cigolio accompagnò l'apertura del cancello.

L'uomo arrestò di colpo la sua narrazione, sconvolto da quello che la sua mente si accingeva a rievocare. Fece qualche passo verso di me, scosse la testa e chiuse gli occhi, ma si riprese quasi subito.

- Per qualche strana ragione, forse un normale paradosso burocratico, il cimitero era stato sconsacrato, ma erano rimaste tombe e lapidi, alcune delle quali avevano preso assurde inclinazioni. Mia moglie era preda di un entusiasmo incredibile. Si aggirava fra i tumuli con in mano un blocchetto e prendeva appunti con precisione. Ogni tanto mi interrogava e, annuendo convinta, ritornava a scrivere. Poi, quasi di colpo, la luce polverosa dell'ultimo sole scomparve. La vidi solo allora, una frattura che le piogge e il gelo avevano scavato col tempo e che la breve scossa sismica, avvertita un paio di giorni prima, doveva avere allargato. Ci affacciammo tutti e due, ma si vedeva pochissimo. Sembrava un ipogeo, o qualcosa di simile, e nonostante la scarsa luce pareva di distinguere un catafalco marmoreo istoriato di scritte, indecifrabili, con quella scarsa luce. Dissi a mia moglie che sarei andato di corsa a prendere una torcia elettrica, e che mi aspettasse lì.

Adesso il volto dell'uomo era una terra desolata. Si lasciò sprofondare sul divano e continuò a parlare mantenendo gli occhi chiusi, così che sembrava un sonnambulo vittima dello sproloquiare tormentoso di un incubo.

- Quando ritornai non potevano essere passati che dieci, quindici minuti al massimo, ma era già buio. La prima cosa che vidi mi lasciò incredulo. C'era mia moglie, lì nel cimitero, abbracciata a un altro uomo. Sembravano una coppia di adolescenti immortalati sulla spiaggia in un tramonto di fine estate, incuranti del mondo che passava, ripiegati su loro stessi e travolti dalla passione. Mi sfuggì un grido, che poi era il suo nome storpiato e reso grottesco dalla gelosia. Ma lui si voltò, e vidi che cos'era in realtà.

L'uomo si rialzò di scatto. Stringeva i pugni e scuoteva il capo. Poi guardò ancora fuori dalla finestra, verso il nero nulla che circondava la casa.

- Un vampiro... facile adesso dire una simile parola, ma doveva vederlo! L'orrore fatto immagine, l'abominio e la malvagità riuniti in un grottesco tentativo di incarnarsi sotto fattezze umane. Sorrideva, ubriaco ed ebbro del sangue di mia moglie. Mi studiò per un attimo, sempre sorridendo, giusto il tempo di capire che non rappresentavo un pericolo per lui, poi tornò a dedicarsi a lei, affondando di nuovo i denti sul suo collo.

L'uomo si portò le mani al volto.

- Io... io fui solo capace di scappare. Di correre a rifugiarmi in questa casa, codardo veloce, meschino umano terrorizzato da una creatura ultraterrena. E mentre fuggivo dal cancello del camposanto, udii qualcosa che conoscevo bene: i gemiti di piacere della donna che fino ad allora aveva diviso il mio letto, in quelle lunghe notti di montagna.

Non disse altro. Si stese ancora sul divano, il corpo scosso da tremiti convulsi. La sua pipa, abbandonata sul pavimento, si spegneva lentamente, liberando nell'aria soffici volute profumate.

 

***

 

Il sonno mi era del tutto passato. L'uomo adesso dormiva su quel vecchio divano in finta pelle, posto in un angolo del salone, il residuo di qualche squallido arredamento stile anni '60, così tirai fuori la mia attrezzatura.

Riguardai le fotografie della giornata con occhio critico. Presi a eliminare le più scadenti, lasciando il giudizio sulle altre sospeso, in attesa di un esame più accurato tramite il monitor del computer. Ed ecco il lupo. Le immagini erano così naturali che sembrava vivo, come se si stesse muovendo. Adesso i suoi occhi parevano guardarmi fisso. Solo in quel momento mi resi conto che si trattava di una femmina.

Credetti di precipitare in un vortice incandescente, mentre il lupo cresceva di dimensioni e fuoriusciva dal piccolo monitor della Nikon. Il ringhio dell'animale proruppe assordante. L'uomo si svegliò e cacciò una bestemmia. Guardò me e la mia macchina fotografica, poi l'animale che adesso si stava tramutando in una ributtante parvenza di donna. Il grido di trionfo echeggiò nella casa e non aveva nulla di umano.

- Di nuovo vengo per te! - gridò la cosa mostruosa gettandosi verso di lui.

Tentai di prendere la croce della catenina, ma la vampira aveva già affondato i denti nel collo dell'uomo. Sembrava un'amante accesa di desiderio, la bocca infuocata, i sensi torridi, tutto il corpo fremente in un delirio di sensi appagati.

Guardai il marito. Teneva gli occhi stretti, quasi chiusi in un'espressione rassegnata, finalmente quieta, come di chi è tornato a casa dopo un lungo viaggio e non vuole più saperne di ripartire. Nessuno dei due faceva caso a me.

Aprii la porta e mi tuffai nel buio della notte. Divoravo il sentiero, incurante dei graffi causati dai rami degli alberi, completamente dimentico della mia costosa attrezzatura fotografica.

Guardai un'ultima volta indietro: la casa spiccava contro una leggera fosforescenza che risaliva dal fiume. Stava sorgendo la luna, e allora si udì un canto. Una litania antica, ricamata sulle note di una scala pentatonale, una canzone d'amore di un mondo senza mondo, vibrata in una bocca ebbra di sangue e di amore ritrovato.

Respirai a fondo e ricominciai a correre; avevo una lunga strada da fare.


***

Fissavo il profilo lontano dei monti, una catena azzurrina, qua e là appena screziata di macchie biancastre di neve. Da tre mesi osservavo le cose con un occhio diverso. Non mi catturavano più le armonie dei colori, o le infinite geometrie dei paesaggi, i giochi di luce e di chiaroscuro che facevano di una semplice immagine in bianco e nero un piccolo capolavoro. Avevo cominciato a fumare, in breve ero diventato un tabagista incallito recuperando con gli interessi il tempo perduto. Ero solo un uomo terrorizzato che aspetta la propria fine. E appena scorgevo in controluce la sagoma di un animale selvatico, lasciavo lì tutto e aspettavo che si allontanasse.

Qualcun altro si era accorto di me. Il National Geographic mi aveva commissionato un servizio proprio sul ritorno del lupo in Appennino; un gran bel mucchio di soldi e soprattutto l'opportunità di tornare a essere me stesso. Mi avrebbero fatto comodo le fotografie scattate quel pomeriggio, prima che la mia auto si fermasse e fossi costretto a cercare riparo nel vecchio mulino, ma erano rimaste lì, in quella dimora a picco sul torrente.

Il vecchio Gianni puntò il dito sul quotidiano, una pagina di cronaca locale.

- Guarda qua, un altro agnello sgozzato dai lupi, sembra che adesso i monti ne siano pieni. E tu signor fotografo naturalista cosa aspetti ad andare a riprenderli?

La mano mi tremava mentre buttavo giù il terzo Cinzano con vino bianco.

- Stronzate, solo stronzate - dissi soffocando a fatica un colpo di tosse secca.

- C'è scritto sul giornale! Testa di rapa di un fallito.

Risi, ma dentro di me saliva un brivido. La mia mente per un attimo prese a considerare l'idea, poi tentò di scacciarla via.

- Lupi in Appennino? Vecchio idiota rimbecillito; impossibile, semplicemente impossibile!

Mi avrebbero fatto comodo le foto lasciate nella casa del vecchio; quelle o altre nuove immagini. Era il momento di decidersi. Afferrai la mia nuova attrezzatura e mi avviai verso il bosco. Il tempo era incerto, un addensamento di nuvole in lontananza non prometteva niente di buono. Dopo nemmeno un quarto d'ora cominciarono a cadere le prime gocce.

Incontrerò il lupo, pensai, e saranno in due; probabilmente questa volta sarà l'ultima.

© Giuseppe Agnoletti





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