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Io me l’immagino come dev’essere andata quella mattina del 20 gennaio 1896 in casa del nonno. Sofia partoriva per la nona volta. Aveva avuto ben ventidue gravidanze, un sicuro vanto per Domizio, un omone che, non contento dei molti figli legittimi, aveva provveduto con altri figli naturali ad incrementare la popolazione del giovane stato italiano, lui che quello stato aveva contribuito a crearlo, combattendo con Garibaldi a Bezzecca ad appena diciassette anni e a Mentana a diciotto. Sofia, la mia bisnonna, aveva trentanove anni, età di un certo rilievo all’epoca per pensare di avere un figlio, e Domizio quarantasette e il loro spirito materno e paterno dovevano essere stati appagati da tempo. Ma ad un figlio non si chiude la porta in faccia. Sarà stata chiamata, immagino, la levatrice, che aveva fatto nascere anche tutti gli altri: dopo qualche ora di travaglio un grido di Sofia e un pianto strozzato, quello di un bambino, che, lungo e magro come un capretto, a testa in giù comincia a dire ora-ci-sono-anch’io. Lo vedo Domizio, avanti e indietro nella stanza accanto, ancora incredulo davanti al miracolo della vita, tirare un sospiro di sollievo. Un brindisi a se stesso, l’attesa di qualche altro momento e poi le donne escono, fanno gli auguri e lasciano entrare lui, il Sor Domizio. “ Come lo chiamiamo, sposa mia?” dice guardando perplesso suo figlio, che lavato e asciugato, avvolto in un panno bianco, è accanto alla madre. Le avrà dato un bacio, una carezza? Chissà. E al bambino avrà detto una parolina di quelle che si dicono ai neonati? Mi piace pensare di sì, anche se il suo cipiglio mi rimanda ad un tipo di scarse smancerie. Ma le foto sono la maschera ufficiale. Magari in privato era un padre tenero, un marito affettuoso. “ Ultimo?” sussurra Sofia, nella speranza che lo sia davvero. C’erano già stati Luisa, Guido, Emma, Gina, Guido secondo, Jacopo, Carlottina, Lina… Me l’immagino il bisnonno Domizio tuonare “ Lo chiameremo Galliano, come il Maggiore Giuseppe Galliano”. Non fu l’unico padre a dare al proprio discendente il nome dell’ ufficiale, che si stava distinguendo in Africa nella guerra contro l’Abissinia, difendendo il forte Macallè. “ Come vuoi, Domizio” avrà detto lei, sfinita dal parto, anche se non era un tipo remissivo, né docile in altri momenti. Sto guardando la sua foto e la foto di Domizio. Sguardi e cipigli d’altri tempi: fierezza e dignità e pudore oggi sconosciuti. Assaporo il vino rosso che mi sono versata ed appoggio il bicchiere sul tavolino posto presso la poltrona. Non conosco piacere più grande che sfogliare vecchi album di foto davanti ad un camino acceso, sorseggiando del buon vino. E’ per me come entrare in un film, i cui attori sono i miei antenati. Con l’aiuto di racconti ascoltati dall’infanzia, li immagino muoversi in contesti imparati dalle foto. La bisnonna mi è sempre sembrata una donna così dura e difficile, che a stento la colloco al fianco di Domizio, fiero e passionale. Eppure doveva essere, almeno nel privato, molto meno fredda di quanto questa foto in bianco e nero dimostri, se sapeva gestire tanti affetti. Altro sorso di vino. Lo tengo un attimo nella cavità orale perché conquisti ogni centimetro quadrato della mia lingua, gola, palato. Caldo della mia bocca, lo ingoio e lo sento passare nell’esofago, piacevolmente. Il fuoco davanti ai miei occhi si agita brioso. Mio padre mi ha insegnato ad amare e rispettare il vino, anche per il posto che occupa nella nostra storia familiare. Volto la pagina dell’album ed ecco, al centro, il nonno Galliano. E’ in una culla, le cui dimensioni occupano tutta la foto. Lo svezzerà una balia di Creti, perché Sofia, oltre a non poterne più di figli da tirar su, non aveva evidentemente neppure un gran latte e il piccolo cresceva male. “ Che si fa, Sofia con questa creatura?” avrà tuonato Domizio. “ Tira poco e questo latte è acqua. Secondo me non arriva a Pasqua”. Evenienza da non escludere per loro, che avevano già perso alcuni figli, prima che arrivassero ai dieci anni. Lui, però, si informa e sa che c’è una balia diciottenne nella campagna cortonese. Decide di portarglielo. “ Certo, è proprio malmesso” dice lei, guardandolo con occhi dubbiosi e toccandosi il petto, duro di latte. “Faccia quel che può. Senza impegno.” Lo lascia alla donna e la giovane età di lei, il latte buono, l’aria di campagna fanno il miracolo. Quante volte l’ho sentito raccontare da mio padre che lei masticava il cibo e poi imboccava il piccolo? “ Pare che gli desse anche qualche goccia di vino…”aggiungeva sempre. Galliano un anno dopo è riconsegnato alla famiglia in perfetta salute. E’ un bambino magrissimo, tutto nervi ma con due occhi chiari, fieri e intelligenti. Ha una fossetta in mezzo al mento già visibile, che diventerà la caratteristica del suo viso che ricordo con più affetto. Quando mi prendeva in braccio, ci appoggiavo sempre il ditino. Riprendo il mio bicchiere, sorrido. Ingoio un ricco sorso e, come prima, lo lascio ambientare nella mia gola, poi lo faccio scivolare dentro lo stomaco. Una calda beatitudine mi invade. Io sono qua oggi anche grazie a quelle gocce di vino. Chiudo gli occhi e piano piano la mente si perde e sprofonda. Torno bambina, vedo mio padre e, accanto a lui, il nonno: io sono dentro un grosso tino con altri coetanei e alcune donne. Calpestiamo gli acini d’uva raccolti durante la giornata e intorno un odore forte si alza e mi confonde. Voci, risate, batter di mani. Le mie gambette all’inizio hanno imbarazzo ad immergersi in quella melma scura, ma a poco a poco prendono coraggio e forza. E’ ottobre, l’ottobre del mio settimo compleanno ed io sono lì a saltare, correre dentro a quel grande catino di legno e gli schizzi mi arrivano fino ai capelli, agli occhi, alla bocca: mi chiedo come tutto questo possa dar vita a quel liquido trasparente che vedo sempre nei bicchieri a tavola. Più ci penso, più pesto. Sento infilarsi tra le dita dei piedi gli acini e immergo anche le mani in quella poltiglia, perché ormai il guado è passato e questo gioco mi piace, mi piace molto. Ed ecco che finalmente comincia ad uscire qualcosa dal tubicino e si alza un applauso corale e delle voci gridano forza forza ritmando con i piedi e le mani. La sera, a cena, il battesimo dovuto a chi ha lavorato. Ho diritto ad un dito di vino. Il nonno dice che il vino gli ha salvato la vita, perché il vino è vita. Sono così emozionata per l’onore ricevuto che non stacco gli occhi dal suo viso; mentre avvicino il bicchiere alla bocca, sbaglio posizione e quando inclino la testa il vino va giù per il naso e mi fa tossire fino alle lacrime. Oggi sono sommelier, so tutto di enologia, so distinguere un vino abboccato da uno acerbo, che è diverso dal dire acidulo o agro, asprigno, aspro, tutti attributi specifici di qualità particolari. E poi c’è il vino aggressivo, amabile, amaro, armonico…solo per usare la A del vocabolario dell’enologo. E dire che qualcuno lo chiama semplicemente vino! Apro gli occhi e ne bevo un altro sorso. Domani, al settimo compleanno di mio figlio, darò anche a lui un goccio di vino e gli racconterò di nuovo tutto questo.
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Chiara Del soldato
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