a
cura di Francesca
Lagomarsini
Ci sono luoghi dell'immaginario, della
memoria, del fantastico che fanno ormai
parte del nostro patrimonio culturale, luoghi
forse diversi attualmente, cambiati dalle
attività antropiche ma che conservano
intatti il fascino proprio di chi li ha
cantati in poesia e prosa. E' il caso delle
Langhe, quelle di Cesare Pavese, presenti
ne "La luna e i falò" in
particolare ma anche prepotentemente in
"Feria d'agosto"
..
Proprio ne "La luna e i falò"
respiriamo appieno l'atmosfera delle verdi
colline delle Langhe, della "Gaminella"
che ne è protagonista, scenario di
avvenimenti ma anche e soprattutto luogo
"mitico" di iniziazioni, di passione
e di morte, luogo in cui vivono uomini come
Nuto, il vate, il saggio narratore di storie,
uomo ancorato alla terra, alla natura ed
alla famiglia.
Una domenica di sole fa da sfondo alla nostra
visita alla casa-museo di Pavese, proprio
qui, tra le vigne del Salto e la famosa
Gaminella, in località Santo Stefano
di Belbo. Troviamo il museo chiuso per restauri,
è un casolare trascurato, rosso mattone
che si affaccia sulla strada, dall'aria
malinconica e silenziosa; proprio accanto
è nato un ristorante-enoteca dal
nome suggestivo, l'Osteria dal "Gal
Vestì".
Decidiamo di fermarci a pranzo ma prima
respiriamo appieno l'aria profumata dei
primi alberi in fiore sparsi tra le vigne
di queste colline.
Non si può fare a meno di ricordare
le parole di Pavese, sempre da "La
luna e i falò":
"La collina di Gaminella, un versante
lungo e ininterrotto di vigne e di rive,
un pendio così insensibile che alzando
la testa se ne vede la cima, e in cima,
- chi sa dove, ci sono altre vigne, altri
boschi, altri sentieri - era come scorticata
dall'inverno, mostrava il nudo della terra
e dei tronchi. La vedevo bene nella luce
asciutta, digradare gigantesca verso Canelli
dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia
che segue il Belbo arrivai alla spalliera
del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul
ciglione la parete del casotto di grosse
pietre annerite, il fico storto, la finestretta
vuota e pensavo a quegli inverni terribili
".
Ora le colline sono nella delicata fase
di transizione verso la Primavera, si insinua
prepotente la vita nei filari di vigne e
sulle chiome degli alberi ma non è
difficile immaginare questi paesaggi, sferzati
dalla durezza invernale oppure, per contrasto,
nell'accecante sole del "meriggio"
pavesiano.
E' infatti soprattutto nella luce indolente
del mezzogiorno che Pavese colloca il mondo
primordiale delle campagne, delle Langhe,
queste colline in cui la Natura esprime
la propria forza travolgente, il richiamo
al mito, al selvaggio in contrasto con l'immagine
della città che rappresenta l'ordine
ma anche la possibilità di riscatto,
di guardare "oltre" le colline
e quel mondo anche brutale. Denominatore
comune dei molti romanzi dell'autore è
infatti la visione propria dell'uomo di
città nei confronti del "selvaggio".
Esso costituisce richiamo ancestrale, in
grado di assorbire il singolo nella sua
individualità, connesso irrimediabilmente
all'idea di campagna. Ecco, dunque, nella
nostra passeggiata, emergere con prepotenza
il carattere incontaminato e appunto "selvaggio"
del paesaggio delle Langhe, immerse nel
sole del meriggio nel quale è facile
respirare e ritrovare le tracce del mito.
Quindi Eros e Tanathos, amore e morte, contrapposizioni
intrinseche nell'elemento naturale, pervadono
la Natura e rendono aspro, e allo stesso
tempo, dolce abbandonarsi ad essa, alle
sue leggi immote.
Ne "Dialoghi con Leucò"
Pavese, sorprendentemente affronta tematiche
filosofiche proprie del mito trasponendovi
propri passaggi, anche autobiografici, proprie
angosce e nevrosi: la spiritualità,
la divina indifferenza per la sorte degli
uomini, la disperazione propria dell'amore
(rapporto con l'altro sesso in "Schiuma
d'onda") e come appunto nei miti greci,
al di sopra anche degli Dei dell'Olimpo
è collocata proprio la Natura, principio
cardine del divenire, elemento base al quale
anche gli Dei sono sottoposti.
Per l'approfondimento citiamo l'articolo
di PierPaolo Pracca "Il meriggio nell'opera
letteraria di Cesare Pavese" sul sito
della rivista Airesis (www.airesis.net),
proprio dedicato al tema del meriggio e
al complesso mondo filosofico pavesiano,
illuminante per approfondire la visione
del tema meridiano.
In una poesia tratta dalla raccolta "La
terra e la morte" è evidente
lo straniamento, la visione di una terra
aspra, quasi nemica, che si ricongiunge,
però, al discorso sul mito nella
visione del falò, rito propizio,
preparatorio per la nuova fecondità,
quindi creatore di distruzione ma anche
di nuova linfa vitale:
"C'è una terra che tace
e non è terra tua
C'è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
Che non cede, sei labbra
E occhi bui. Sei la vigna.
..
E' una terra cattiva
La tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera."
La necessità del richiamo a questi
luoghi per l'autore, nonostante le lusinghe
del "partire", dell'abbandono
del Paese natio, è evidente sempre
ne :"La luna e i falò"
dove si dice che :"Un paese ci vuole,
non fosse per il gusto di tornarci. Un paese
ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene
via. Un paese vuol dire non essere soli,
sapere che nella gente, nelle piante, nella
Terra c'è qualcosa di tuo, che quando
non ci sei resta ad aspettarti
".
Il partire per poi ritornare, la delusione
per un passato che è impossibile
recuperare, quindi lo sradicamento da un
Paese che perdura nel cuore ma non può
più accogliere come nido, come luogo
dell'anima, si unisce quindi alla nostalgia,
al rimpianto per una vita segnata dal richiamo
delle città e dell'esotico (spesso
è l'America a rappresentare ciò)
ed è elemento caratterizzante molti
personaggi dei romanzi dell'autore.
Ci ritroviamo alla fine del cammino di
fronte alla lapide - monumento di Cesare
Pavese, poco distante dalla casa natia;
si tratta di un piccolo cimitero, raccolto
come tanti da queste parti, persi tra le
colline. Nell'aria uno strano silenzio immerso
nel sole, le poche persone che visitano
il cimitero sono assorte, quasi dimentiche
del tempo che in effetti qui è sospeso.
Il primo pensiero che ci coglie è
che Pavese con la sua opera, la sua vita
ed anche la sua fine sia riuscito davvero
a realizzare ciò che proferiscono
i suoi personaggi circa il "Paese a
cui ritornare", a tornare quindi in
questi luoghi, a cantarli nella loro verità
profonda, smascherandone la bellezza e la
ferocia, ad abitarli, così, per sempre.