Di fronte a Mercurio che si è appropriato delle sue sembianze, Sosia, nell’Anfitrione di Platone, scruta se stesso; e avere dinnanzi il proprio doppio lo spaventa, dal momento che equivale a dare corpo al fantasma la cui esistenza è possibile solo con la morte.
I due temi: quello del sosia e quello della morte, sono la struttura su cui poggia il romanzo di Tommaso Alibrandi, Giochi di fuoco, Manni, 2009. Due i protagonisti dunque, uno sosia dell’altro, senza che uno abbia preso il posto dell’altro. Non si tratta quindi, per quel che riguarda l’opera di Plauto, che di una somiglianza esteriore. Ed esteriore è anche il riferimento al famoso personaggio di Dostoevskij, Goljadkin che, sull’orlo della schizofrenia, incontra il sosia con il quale coincidono il nome, l’esperienza, l’età. Siamo semmai più vicini, nel romanzo di Alibrandi, a una sorta di Edipo che crede di essere «uno» e si scopre «un altro», solo che ignoriamo, e lo ignorano gli stessi protagonisti, quale dei due sia l’uno. E’ nella morte che il dilemma si dissolve, che svanisce l’idea di un doppio, che la dissociazione scompare e l’esistenza vissuta diventa una, solamente una.
E prima, mentre le due vite sono narrate, al lettore mai è concesso un dualismo affettivo, di sentirne familiare l’una ed estranea l’altra.
Appare il tempo il vero protagonista del libro, un tempo che ritorna su se stesso, che non può non ricondurre alle teorie bergsoniane: la successione non è una linea continua. E infatti l’affermazione del filosofo, nella Evoluzione Creatrice del 1907: «Per un essere cosciente, esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente se stesso» si adatta perfettamente al romanzo di Alibrandi.
Il tempo si adagia anche sui luoghi, la catena delle Madonie, Cefalù soprattutto, le sue usanze, la sua mentalità; sulle donne amate: Costanza-Blanche, sui numerosi altri personaggi, ognuno dei quali ha ben delineate le proprie peculiarità (lo zio prete come Balduino).
In questo romanzo, la cui tenuta di scrittura è sorprendente, tanto più se si considera che Alibrandi fonde anche vari generi: la memorialistica, priva di retorica e asciutta, il romanzo storico, il giallo, persino, la costante è forse l’enormità dei fatti narrati, dei pensieri espressi; e ciò ne rende pressoché impossibile riportarne un sunto: è come se ogni elemento fosse una scintilla dei giochi di fuoco –i fuochi artificiali- e dunque, pur essendo parte dell’effetto totale, sarebbe illogico volerla ammirare da sola, avere la pretesa di distinguerla dalle altre.
Sono appunto i giochi di fuoco a dare il titolo, ma anche il fuoco è come se avesse il suo sosia. Infatti “è una medaglia a due facce. Come non c’è morte senza la vita, così la vita non avrebbe senso se non giungesse a termine.” (p. 317) Per questo l’intreccio non poteva che terminare, ma circolarmente, dal momento che la fine è prospettata già dalla Premessa, con un approdo: la bocca del Mongibello.
I giochi di fuoco dell’uomo assumono una nuova valenza quando ad essi partecipa, con i propri, il cratere del vulcano: “A qualche centinaio di metri sotto di lui, dal grande cratere erompeva un incendio sovrannaturale, lingue di fuoco s’alzavano verso il cielo, ed ogni tanto –con un roco boato che faceva tremare la montagna- la terra eruttava colonne di fumo e di lapilli. Il cuore della terra si liberava dell’energia in eccedenza e, come al gioco dei fuochi, tutta quella manifestazione di forza era promessa della continuità della vita.”