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L’immanenza dell’incarnazione nella poesia di Mario Luzi
di Riccardo Renzi
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L’immanenza dell’incarnazione nella poesia di Mario Luzi

Mario Luzi, nacque a Castello, in quel tempo frazione di Sesto Fiorentino, secondogenito di Ciro Luzi, locale funzionario delle ferrovie, e di Margherita Papini. La famiglia paterna era di origini marchigiane, di Montemaggiore al Metauro. Dopo una prima parentesi nel senese, Mario trascorre l'infanzia a Castello, frequentando qui i primi anni di scuola. Nel 1926, in seguito al trasferimento del padre a Rapolano Terme in provincia di Siena, si trasferisce a casa dello zio Alberto a Milano dove rimane per solo un anno; nel 1927 ritorna a Rapolano Terme dalla famiglia per poi, nel 1929, ritornare nella sua città natale e terminare a Firenze gli studi presso il Liceo Ginnasio Galileo[1].

A differenza del poeta francese Charles Péguy[2] la profonda fede religiosa lo accompagnò per tutta la vita, non ebbe mai dubbi. La sua produzione poetica copre più di cinquanta anni: la sua prima raccolta in versi, La barca, è del 1935, l’ultima del 1994, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. È ormai giudizio diffuso che Luzi fu il simbolo e il massimo esponente di quell’ermetismo poetico fiorentino degli anni Trenta del Novecento. Tre sono gli elementi di fondo che connotano la poesia di Luzi:

-Un’assenza e una totale distanza dalla realtà contingente.
-La costante presenza di preziosismi formali tipici della poesia ungarettiana.
-Un forte fervore religioso che anima continuamente e ininterrottamente la sua poesia.

È proprio su quest’ultimo punto che ci andremmo a soffermare. Per Luzi fare poesia è cercare la verità e l’unica verità esistente è quella cristiano cattolica. Ha osservato Romano Luperini: «la visione della realtà presente nelle opere luziane è quasi sempre angosciata e cupa, ed egli rientra, rispetto alla tradizione cattolica cui è riconducibile, nel filone pessimistico di Pascal e di Manzoni»[3]. Per Luzi nella parola poetica può esprimersi il significato della vita e del mondo, poiché essa è il mezzo può forte concesso all’uomo e il Cristo non è altro che il verbo (la parola) che si è fatta uomo. L’apax poetico luziano è raggiunto nella sua prima fase, quella che dura sino agli anni sessanta del Novecento, così detta della “dignità del quotidiano”. È questa la fase della pienezza poetica e dei suoi risultati più alti. I gesti, i mesi, le stagioni e le ore si susseguono in ciclo continuo, che però non è insignificante, poiché si ritorna a quel tempo scandito dalla preghiera[4], dove tutto ha un senso e rientra in un disegno divino. In questa visione del mondo l’Incarnazione del Cristo è per Luzi un atto di quotidianità che nel momento che si realizza si fa fatto storico. Così per Luzi come per Péguy l’Incarnazione può essere contemplata solo come dato biografico e in quanto tale storico. L’Incarnazione è Dio che si fa quotidianità, cioè uomo che con la sua finitezza vive il quotidiano ed è proprio questa quotidianità che si storicizza nel tempo[5]. L’Incarnazione è però anche il Verbo che si fa uomo e dunque nella concezione poetica di Luzi della “incarnazione del quotidiano” del verbo nella poesia c’è quasi una blasfemia. Ma a scongiurare ciò sovviene in ausilio la concezione altissima, quasi divina che Luzi ha del verbo poetico. In lui, infatti, è costante un linguaggio parabolico, visionario, quasi profetico, proprio solo delle sacre scritture. Per Luzi la poesia è il verbo che si fa vita e «La religiosità intrinseca della poesia trova un limite solo nella superficialità o nella frivolezza dell’umano»[6]. Nuovamente in chiusura ritorna la finitezza propria dell’essere umano, che si oppone all’infinitezza divina e si fondono solo nel concetto dell’Incarnazione.

Nulla di ciò che accade e non ha volto

Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s'esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d'aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E' questa l'ora tua, è l'ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all'improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s'incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l'amore non può giungere
né la dimenticanza di sé stessi[7].

La poesia di Luzi è caratterizzata da una sovrabbondanza di pessimismo simbolistico che però è sempre mitigato da una onnipresente Provvidenza. Essa è quella salvifica del cattolicesimo, che ingloba la natura e la totalità degli eventi. Ma il dolore e una celata malinconia non abbandonano mai la poesia luziana, neanche nei momenti di felicità, come una costante caratterizzante della vita stessa:

Questa felicità

Questa felicità promessa o data
m'è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell'unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo.


Note. [1] Il piccolo mondo di Luzi, sul Corriere Fiorentino del 27 febbraio 2014.
[2] Charles Péguy come Luzi fu un intellettuale impegnato moralmente nel segno del cattolicesimo francese. Di modeste origini, sua madre era impagliatrice di sedie, mentre suo padre era morto pochi mesi dopo la sua nascita. Fu notato dal direttore dell'École Normale d'Orléans, che lo fece entrare al Liceo di Orléans dove ottenne una borsa di studio che gli consentì di diplomarsi brillantemente. Ciò lo portò all'École Normale Supérieure di Parigi nel 1894. Qui fu allievo di Romain Rolland e di Henri Bergson, le cui lezioni lo segnarono molto e di cui poi divenne amico. In quegli anni sviluppò le sue convinzioni socialiste. All'inizio dell'Affare Dreyfus si schierò con i dreyfusardi. Vicino alla Sorbona fondò la libreria Bellais. Intanto nel 1900, dopo il quasi fallimento della sua libreria, si distaccò dai suoi soci Lucien Herr e Léon Blum e fondò la rivista Cahiers de la Quinzaine, allo scopo di far scoprire nuovi talenti letterari e pubblicare sue opere. Vi collaborarono, tra gli altri, Romain Rolland, Julien Benda e André Suarès. Nel 1907, si convertì al cattolicesimo. Da allora, produsse sia opere in prosa di argomento politico e polemico (Notre Jeunesse, L'argent), sia opere in versi mistiche e liriche. Tuttavia, la sua intransigenza e il suo carattere appassionato, lo resero sospetto sia agli occhi della Chiesa di cui egli attaccava l'autoritarismo, sia ai socialisti di cui denunciava l'anticlericalismo e in seguito il pacifismo. Questi sospetti saranno rafforzati da certi atteggiamenti del figlio, custode della sua memoria, che, dopo la sua morte, darà una lettura conservatrice dell'opera del padre.
[3] R. Luperini, Il novecento, Torino, Loescher, 1991, p. 76.
[4] Si pensi a tal proposito ai tanti libri delle ore in uso tra le nobil donne tra Quattrocento e il Cinquecento, tra questi menzioniamo quello della regina Cristina di Svezia conservato presso la Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo.
[5] M. Luzi, Autoritratto, Milano, Garzanti, 2007, p. 126.
[6] Ivi, p. 125.
[7] Da M. Luzi, "Poesie sparse".

A cura di Riccardo Renzi



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