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Casa mia
di Gianluigi Lancellotti
Pubblicato su PBSE2007


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Casa mia

Casa mia si trovava dentro un cortile, o meglio ne occupava un lato intero. Gli altri tre erano occupati da Giorgio, Matteo e Davide, avevamo tutti quanti su per giù la stessa età, attorno agli otto anni.
Subito fuori, oltrepassato un’enorme portone, si finiva su una stradina a schivar pozzanghere e camminare tra fossi e muri scalcinati sbucando poi in piazza Vittoria; una distesa sabbiosa ombreggiata da ippocastani maestosi.
La piazza, come ogni piazza che si rispetti, aveva il suo bravo oratorio; una costruzione moderna d’un verdino slavato, poi c’era la casa del parroco; antica e quasi bella con tutti quei mattoni bruniti dal tempo, e in mezzo maestosa sorgeva la chiesa.
Il campanile, basso e tozzo, con grande soddisfazione dei miei compaesani, era appena stato rialzato; così finalmente le malelingue l’avrebbero finita con tutte quelle illazioni inopportune.
Sulla facciata della chiesa, poi, ammiccavano due enormi rosoni.
Quando attraversavo la piazza me li sentivo puntati addosso, come occhi severi che sembravano volermi dire “ la porta della chiesa è sempre aperta, anche per te”, ma io tenevo lo sguardo basso, sullo sterrato a scalciare sassi; allora credevo, e ne sono convinto tuttora, che non esista al mondo chiesa o luogo sacro dove la mia anima sofferente possa mai trovare conforto.

Così appena potevo mi rifugiavo tra le mura rassicuranti del cortile, ad ammirare la superficie scabra del portone, baluardo tra me e il resto del mondo, come un ponte levatoio tirato su in tutta fretta, mentre fuori una realtà incomprensibile m’assediava.
Il portone chiudeva un’enorme arcata e nel bel mezzo, per l’uso ordinario, era stata ritagliata una porticina sigillata da un poderoso chiavistello. Tutto il portone era fatto con un legno scuro vecchio forse di cent’anni, la parte esterna talmente consumata dalle intemperie che le venature spiccavano in rilievo come tante onde raggrumate di tempo. A volte rimanevo là ore a passarci sopra la mano, avanti e indietro fino a quando il palmo non s’arrossava tutto quanto. Ero morbosamente attratto da quella rugosità, da quel fruscio, dallo scorrere flessuoso e parallelo delle venature che si avvitavano dentro lente spirali a formare poderosi nodi, a raccontarmi di stagioni arse e gelidi inverni, improvvise carestie e grandi abbondanze, e in quel susseguirsi forse intuivo già l’ineluttabile trascorrere del tempo, il tessuto evanescente ma non per questo meno indelebile su cui si reggevano le nostre pallide esistenze.

All’interno del cortile, sul lato opposto, sotto un portico dalle colonne tozze, nei lunghi pomeriggi d’estate, s’addensava un’ombra fredda e scura. Era il nostro rifugio, quando per il troppo caldo, i genitori sprangavano le persiane e si rintanavano nelle stanze più riparate fino a che il sole non sbolliva la sua rabbia dietro le colline lanciando qualche ultimo dardo incandescente a ricordarci che tanto ci saremmo rivisti ben presto.
Accanto alle colonne erano stati sistemati enormi vasi in terracotta, vi crescevano alberelli dalle foglie tonde e grasse, d’un verde intenso, spezzato solamente dal giallo acceso dei limoni; erano così brillanti quei limoni che mi sembra di vederli ancora adesso, come se volessero rivaleggiare con il sole, in quel lontano pomeriggio, mentre sulle nostre biciclette, o meglio, sulle biciclette dei nostri rispettivi padri, pedalavamo tutti sghembi, una coscia sulla canna, la punta dei piedi che a tratti perdeva la staffa, filando via a tutta birra producendoci in esibizioni da gran acrobati, una gara dove ognuno cercava di superare l’altro con giravolte spericolate, scatti improvvisi e gran frenate. Non toccando per terra, eravamo costretti, poi, per le soste, ad appoggiare un piede sul bordo di uno di quei vasi; così, nell’ultimo tratto, viravamo di colpo, la gamba protesa come il carrello d’un aereo pronto per l’aggancio, ci lanciavamo in appontaggi spericolati, come se quei vasi fossero tante portaerei nel bel mezzo dell’oceano.
Il primo a cadere fu Davide, arrivò troppo lungo; il suo sandalo liso per le eccessive risolature svirgolò sul bordo del vaso, d’istinto abbracciò l’alberello: un abbraccio appassionato come quando correva incontro a sua madre, con tutti i limoni compresi. Rovinarono a terra, lui, la bicicletta, e il vaso che andò in mille pezzi.
Dopo un attimo di sgomento scoppiammo tutti quanti a ridere immortalandolo in una serie di foto finish implacabili: ora mentre con gli occhi sbarrati e le braccia protese arrancava menando gran manate d’aria, ora che scalciava come un mulo imbizzarrito, ora mentre con passione baciava il terreno, naso e mento compresi.
Il secondo a cadere fui io; mancai la staffa, rimasto con il piede a penzoloni, aggrappato disperatamente al manubrio, persi il controllo della bicicletta e prima d’essere disarcionato centrai in pieno il vaso subito accanto; atterrai di pancia sulla terra morbida e fresca che intanto si era sparsa dappertutto.
Dopo una ventina di minuti tutti e sette i vasi erano andati in frantumi e gli alberelli disseminati in ogni dove.
Ci guardammo ormai consapevoli che quella sera le avremmo buscate di santa ragione, ma fu solo un attimo, una fugace ombra che passò per svanire subito come nube d’estate. Tanto c’eravamo abituati, e poi, prima di sera … ce ne voleva ancora.

La cosa che sembrava sgomentarci maggiormente invece era che non sapevamo più come continuare il nostro gioco. Così fissai la grossa testa di Giorgio, soprannominato amichevolmente Cranio, poi spostai lo sguardo sul naso aquilino di Matteo detto Napa, e infine interpellai con una muta domanda gli occhi glauchi di Davide detto il Biondino, che luminoso come un arcangelo, per via di una cronica anemia che lo rendeva più simile a un fantasma che a un essere umano, riflesse di nuovo quella muta domanda su di me «Allora dai Ragno che aspetti. Su fatti venire un’idea.». Ragno ero io, per via delle braccia e delle gambe troppo lunghe, appiccicate a un busto magro, magro, carenato come quello d’un piroscafo. Ero considerato il teorico del gruppo, non ho mai capito bene perché, ma quando si trattava di trovare un nuovo gioco me li trovavo sempre tutti quanti addosso.
«Andiamo dietro, nella corte a tirare con l’arco», dissi sperando di cavarmela a buon mercato.
«Ci abbiamo giocato tutta mattina con l’arco, che palle», fece Cranio, che essendo il più grosso e il più forte era anche il capo, però a volte lo ero anch’io, a seconda delle circostanze e degli umori del gruppo; mai capito quali misteriose dinamiche determinassero certe scelte.
E così, come colpito da una folgorazione, mi venne quella malsana idea e dissi «Andiamo dietro a giocare agli indiani.»
«Ma agli indiani ci giochiamo ogni giorno», protestò il Biondino.
«Questa volta agli indiani a cavallo, che corrono nella prateria, e tirano frecce al volo.»
«Come sei cretino» rise Napa «e dove li prendiamo i cavalli?»
«Le biciclette. Mettiamo su un bersaglio, poi uno pedala e guida la bicicletta, l’altro dietro intanto tira con l’arco, ci dividiamo in due squadre e vediamo chi fa più punti.»
Ci fu un boato d’approvazione. «Sì, sì», fece il Biondino che addensando il suo ectoplasma in un leggero rossore dimostrò tutto il suo entusiasmo «vado a prendere gli archi e le frecce.»
«Ma dai,» intervenne scuro in volto Cranio scuotendo il grosso capoccione; cominciava a sentire la sua posizione di capo vacillare nuovamente «non abbiamo mai provato a portare uno in sella.»
«E chi se ne frega, cosa ci vuole? Ne ho visti tanti», lo rimbrottò Napa
Ormai era fatta il Biondino arrivò con quattro archi e le faretre ricolme di frecce. Per costruirli avevamo razziato tutti gli ombrelli dismessi del vicinato e dopo averli smontati avevamo recuperato le stecche d’acciaio dell’intelaiatura. Sei di queste avvolte con un sottile filo di ferro e poi tese da una corda diventavano un archetto che sviluppava una potenza micidiale, ma la parte più incredibile erano sicuramente le frecce. Ricavate da una sola stecca a un’estremità le avevamo ribattute fino a forgiare una punta sottile e tagliente. Quando li avevamo provati ne eravamo rimasti impressionati noi stessi. A una decina di metri, quelle sottili aste d’acciaio, si piantavano nel legno del portone con un colpo secco mentre continuavano a vibrare minacciosamente come se indispettite volessero proseguire la loro corsa a tutti i costi. A volte entravano talmente in profondità che eravamo costretti a usare grosse pinze per estrarle.

C’eravamo sentiti subito grandi cacciatori, camminavamo per i campi imbracciando l’arco con la freccia incoccata, guardinghi, il busto piegato in avanti, imprimendo alle gambe un leggero dondolio, come facevano certi guerrieri africani, quando per coronare il passaggio all’età adulta dovevano abbattere il loro primo leone. Così tiravamo a tutto quello che capitava, sia che strisciasse, cinguettasse, o nuotasse, pensando ogni volta a una qualche belva feroce; magari una tigre siberiana acquattata dietro un rovo di more nel bel mezzo della savana, oppure un leone ruggente che balzava sbucando tra le asperità levigate delle montagne rocciose, o enormi bisonti che pascolavano tranquilli tra le sabbie dei deserti texani, perfino un narvalo, dal corno lunghissimo, preso a cavalcioni di una grossa baleniera tra gli atolli corallini. In realtà il nostro trofeo più prestigioso era stato un ramarro, massacrato nel tentativo di ricavarne una cintura che nei nostri sogni più sfrenati avrebbe dovuto guadagnarci folle d’ammiratrici assiepate ai bordi della strada mentre noi sfilavamo in parata fino a raggiungere la piazza.
Così quel pomeriggio tutti baldanzosi uscimmo sulla strada trascinandoci dietro le biciclette e l’armamentario al completo e dopo aver aggirato l’isolato raggiungemmo la corte sul retro che si apriva direttamente tra i campi: un lato occupato dalla stalla, con disseminati un po’ ovunque macchinari agricoli.

Avevamo messo in piedi una balla di fieno e proprio in mezzo, appeso per il collo, pendeva l’orsacchiotto di Maria. Maria, cinque anni, era arrivata di soppiatto, e come sempre rimaneva a guardarci a debita distanza ormai rassegnata all’idea che non avrebbe mai fatto parte della nostra banda. Per convincerla a prestarci l’orsacchiotto, tenuto gelosamente stretto tra le braccia, le avevamo ventilato l’idea che se assolveva all’autorevole compito di fare da segna punti sarebbe diventata una dei nostri. Aveva acconsentito, non senza una certa riluttanza e adesso, forse pentita, era là con gli occhi sgranati e lucidi mentre in sella ai nostri destrieri, tra urla d’incitamento e sbandate paurose, tiravamo frecce cercando di centrare l’orsacchiotto.
Il primo a trafiggerlo fu il Biondino portato in sella da Cranio. Cranio esultò come un ossesso lanciandomi feroci occhiate di sfida. Adesso era la loro squadra in vantaggio; dovevo rimontare a tutti i costi. Con una fortuna sfacciata feci due centri, uno dietro l’altro, prima che Napa, il mio pilota, con una virata assai maldestra prendesse in pieno una profonda buca. Finimmo dritti tra le fauci dello spandifieno parcheggiato proprio lì accanto. Ci vollero gli sforzi congiunti di Cranio e del Biondino a cui alla fine si era unita anche Maria per liberarci da quei lunghi denti ricurvi. Inutile dire che essendone usciti illesi trovavamo quell’ultima bravata estremamente esilarante, mentre il Biondino ci spiegava quanto eravamo buffi piantati là dentro a testa in giù con le gambette magre che scalciavano l’aria. Naturalmente ne andavamo fieri, maggiore era il pericolo corso più salivano le nostre quotazioni.
Fu in quel momento che arrivò Giovanni in sella a una bicicletta nuova fiammante fatta proprio su misura per lui, e dopo qualche giro, dove mise in mostra tutta la sua bravura, si fermò a qualche metro da noi.
Giovanni viveva in una maestosa villa, dal giardino curatissimo, figlio del medico; un bambino nato col culo nel burro, come diceva mia madre, però anche tanto sfortunato; a cui non mancava niente, giocattoli che noi neanche ci sognavamo, se non fosse che era il bambino più solo che avessi mai conosciuto. Lo vedevo spesso vagare come un’anima persa, dentro quel grande giardino, mentre svogliatamente lanciava sassi contro un albero, o trascinava un grosso camion di plastica, la testa bassa, intento a guardarsi la punta delle scarpe.
Neanche i ragazzi bene lo volevano tra i piedi. Aveva un difetto congenito al palato che gli causava un’accentuata distorsione nella pronuncia. Lo avevamo soprannominato Paperino, e anche se adesso portava un vistoso apparecchio, lo stesso le parole gli uscivano dal naso, con un suono distorto e sgradevole come se volesse prendersi continuamente gioco di noi, e per quanti sforzi facesse, sortiva solamente l’effetto contrario; mi ricordava certi pagliacci a cui un tempo cucivano la bocca all’insù e continuavano a ridere anche quando le pigliavano di santa ragione, e più ridevano, più le pigliavano, più le pigliavano, più ridevano. E adesso veniva a vantarsi, con quella bicicletta nuova, nuova, rossa fiammante, il manubrio da corsa, e meraviglia delle meraviglie un cambio Campagnolo. I nostri mezzi non ci erano mai sembrati tanto antiquati, dei pesanti ferrivecchi. Ricordo ancora i ghigni sghembi stampati sulle nostre facce, cercando inutilmente di trarre dal fondo dei nostri orgogli feriti tutta la superiorità di cui eravamo capaci.
Intanto Maria si era avvicinata a Giovanni e sempre con quell’espressione enigmatica del suo bel visino, gli occhioni sgranati, se ne stava in piedi ad ammirare affascinata il luccichio delle cromature di quella bellissima bici.
«Dai sali» l’aveva incoraggiata Giovanni.
Lei senza dire niente, nel suo vestitino corto, corto, aveva alzato le braccia; così una mutandina bianca e due gambette paffutelle avevano cominciato ad arrampicarsi con movimenti lenti ma determinati.
Appena fu in sella, Giovanni, con mugolii di giubilo che gli uscivano dal naso, cominciò a giostrare pedalando a tutta birra. Portava la bicicletta con tale maestria che cominciammo a lanciarci occhiate di mutuo soccorso. Che adesso si stesse spupazzando Maria in giro per l’aia, esibendo tutta la sua bravura, poi era un affronto intollerabile. Così con un cenno d’intesa partimmo due a due.
Facevamo di tutto per indispettire Giovanni, gli tagliavamo la strada, cercavamo di tamponarlo, tiravamo i capelli a Maria. Ma eravamo quasi sempre noi ad avere la peggio, i ruzzoloni non si contavano, e più erano le cadute più sentivamo una rabbia sorda e cocciuta montarci dentro.
Poi erano cominciati a volare gli insulti; quando Giorgio lo aveva canzonato dicendogli Paperina e lui di rimando lo aveva chiamato Zuccone, Giorgio non ci aveva più visto, alla prima occasione gli si era buttato addosso con tutto il peso della sua bicicletta piegandogli la ruota davanti e facendolo cadere, così appena Giovanni si era rialzato aveva sputato in faccia a Giorgio scappando subito a debita distanza.
Fu mentre cercavo di prenderlo alle spalle che sentii quel sibilo, e dopo un batter d’occhi vidi comparire la freccia nel fianco sinistro di Giovanni: gli usciva da parte a parte e lui, gli occhi sbarrati, la testa china, incredulo, aveva cominciato a sfiorare l’asticciola con le dita; giù, giù, lungo il metallo fino a intingere i polpastrelli nel cerchio rosso, che intanto si stava allargando a vista d’occhio sulla maglietta, mentre il suo viso sbiancava di pari passo. Cranio mi lanciò un’occhiata esultante, adesso aveva nuovamente guadagnato la posizione che gli spettava. Fu quando Giovanni notò il sangue cadere dal risvolto della maglietta fin sulle scarpe che lanciò quel terribile urlo e cominciò a correre.
«Non dobbiamo lasciarlo scappare!» abbaiò Cranio lanciandosi al suo inseguimento.
La seconda freccia gli trapassò una coscia. Giovanni cadde a carponi, ma anche in quella posizione sgambettava veloce come un levriero lanciando urla terribili, come certi maiali, che una volta capito che li si vuole accoppare, scappano per tutta l’aia nel disperato tentativo di salvarsi la vita. La cosa che mi stupì invece fu che quelle urla erano tal quali alle nostre, senza difetti di pronuncia, o qualsivoglia distorsione e questo me le rendeva ancora più insopportabili, era inutile tapparsi le orecchie, non c’era ostacolo che le fermasse, così presi arco e faretra e raggiunsi gli altri che intanto gli si erano già fatti addosso.
«Se arriva a casa siamo fritti», mi sentii dire quando tesi la corda mirando dritto al cuore, ma la freccia dovette trapassargli solamente un polmone, perché adesso si era messo a piangere e a sputare sangue, e questo sembrava avergli dato ancora più slancio. Fu allora che ci prese quella frenesia, quella rabbia astiosa di chi dopo aver colpito la preda a morte si accorge che questa si fa beffa di lui continuando a correre più veloce di prima; e così, come predatori incattiviti che hanno fiutato il sangue e non vogliono rinunciare al loro trofeo, c’eravamo messi tutti quanti a tirare frecce all’impazzata con una ferocia da cecchini, muovendoci coordinati, come se un istinto primordiale si fosse impadronito di noi. Ci spostavamo a scatti, simili a una pattuglia da combattimento, sincronizzando i movimenti, freccia dopo freccia, gambe leggermente divaricate, tiro dopo tiro. Cranio ci incitava, io avevo in bocca il sapore amaro dell’adrenalina misto a quello dolciastro del sangue, un gusto che non dimenticherò mai più.
Giovanni in breve era diventato tal quale a un portaspilli, un portaspilli però che chiamava la mamma, che implorava pietà, che pregava aiuto. Non sapevo che ci volesse tanto a morire. Si accasciò solo quando, mirando al collo, gli piantai una freccia subito dietro l’orecchio. Cadde di muso, col busto in avanti, la faccia nel terreno, le braccia immobili abbandonate lungo i fianchi e il culo ancora per aria, mentre, sempre a carponi, continuava a spingere con le ginocchia che scivolavano in una poltiglia fradicia di sangue e piscio. Non sapevo neanche che si potesse morire un pezzo alla volta. Dalla bocca schiumava con un sibilo ributtante. Quelle gambette, poi, come animate da volontà propria, continuavano a spingere inutilmente. Fu allora che Cranio arrivò con un grosso macigno e cominciò a colpirlo sulla testa sempre più forte fino a che le gambe non si fermarono e quel rantolo assurdo cessò.
Alzammo gli occhi senza dire una parola, guardandoci l’un l’altro; avevano quella strana luce nelle pupille, una sorta di esaltazione allucinata mista a un gran senso di schifo, non so, ma probabilmente era la stessa luce che mi annebbiava la vista, e mi faceva sentire come se il mondo mi girasse vorticosamente attorno senza più alcun punto di riferimento. Fu il Biondino il primo a parlare.
«Maria», disse alzando il braccio.
Maria stava scappando tutta traballante sulle sue gambette paffutelle, con una falcata corta, ma molto efficace.
«Dobbiamo fermarla», articolai con uno sforzo sovrumano, mentre sentivo i primi sensi di colpa salirmi dalle viscere.
Furono Cranio e il Biondino a lanciarsi all’inseguimento. Napa intanto si era messo a girovagare tra le biciclette riverse per terra. Barcollava leggermente. Gli fui subito accanto. Notai il suo naso pallidissimo, più pallido di qualsiasi cosa avessi mai visto. Fu in quel momento che seppure in maniera informe realizzai che questa non ce l’avrebbero mai perdonata, che per noi era la fine, e al pensiero, che ci avrebbero bastonati a morte facendoci fare la stessa fine di Giovanni, i sensi di colpa, la paura, lo schifo, svanirono in un attimo lasciando il posto a una fredda e lucida determinazione, mentre Napa piegato in due stava rigettando tutto quanto il pranzo consumato a mezzogiorno.
Cranio e il Biondino tornarono tenendo Maria per le braccia, lei abbandonata tra loro a peso morto, le punte delle scarpine ridicolmente piantate nel terreno a disegnare, dietro, due lunghi binari.
«Se parla siamo fritti», disse Cranio cercando di sovrastare il pianto disperato di Maria. Vidi Napa prendere l’arco incoccare una freccia. Mi misi tra lui e Maria. «Fermo», gli intimai.
«Non possiamo mica lasciarla andare», intervenne il Biondino.
Gli strappai Maria dalle mani e la spinsi contro la balla di fieno, poi dissi agli altri di tenersi pronti. Maria continuava a piangere e a tremare, a urlare ripetendo che eravamo dei bruti, di mettere via le frecce che le facevano tanta paura, che lei era buona e noi cattivi, e che non aveva fatto niente. A qual punto la scossi per le spalle e le dissi, basta oppure ti cuciniamo come un porcellino allo spiedo, e feci cenno agli altri tre che prontamente alzarono gli archi. Mi spostai perché vedesse che si trattava di un vero e proprio plotone d’esecuzione, pronto a infilzarla a un mio semplice cenno.
Maria smise di piangere all’istante paralizzata dal terrore.
«…è tutta colpa tua» continuai «noi non centriamo niente, Giovanni è come se l’avessi ucciso tu.»
«Non è vero, siete stati voi», reagì cocciuta ricominciando a frignare.
«Se non salivi sulla sua bicicletta non sarebbe successo niente. Non dovevi farlo, non era dei nostri, ci hai tradito, così abbiamo dovuto eliminarlo, e tutto per colpa tua.»
«Non è vero, non è vero…», ricominciò a urlare ancora più forte di prima, ma con un tono diverso, ormai consapevole che in qualche modo anche lei era coinvolta.
«Se stai zitta non ti succederà niente, ma ricordati che se scoprono quello che abbiamo fatto, veniamo di notte, ti trasciniamo fuori dal letto, e ti accoppiamo come un piccolo maialino.»
Per essere più convincente feci un cenno al Biondino, indicando con gli occhi l’orsacchiotto che penzolava ancora appeso per il collo subito sopra la testa di Maria. Una frazione di secondo dopo una freccia lo trapassò da parte a parte.
Lo consegnai a Maria che lo tenne in grembo, gli occhi sbarrati, fissi su quell’asta come se uscisse dritta dal suo cuore.
«Adesso devi aiutarci», le intimai mentre estraevo la freccia. «Ormai sei dei nostri.»
«Però giuratemi che non mi farete male.»
«Se stai ai patti nessuno ti farà toccherà. Altrimenti… d’accordo?»
«D’accordo», rispose chinando la testa scossa dagli ultimi singulti.
«Dobbiamo far sparire tutto quanto» mi girai di scatto.
«Certo, ma dove?» fece Cranio.
«Nel letamaio» saltò su il Biondino, «lo copriamo con il letame.»
«Bravo furbo, così appena concimano lo trovano.»
«Lo sotterriamo», disse Napa
«E se qualche animale poi scavando lo trova?»
«E allora?» chiese Napa.
«Lo bruciamo,» fece Cranio «dai facciamo un bel falò e bruciamo tutto quanto.»
Non sembrava una brutta idea. Eravamo già tutti quanti partiti a cercare pezzi di legna, paglia e quant’altro. Anche Maria, la mutandina al vento, raccoglieva rametti qua e là.
Poi mi resi conto che era un’idea assurda, il fumo e il puzzo ci avrebbero traditi, e poi le ossa. «Le ossa non bruciano» saltai su a dire.
Ci bloccammo tutti quanti all’istante in preda al più completo sconforto, tanto che Napa, disperato, aveva preso per una caviglia Giovanni, che intanto era rimasto sempre là congelato in quell’assurda posizione, prono, le gambe ripiegate sotto il culo e il busto riverso a terra come un tronco abbattuto, i palmi rivolti al cielo, cercando di trascinarlo via.
«Fermo,» gli intimai «il carretto che tuo padre usa quando va a raccogliere l’erba.»
«Il carretto?»
«Lo carichiamo sul carretto, poi lo copriamo di fieno, lo portiamo fino al Buco del Frate e ce lo buttiamo dentro.»
Il Buco del Frate era un pozzo carsico che si apriva come una stretta fenditura sulle pendici di una collina poco distante. Si diceva che non avesse fondo o almeno i rari esploratori che vi si erano avventurati avevano rinunciato all’impresa dopo pochi metri, riportando resoconti agghiaccianti dove profondissimi baratri si attorcigliavano in labirinti bui talmente spaventosi che sembravano sprofondare a precipizio fin dentro le viscere della terra. Perché poi lo avessero chiamato Buco del Frate non saprei proprio dire, forse qualche eremita, o magari un tempo c’era caduto dentro veramente un frate, anche se guardando la collina da una certa angolazione, la prima che si affaccia sulla pianura, la parte superiore fatta di nuda roccia ha proprio la forma di un cappuccio visto da dietro, e più in basso appena terminato quello sperone calcareo, il declivio si ammorbidisce in modo quasi simmetrico da entrambi i lati e il cappuccio sembra appoggiarsi su due spalle che poi scendono di nuovo ripide a sagomare un busto che finisce in un robusto rigonfiamento. Ecco quel buco sembra cadere proprio là, giusto, giusto, nel bel mezzo di quel rigonfiamento.

Napa corse nella stalla e poco dopo uscì trascinando il carretto; due ruote saldate a una struttura in metallo, assi come fondo, e una stanga per agganciarlo appena dietro la sella. Io e il Biondino andammo nel fienile a raccogliere grosse manciate di fieno, quando ci sembrò sufficiente, coprimmo le assi, poi Cranio e Napa presero il corpo di Gianni e non senza una certa fatica e ve lo adagiarono sopra.
«Anche la sua bicicletta», ordinai risoluto.
«La bicicletta no, me la tengo io», saltò su Cranio.
Lo presi per la cintola e gli tirai su le braghette corte di colpo in modo che il cavallo s’infilasse tra le palline spiccandole ai lati opposti, operazione per quell’età non troppo dolorosa, ma alquanto disarmante «Anche gli archi e le frecce buttiamo, tutto quanto» ringhiai a pochi centimetri dal suo viso, il sangue agli occhi. Anche se Cranio era più forte di me non me ne fregava niente, con la rabbia che mi sentivo in corpo avrei massacrato di botte chiunque. Tutto quel disastro era cominciato per colpa sua e non volevo che adesso sempre per colpa sua ci scoprissero.
Stranamente non reagì, e anche il biondino che aveva cominciato a protestare dicendo che il suo arco non lo avrebbe mai buttato, appena gli lanciai un’occhiata assassina, senza più fiatare, raccolse tutte le nostre armi e le gettò sul carretto, accanto al corpo di Giovanni. Si era reso conto che ormai avevamo superato quel limite, e che ora avremmo potuto uccidere ancora in qualsiasi momento senza battere ciglio, il tabù era stato infranto, ed eravamo tutti quanti lì in bilico. Così presi anche il masso imbrattato e lo caricai sul carretto. Mi sembrava che non mancasse niente quando vidi Maria corrermi incontro la manina alza che stringeva uno strano oggetto, «Anche questo,» ci disse «anche questo dobbiamo buttare sul carretto.»
Quando fu più vicina mi accorsi che era il palato in plastica di Giovanni.
Quando mi chinai per abbracciare Maria, consapevole che ci aveva salvato, lei si scostò e con occhi impauriti si diresse verso il carretto infilando la protesi in mezzo al fieno, poi si girò scrutandoci uno ad uno come per accertarsi che avessimo capito, che lei stava dalla nostra parte, che non ci avrebbe mai tradito.
Mentre il Biondino e Maria erano rimasti a occultare le ultime tracce di sangue, Cranio montò sulla bicicletta e cominciò a trainare il carretto scortati da me e Napa. Il paese a quell’ora era deserto tranne qualche ragazzino che come noi che s’aggirava perso nei suoi giochi. Arrivammo alle pendici della collina in un battibaleno e ci infilammo subito nel folto del bosco da cui si inerpicava il sentiero che portava alla grotta. Spingendo il carretto, tra imprecazioni e continui sobbalzi, protetti dalla folta vegetazione, finalmente arrivammo all’imbocco della voragine .
Gettammo tutto quanto là dentro: il cadavere, la bicicletta, gli archi, il masso e l’apparecchio odontoiatrico di Giovanni, rimanevano solamente alcune tracce di sangue sui nostri vestiti, ma con tutti i gomiti e i ginocchi sbucciati quelle macchie non ci preoccupavano più di tanto.

Quando tornai a casa trovai mia madre ad aspettarmi in soggiorno. Sapevo già che le avrei prese e lo sapeva anche lei. Era là pronta, tutta impaziente di castigare quel figlio discolo che non passava giorno senza che non ne combinasse una. Ormai era diventato un rito. Io che appena la vedevo là ferma, le braccia conserte, scappavo in cucina, lei che mi rincorreva gridando, vieni qua disgraziato che adesso te ne do tante che te le ricordi finché campi, io che scappavo cominciando a girare intorno al tavolo e lei dietro sempre più veloce, che non riusciva mai ad acciuffarmi. Allora quando le mancava il fiato e diventava tutta rossa, spingeva il tavolo contro l’angolo della cucina fino a imprigionarmi contro il muro. A quel punto, dall’altra parte del tavolo, partiva una gragnola di sberloni che naturalmente paravo sprofondando la testa tra le braccia. Raramente qualche colpo arrivava a segno, lo sapeva lei, lo sapevo anch’io, ma tanto bastava perché in quel modo sfogasse tutta la sua rabbia e la frustrazione non solo per le mie marachelle, ma anche per una vita troppo dura e priva di soddisfazioni. Oppure quando era stanca e non aveva troppa voglia di correre, allora prendeva la scopa, e in quel modo almeno una legnata sulla schiena non me la levava nessuno, e faceva parecchio male, ma la seconda stranamente arrivava molto più leggera, quasi una carezza. A quel tempo non capivo perché avendo la possibilità finalmente di darmi una santa remenata come Dio comanda, non andasse fino in fondo, pensavo ingenuamente che la scopa fosse troppo pesante e che lei troppo debole per maneggiarla in quella posizione così scomoda, con le braccia tutte protese in avanti, non ce la facesse, e non che comunque, in fondo, come in seguito mi resi conto, ero sempre suo figlio, e che i figli non si massacrano di botte o almeno non si dovrebbe, ma in quel momento ricordo che quello era il mio desiderio più grande, che mia madre me ne desse tante da farmi perdere i sensi, da causarmi un dolore talmente forte da scacciare quell’altro che invisibile si era insinuato dentro di me e non ne voleva più sapere di andarsene, talmente intenso che mi strozzava l’anima senza alcun motivo; non c’erano né ferite, né escoriazioni, né bastonate, che lo giustificasse, e come in seguito poi mi resi conto, non esisteva nemmeno niente che avesse il potere di farlo andar via.
Così rimasi là fermo davanti a lei, impalato su quelle gambette troppo magre, la guardia abbassata, mentre due potenti sberloni mi girarono la faccia prima da una parte poi dall’altra. Fu mia madre a spaventarsi per prima, vidi un’ombra di terrore attraversarle gli occhi mentre un gusto caldo si diffondeva in bocca e il sangue cominciava a colarmi giù per il naso. E la mia delusione fu grande quando ricomparve con un fazzoletto e tutta tremante cominciò a tamponarmi il naso, a piegarmi la testa all’indietro, a farmi aprire la bocca per controllare i denti. Anche il fischio alle orecchie purtroppo stava diminuendo e di pari passo di nuovo quel dolore sordo e invisibile aveva cominciato a rimontare, un male dell’anima che provavo per la prima volta e che da allora non mi avrebbe mai più abbandonato.
Poi anche lei si riebbe, e quando constatato che non era successo niente di grave mi guardò con quel fare sospetto e mi disse scrutandomi «Non è che ne hai combinata una ancora più grossa.»
«Più grossa di che?» chiesi cercando di guadagnare tempo mentre impallidivo visibilmente.
«Di tutti i vasi rotti e le piante distrutte?»
«No mamma, niente, ma dai poi non l’abbiamo mica fatto apposta.»
«E guardati tutto sporco, pieno di botte, le ginocchia sbucciate, i vestiti da rammendare, adesso tocca a me pulirli>>. Poi quasi supplicandomi «Perché fai sempre disperare così tanto la tua mamma» e mi abbracciò forte, anch’io l’abbracciai forte, non volevo più lasciarla, solo quel calore sembrava lenire quell’altro dolore. Avrei voluto tanto rimanere così per sempre perché ormai il mondo fuori era diventato brutto e mi faceva tanta paura. Fu lei a scioglierci da quell’abbraccio e a distanziarmi per scrutarmi nuovamente con quell’espressione sconcertata sul viso: capii che dovevo farmi forza, che così avrebbe scoperto ogni cosa, o magari alla fine, io stesso, le avrei spifferato tutto quanto. Finsi un sorriso «E’ pronto da mangiare? Sai ho una fame», mentii spudoratamente.
Lei si riebbe, scosse leggermente la testa «Su dai vai a cambiarti e lavarti che tra poco si mangia», e ricominciò ad armeggiare tra i fornelli.
Inutile dire che quella cena fu una delle peggiori della mia vita, anzi sicuramente la peggiore, cacciavo giù la minestra a forza fingendo un gran appetito e sorridendo continuamente, con gli occhi lucidi, gonfi per lo sforzo, che a volte sembrava volessero uscirmi dalle orbite; mio padre, seduto dall’altra parte del tavolo che torvo, ogni tanto lanciava un’occhiata interrogativa a mia madre e lei che in tutta risposta alzava le spalle. Poi fingendo un bisogno improvviso corsi in bagno e rigettai tutto quanto.

Il giorno dopo mia madre mi disse di Giovanni, che non era più tornato a casa, mi chiese se per caso non l’avessimo visto. Poi le stesse domande me le fece un tipo con una grossa pancia stipato dentro una divisa da carabiniere. Io ripetevo sempre la stessa storia, scuotendo la testa, allargando le braccia tutto dispiaciuto.
Intanto mia madre aveva cominciato a fare delle cose strane, per esempio i vestiti che indossavo quel giorno li aveva messi nella candeggina ed erano usciti completamente bianchi, e poi proprio lei che risparmiava anche sul centesimo era arrivata con un paio di scarpe nuove, e me le aveva messe sfilandomi le mie ancora perfettamente sane, ma che erano cosparse da minuscole macchioline rosse, dicendomi queste le buttiamo.
Un mattino Napa mi aveva detto di averla vista frugare nel fienile e poi per tutta la stalla. Un’altra volta l’avevo trovata io tra i campi con un bastone in mano che fingendo di cercare radicchi stava aprendosi un passaggio dentro un folto boschetto, poi aveva continuato esplorando tutti i fossi del vicinato.
Anche dove il Biondino e Maria avevano coperto le tracce di sangue lasciate da Giovanni era capitata una cosa strana. Qualcuno, forse il padre di Cranio, aveva scaricato un cumulo di ceppi per il fuoco che di solito stavano al coperto.

Un giorno mia madre mentre stava risciacquando i piatti e io seduto ai suoi piedi facevo girare sul pavimento un’autina trovata nel fustino di un detersivo mi disse «Sai che hanno ricoverato Maria.»
Deglutii a fatica sentendomi gelare il sangue. «Ricoverata? Come ricoverata?»
«E’ in ospedale, ha incominciato a deperire poverina, e nessuno sa il perché, sembra non voglia più mangiare.»
Ormai ero sicuro che Maria, là rinchiusa nell’ospedale, circondata da medici e infermieri, alla fine avrebbe confessato tutto quanto. Inutile dire che i giorni seguenti per me furono un vero e proprio calvario.
Cominciarono notti assiepate da sogni terribili dove i genitori di Giovanni e tutto il paese mi ricorreva e io non riuscivo a scappare con i piedi sprofondati dentro una poltiglia di fango e sangue, allora mi circondavano e cominciavano pestarmi con randelli, vanghe, e tutto quello che gli capitava per le mani, e poi il più robusto di loro prendeva una mazza e mi dava un gran colpo proprio nel bel mezzo della fronte, e così mi trovavo con la bocca inondata di sangue, allora la mia insegnante diceva, presto dobbiamo far sparire il corpo, conosco un posto dove nessuno lo può trovare, dentro il Buco Del Frate, presto buttiamo il corpo dentro il Buco del Frate, continuava a ripetere credendomi morto. Così mi caricavano in spalla, ma io non ero morto e allora urlavo, urlavo, gridavo a squarciagola piangendo disperato che si stavano sbagliando che ero ancora vivo, ma quelli sembravano non sentirmi per niente, e poi mi buttavano in quella terribile voragine e così precipitavo, precipitavo e precipitavo, lo stomaco in bocca, senza più riuscire a respirare, mi svegliavo con la bocca completamente spalancata in un grido muto, tutto sudato, immerso nel silenzio irreale della mia cameretta, rotto solo dal ticchettio della sveglia.

Invece Maria non parlò, non parlò mai più, morì una settimana dopo. Me lo disse mia madre mentre stringendomi forte, tutta preoccupata nel vedermi pure io così deperito, come se si trattasse di un’epidemia. Dopo quella notizia sentii come un gran sollievo, un peso insostenibile che mi si toglieva dal cuore. Ripresi a mangiare e subito dopo sprofondai in lunghi sonni ristoratori.
Così un poco alla volta ricominciammo a giocare di nuovo tutti quanti insieme, e poi ognuno prese la propria strada. Da allora non ci siamo quasi mai più rivisti.

So che Giorgio fa l’avvocato, difende i delinquenti della peggior specie, quelli che hanno commesso i crimini più efferati, e non si da pace finché non riesce a farne assolvere almeno uno. Le sue arringhe sono così piene di fervore che attirano sempre una gran folla, come se ogni volta cercasse di assolvere, insieme all’imputato, anche se stesso, cancellare quel peccato terribile che nessun giudice gli potrà mai condonare.

Matteo fa il cronista di nera in un giornale locale. Quando in provincia succede qualche fattaccio i suoi articoli sono tra i più letti. Ha un fiuto particolare nel rovistare tra le passioni più torbide, nel far emergere i lati perversi, nel mettere a nudo intrecci e relazioni che nessuno sospettava, nel raccogliere pettegolezzi, insinuare invidie, cattiverie, sospetti anche nelle persone più integerrime.

Davide è entrato nella polizia, so che adesso fa l’ispettore, indaga per lo più nell’ambito della delinquenza minorile. E’ conosciuto come un duro, le bande lo temono, sanno che se Davide li punta non hanno scampo, che non si darà pace finché non finiranno tutti quanti in galera a scontare una parte della pena che spetterebbe anche a lui.

Io faccio il medico senza frontiere. Appena terminati gli studi ho cominciato a girovagare per il mondo finendo sempre nei posti più disgraziati. Adesso mi trovo in un piccolo villaggio del Congo, qui nel mio ambulatorio, per fortuna con i muri di pietra, ma ancora con il tetto di paglia. Curo bambini, cerco di salvarne il più possibile.
Però sono stanco, gli anni cominciano a farsi sentire, e vorrei tanto andarmene. Ma quando faccio per alzarmi c’è sempre qualcosa che mi trattiene.
Basta, ho deciso, afferro lo schienale pronto ad alzarmi e fuggire, raggiungere casa mia, la mia famiglia che non vedo da mesi. Poi invece mi trovo a dire, “avanti un altro, poi un altro, un altro ancora” come se mi mancasse sempre qualcosa. Allora mi abbandono di nuovo sulla sedia perché dalla finestra, in fondo alla fila, ci sono quegli ultimi due bambini che mi sembra di conoscere, hanno gli occhi sgranati e mi guardano, forse sono proprio loro: gli occhi di Giovanni, gli occhi di Maria.

© Gianluigi Lancellotti





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