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Umani
di Gianluigi Lancellotti
Pubblicato su PBSI2008


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Umani.

Trincea. Notte.

Butta acqua fredda e sporca. Avrei preferito una bella nevicata. Invece il fango ci sta inghiottendo, un poco alla volta.
Cerco riparo tra gli obici da 450, l’unico posto ancora asciutto dentro questa trincea. Mi rannicchio in un angolo, il bavero rialzato, con un solo chiodo fisso, dormire. Respiro a fondo l’odore acre della polvere da sparo, almeno copre il fetore della carne in putrefazione che appesta l’aria; brandelli d’uomo lasciati marcire nella terra di nessuno.
Finalmente lo sento arrivare questo benedetto sonno, ma è fatto di bocche spalancate, cadaveri riversi, corpi smembrati, e…un urlo lontano che si avvicina sempre di più, eccolo: mi segue, mi rincorre, mi acchiappa. Apro gli occhi, cazzo no, mi ha svegliato un’altra volta. E’ quello là, quello ancora vivo, dev’essere nascosto da qualche parte, buttato in uno di quei crateri, incapace di muoversi, ma gli è rimasto un gran fiato, tutto il fiato di questo mondo, e manda il suo grido straziante, disumano, a intervalli regolari. Scommetto che nessuno riesce più a dormire qua dentro. Tra un po’ mi verranno a cercare, ne sono sicuro; anzi sono già qua; sento parlottare, «…gira a sinistra, subito dietro le bombe da mortaio.» Intuisco tra un passo e l’altro.
Uno scarpone mi scuote. Faccio finta di niente, rimango accovacciato, la testa appoggiata allo zaino, ma quello insiste. «Devi andare là fuori e farlo smettere.» E’ Franzoni il nostro sergente, lo riconosco dalla voce. Con lui ho confidenza, ne abbiamo fatte di offensive insieme. «Affanculo,» rispondo «vacci tu.»
«Nessuno riesce più a chiudere occhio qua dentro.»
«Scolatevi un altro po’ di grappa.» Ringhio.
Non risponde, gira sui tacchi e se ne va piegato in due. Forse l’ho sfangata.
Questa volta mi ci metto d’impegno, sono quasi addormentato quando di nuovo un piede mi scuote.
«Che cazzo…» mi giro rabbioso.
«Il capitano ti vuole a rapporto, immediatamente.» M’intima Franzoni.
«Brutto stronzo.» Sussurro tra i denti tirandomi su.
«Se continui così finisci davanti alla corte marziale.» Fa lui
«E tu con una pallottola nella schiena.» Contraccambio io.
Rimane zitto, so che mi teme. Così mentre percorriamo la trincea tutti curvi gli rincaro la dose
«Questa me la paghi bastardo, domani guardati alle spalle.»
«Se sarai ancora vivo.» Ghigna.

Mi trovo nel bunker ufficiali, ritto davanti al capitano, anzi non proprio davanti, ma tutto spostato da una parte, di sbieco, accanto alla stufa. Il capitano non s’infuria, non mi ordina di mettermi sull'attenti al centro della stanza. Brutto segno.
«Senta Grimaldi, lo sa perché l’ho fatta chiamare vero?»
«No.» Affermo deciso.
Un’impercettibile contrazione gli attraversa il volto; Bonivar si chiama, capitano Bonivar, ma riprende subito il controllo, fa finta di niente, in un altro frangente mi avrebbe spedito a pulire latrine, invece adesso sorride tutto compiaciuto; giuro, al posto di quel sorriso mille volte meglio le latrine.
«Deve andare là fuori a chiudere la bocca a quel disgraziato. Domani voglio una truppa pronta al combattimento e non dei rammolliti morti di sonno.»
«Signor capitano, è… è… un suicidio» balbetto mentre sposto il peso da un piede all’altro, la testa china, a fissare il pavimento «ho la licenza pronta… sa dopo sei mesi filati …già firmata dal colonnello, ancora tre giorni…poi finalmente… mia moglie e mio figlio…, capisce.» Mi sorreggo al mio moschetto 91 perché il parlare in quel modo mi ha fatto venire su un gran magone, e sento le gambe molli.
Il capitano si alza paonazzo in volto «Della sua licenza me ne strafotto, lei deve andare là fuori e far smettere quel disgraziato, è un ordine, ha capito! Se rifiuta la deferisco alla corte marziale! La faccio giustiziare!. E la smetta di appoggiarsi al fucile, qui sull’attenti, davanti a me!»
«Sì signor capitano! Agli ordini signor capitano! Certo signor capitano!» Scandisco chiaro e forte scattando come un automa. Lo so, lo conosco questo bastardo dai baffetti impomatati, mi farebbe fucilare così su due piedi come se niente fosse, è già capitato, ma giuro una pallottola nella schiena non gliela toglie nessuno, neanche a lui.
«E si porti quella recluta che le sta sempre appiccicata al culo… Minghetti, si ecco Minghetti.»
«Signor Capitano posso benissimo farcela da solo…» protesto.
«Bastaaaa….!!! I miei ordini non si discutono! Lei deve solo ubbidire e basta, ha capito!!!?.»
«Sì signor capitano! Certo signor capitano! Agli ordini signor capitano!» Ripeto tutto impettito battendo i tacchi.
«E adesso vada, e se tornate che quello là fuori è ancora vivo vi accoppo con le mie mani, qui sul posto!»
«Si signor capitano! Agli ordini signor capitano!… Affanculo signor capitano.» Biascico sulla soglia poco prima di uscire. So che ha sentito e che adesso sarà viola dalla rabbia, ma ormai cosa può fare contro un morto che cammina?.

Mi portano Minghetti, è pallido e trema, non ha ancora diciannove anni, ed io che ne ho ventitré ma con due anni di guerra in più sulle spalle sembro già suo padre. Tremo anch’io, ma riesco a controllarmi che se capisce che ho paura quanto lui ci mettiamo tutti e due a piangere come bambini.
«Siamo fregati, vero?» Chiede tutto rigido, la faccia tirata che sembra un teschio.
«Non è detto.» Ma la mia voce suona poco convincente anche a me.
«Quel bastardo perché non la smette?» Domanda continuando a scrutarmi.
Anche nella penombra, non c’è niente da fare, la faccia da morto vivente non si cancella, così lo prendo per il bavero e lo scuoto di brutto, con cattiveria. «Adesso basta! Abbiamo una missione da compiere! Dobbiamo pensare solo a quello, hai capito!?»
«Certo…certo… ho ..capito.» Mi fa lui balbettando sorpreso dalla mia reazione.
«Gli austriaci là fuori, sono precisi, non fanno mai niente per caso.» Così dicendo sollevo la manica e pulisco il vetro dell’orologio da polso, un cronometro automatico Longiness che spacca il secondo, l’ho preso ad un ufficiale austriaco, uno di quelli a cui ho risparmiato un sacco di sofferenze. Controllo i lampi di luce lattiginosa dei riflettori che, sopra le nostre teste, si diffrangono nel pulviscolo di questa pioggerella maligna; hanno un loro ordine, anche se a prima vista non si direbbe.
«Prepariamoci!» Lo avverto e intanto tiro su manate di fango e comincio a cospargere Minghetti.
«Ma che fai? Non ho già abbastanza freddo.» Protesta.
«Affanculo il freddo, dobbiamo mimetizzarci.» E non gli risparmio nemmeno la faccia. Quello sputa e bestemmia.
«Adesso anche a me.» Gli ordino.
Sembra provarci gusto, mi tira certe manate che sputo terra e sassi anch’io. Bene comincia a reagire, è meglio un fante incazzato che uno paralizzato dalla paura. Poi lo afferro per le spalle fissandolo dritto negli occhi «Non possiamo commettere errori, quando dico “fuori” usciamo dalla trincea, avremo venti secondi per strisciare nel buio, tu dietro, poi immobili per un minuto, di nuovo quindici secondi di oscurità per avanzare, poi due minuti fermi, altri venticinque secondi di buio, un altro minuto fermi e via da capo. Capito.»
«Certo.»
«Ripeti.»
«Usciamo, venti secondi, buio, avanziamo; poi un minuto, luce, fermi; quindici secondi, buio avanziamo; due minuti, luce, fermi; venticinque secondi, buio, avanziamo; un minuto, luce, fermi, e via da capo…»
«Bravo!» Lo incoraggio con una gran manata sulla spalla.
«Sei pronto?»
«Pronto.» Risponde mettendosi il fucile a tracolla.
Sbuffo sconsolato, è così che queste reclute si fanno ammazzare come tante mosche; li vedo sempre correre dalla parte sbagliata, accasciarsi uno sull’altro, a gruppi, come greggi impazzite.
«I fucili li lasciamo qua, e anche l’elmetto.»
«Ma andiamo disarmati?» Mi guarda sgomento.
«L’elmo e il fucile è la prima cosa che notano, e poi ci sarebbero solo d’impiccio. Basta la pistola.»
«Ma io la pistola non ce l’ho.»
«Cazzo» Impreco, è vero non è in dotazione, ma noi anziani ce ne siamo procurata subito una, è la prima cosa che abbiamo fatto, che nel corpo a corpo è l’arma migliore e se ti trovi segato in due e magari respiri ancora ti puoi sempre tirare una revolverata, che poi a dire il vero dove dobbiamo andare non serve neanche la pistola serve; mi slaccio la fondina di tela e gliela passo, «Tieni,» gli dico «a me basta questa.» e gli mostro la baionetta. Così almeno con una pistola al fianco si sente più sicuro.
Controllo il puntino fosforescente dei secondi che scorre uno scatto dopo l’altro verso il nulla che ci attende. «Ora.» Sussurro rauco.

E siamo fuori, striscio sul ventre dandoci di gomiti e ginocchia, che adesso questo fango quasi lo amo e vorrei che mi inghiottisse facendomi sparire; conto mentalmente, poi mi fermo, immobile, giusto in tempo per vedere la luce del fascio riflessa a pochi centimetri dal mio naso. Fermo così per un minuto. Il freddo adesso mi è arrivato fin dentro le ossa. Dev’essere così la morte, un torpore gelido che ti cancella il corpo e la mente.
Minghetti batte i denti subito dietro; è terribile questa sensazione, battiamo entrambi i denti e non sappiamo se per il freddo o la paura.
Buio, scatto di nuovo in avanti, aggiro le buche d’obice, seguendo la direzione delle urla, ormai non ci manca molto. Tra poco lo raggiungo, ma proprio quando comincio a pensare che potremo anche farcela dalla nostra trincea arriva un gran tramestio e poi un “basta, non ne posso più” seguito da una serie di spari. Subito i riflettori cominciano a muoversi freneticamente, come impazziti.
Dalla trincea austriaca parte una raffica di mitraglia, a cui risponde la nostra. I bengala vengono lanciati uno dietro l’altro; adesso qua nella terra di nessuno sembra pieno giorno, anzi un assolato pomeriggio estivo. Giro la testa appiattito più che posso; Minghetti si trova dietro, ad una ventina di metri, accanto ad una fossa, è impossibile che non ci vedano «buttati dentro» gli urlo con la voce strozzata. Non se lo fa ripetere due volte, scivola via e scompare. Io invece sono completamente allo scoperto, in una posizione infelice, indietro non posso tornare, che di schiena sono un bersaglio ancora più facile ed il riparo più vicino si trova ad almeno una decina di metri davanti a me.
Comincio a strisciare il più velocemente possibile, ma sento partire una raffica di mitraglia, vedo i traccianti volare bassi e sollevare alti schizzi di fango leggermente spostati sulla mia sinistra, un soffio agghiacciante mi sfiora facendomi cambiare direzione. Individuo un nuovo riparo, ma un’altra raffica mi sbarra la strada, via a destra, subito un muro d’acqua e fango mi riempie gli occhi e la bocca, sputo bestemmiando, mezzo accecato; si stanno divertendo un mondo quei bastardi, stanno giocando come fa il gatto col topo, e dalla mia trincea neanche uno sparo di copertura, tanto inutile sprecare colpi, ormai sanno che sono spacciato. Mi tiro su quattro zampe e comincio a gattonare via sparato come un razzo, che così magari li farò crepare dal ridere, ma se riesco a raggiungere quella buca che sembra così vicina li frego. E via zigzagando, ma ogni volta vedo i traccianti partire e sfiorarmi d’incanto. Scommetto che adesso gli austriaci staranno sghignazzando dandosi gran manate sulle spalle, e questo pensiero mi fa incazzare, anzi di più, salire il sangue agli occhi, non voglio diventare il loro pagliaccio per poi essere comunque ammazzato come un cane, e poi basta, se questa è la mia ora, così sia. Mi fermo alzandomi sulle ginocchia, spalanco il cappotto, apro la giacca, e mostro la camicia bianca che così non possono sbagliare «Dai sparate bastardi, sparate beccamorti che non siete altro, sparate qua, è così facile, anche un ragazzino ci riuscirebbe.» Urlo.
Cala un silenzio irreale, il riflettore puntato negli occhi, aspetto il colpo che mi butterà a terra, ma non succede niente. Percepisco la paura montarmi dai piedi e conquistarmi un poco alla volta, «Bastardi figli di puttana,» comincio a piangere «sparate, e sparate, muovetevi!»
Poi odo una voce provenire dalla trincea austriaca « itglian…» S’inceppa ma si riprende subito “Italiano, vai muoviti, farlo star zitto, noi dormire, capito, italiano noi voler dormire, vai, muoviti.» «Italiano, vai muoviti.» Mi dice un’altra voce. «Presto, altrimenti questa volta noi mirare giusto.».
Certo hanno capito cosa sono venuto a fare qua, hanno visto che sono disarmato, che sono senza fucile e senza elmetto, ed hanno capito. Mi tiro su in piedi, pregando dalla felicità, intanto quello lancia un altro dei suoi urli strazianti. Individuo la fossa dove s’è rifugiato. Gli austriaci mi regalano un altro paio di bengala che illuminano la scena a giorno e puntano i riflettori davanti a me; mai vista tanta premura neppure da parte dei miei. Avanzo barcollando e inciampando con le gambe che mi reggono a stento, poi mi calo nel cratere di una granata da cinquecento.
Lui è là coricato su un fianco, sembra ondeggiare, ma è solo l’effetto della luce dei bengala, lo zaino sotto la testa e tiene le braccia strette intorno al ventre. I bengala si spengono, sparisce; ci vuole un attimo prima che mi abitui alla penombra dentro la fossa. Mi avvicino strisciando, gli passo una mano sulla fronte, scotta come un forno, lui ha un sussulto «Non avere paura,» gli dico «sono vento a portarti via, a portarti in salvo.»
Si gira e intravedo una specie di sorriso
«Finalmente.»Sussurra con un filo di voce.
Ha gli occhi chiari, un naso sottile, il mento ben squadrato, neanche diciannove anni, sembra anche bello: penso a sua madre e tiro un gran bestemmione, ma certe cose è bene non pensarle, non devo pensare. Mi metto dietro a lui, seduto, allargo le gambe e appoggio la testa sulla mia coscia carezzandogli i capelli imbrattati di fango, poi lo giro lentamente. Si lamenta, ma non urla più, il pastrano è intatto, ancora abbottonato, ha solamente una grossa macchia sul davanti, ci metto su una mano, è inzuppato di roba scura: sangue. Apro con precauzione un bottone, lui emette un flebile gemito «Cos’ho?» Mi chiede «non riesco a muovere le gambe.»
«Niente, un graffio vedrai che appena arriviamo al campo i medici ti rimettono in piedi, e poi un mese a casa, in licenza premio.»
«Sì.» Afferma passandomi una mano intrisa di sangue sulla guancia.
Infilo le dita sotto il pastrano, le sento sprofondare tra le budella tiepide, è aperto da cima a fondo. Si tratta di una di quelle maledette schegge oblique e ti s’infilano senza nemmeno sgualcirti il pastrano. Mi era capitata una cosa del genere appena arrivato, durante un’offensiva, non stavamo neanche correndo, ci eravamo fermati un attimo, io e il mio compagno, cercando di capire da che parte cadevano le granate quando mi dice “cazzo mi sto pisciando addosso” mi giro e ai suoi piedi effettivamente vedo allargarsi una gran chiazza, ma rossa, allora gli apro subito il pastrano e le sue interiora esplodono fuori come tanti palloncini; adesso non farei più un errore del genere. Riallaccio il bottone; è spacciato, morto, non c’è più niente da fare e poi da solo non riuscirei mai a trascinarlo fuori da qui.
«Adesso ce ne andiamo,» gli sussurro sfiorandogli l’orecchio con le labbra «tieniti pronto, ti prendo per la testa e cerco di tirarti su, sentirai un po’ male, ma vedrai non è niente.»
«Sì» mi fa «Andiamo, portami via, non voglio morire qua.»
«Certo, ci penso io.» Lo rassicuro
Non uso la baionetta è troppo grande, poco precisa, se ne accorgerebbe. Dalle fasce avvolte intorno alle caviglie estraggo un coltellino affilato come un rasoio. Lo afferro per il mento, poi fingendo di trascinarlo via lontano da qui gli piego la testa; così anche con questa penombra mi viene tutto più facile. Provo a tirare un po’ più forte come se volessi sollevarlo, mentre cerco l’angolazione migliore; con un colpo deciso gli infilo la lama dritta nel collo recidendogli di netto la vena jugulare. Sento la sua bocca spalancarsi all’istante mentre esala un lungo rantolo, gli occhi girati, pieni di stupore, fissi su di me. Ma lo spavento dura poco, rimangono congelati in quella posizione, le pupille che cominciano a dilatarsi mentre la sua testa si affloscia un poco alla volta tra le mie braccia. Negli ultimi spasmi il cuore pompa disperatamente lanciando lunghi schizzi sul terreno, ma lui è già incosciente, con il cervello svuotato. Tengo la sua testa tra le braccia e la cullo finché non sono terminate anche le ultime contrazioni.
Poi lo ricompongo con cura, dal taschino interno del pastrano estraggo il suo tesserino di riconoscimento. Massimo si chiama. Gli carezzo la fronte, “Massimo, Massimo che non voleva morire, domani ti porteremo via da qui.” sussurro continuando a cullarlo.
Per la prima volta sento una grande calma, un’indifferenza assoluta verso il mondo, la guerra, la morte, tutto quanto. Mi alzo in piedi, esco dal cratere, se gli austriaci mi vogliono sparare, sparino pure. Gli austriaci non sparano, anzi con i riflettori continuano a farmi strada.
Raggiungo Minghetti.
«Dai Minghetti esci da lì, torniamo alla nostra trincea.»
«Sicuro?» mi fa lui con la testa appena fuori dalla fossa.
«Sicuro.» Gli dico.
Esce e mi abbraccia, sento che mi vuole bene, come ad un padre, e lo abbraccio anch’io mentre dai suoi occhi scendono grossi goccioloni.
«Andiamo,» gli dico «dai coraggio.»
E mentre c’incamminiamo vien su un gran magone anche a me, comincio a scuotere la testa incredulo; gli austriaci ci stanno lasciando andare, non riesco a crederci, ci stanno proprio lasciando andare, sembra impossibile. Fisso Minghetti «Però in fondo… in fondo…dentro di noi…»
«Dentro di noi… cosa?» chiede Minghetti con due occhi che sembrano fanali.
«quanto siamo umani.» mi scappa
«Hai ragione,» risponde lui dandomi delle gran manate sulla schiena «finalmente riusciremo a dormire.».



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