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Entro e osservo la superficie delle mie pareti vi è una danza di luci che illuminano di sbieco forme di petali Ove quelle si incontrano, come contorsionisti che si afferrano, Queste si allungano, solitarie, per ampliare respiri e guadagnare spazi Sono troppo distanti, alcun fiore arriva a sfiorarsi.
Il terreno è ricoperto da uno spesso strato di polvere azzurra; distende e attende, distende e attende, distende e attende, in un concerto continuo, unico rumore percepibile nelle gocce di sudore che solcano i seni, sono i semi biancastri che si gettano nella spuma, che la attraversano, avidi si impossessano del suo dolore, le portano via la possibilità di ritrarsi, e la condannano a una immobilità perversa, che si aggira su sé stessa, creando piramidi che sono solo salite.
I suoni sono gemiti, fendono l’afa e si posano su distese di mani, galoppano sulle loro linee sconnesse accarezzano i loro incontri indagano le tracce lasciate, alla ricerca di volti da sradicare; combattono con i segni del tempo, una lotta di soffi ove i caduti si confondono con i proiettili in un vorticare indeciso tra l’abbraccio e il coltello.
Nella penombra non ci sono acuti Sulla superficie non ci sono corpi Nel retrobottega alcuna gabbia Sul palco alcuna sedia Solo un’indecente richiesta di attesa.
Di forme, di labbra, di denti, di nostro, di corpo, di acqua, di sabbia, carne e vene, viscere e catene. Non vi è silenzio, non vi è rumore.
Un impercettibile scrosciare che arriva da lontano, che trasporta nella desolazione tartara una coltre di ricordi; vi sono solchi vuoti, essi sussurrano i solidi che li occupavano un tempo vi sono rive aride, essi raccontano degli intrecci che vento e passione vi disegnavano vi sono campi ammaccati, essi cantano le stringhe che vi si rincorrevano vi sono lenzuola linde, essi piangono le figure sporche che vi si perdevano.
Nel fondo Una finestra Due leggere code blu Unite da una nuca accarezzata
sono solo unghie che sferzano una bara
©
Elena Rebecca Cerri
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